Il filtro opaco

Gioviale ma di scorza dura, padre Bob McCahill ha passato i settant'anni e continua tenacemente a cercare non di dialogare con i sapienti della comunità islamica, ma di incontrare la gente che suda e soffre vivendo la fede in cui è nata, per portare loro un tocco del Regno.

Il filtro opaco

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Sveglia alle quattro, preghiera, colazione; alle sette è sulla bicicletta. Ogni giorno macina decine di chilometri in città, fuori, dovunque ci sia un malato o qualcuno con problemi fisici. Non è medico, non distribuisce soldi, non dirige strutture né organizzazioni. Una volta la settimana va a Dhaka in autobus, con due o tre persone che affida a qualche progetto di interventi gratuiti ora su un labbro leporino, ora su cataratte o su un piede deforme. Pernotta e ritorna alla stanzetta in affitto che è cucina, studio, cappella, salotto, e dove dorme con la bicicletta accanto alletto. A chi chiede risponde: «Sono un missionario cristiano, seguo il mio profeta, Gesù, che 'passò beneficando e risanando' (At 10,38)».

Gioviale ma di scorza dura, padre Bob McCahill ha passato i settant'anni e continua tenacemente a cercare non di dialogare con i sapienti della comunità islamica, ma di incontrare la gente che suda e soffre vivendo la fede in cui è nata, per portare loro un tocco del Regno. Tronca subito ogni polemica: «Sì, sono americano, ma non sono Bush. Sì, credo che Gesù è figlio di Dio, che è uno e trino, ma bisticciare su Dio è da pazzi». Verso le 15 torna a casa e riposa, poi celebra l'eucaristia, studia, scrive e chiacchiera con chi va a trovarlo. Riso e verdure per la cena, e poi a letto.

Tre anni di questa vita per «beneficare e risanare», poi, come Gesù, «passa»: insalutato ospite, va e ricomincia altrove, dove nessuno ha mai conosciuto un cristiano. Padre Bob è felice di vivere così il tentativo più radicale e genuino che io conosca di effettuare un «primissimo annuncio» chiaro e rispettoso, fra le genti dell'islam.

Non critica nessuno, ma il suo stile di vita interroga gli altri missionari, inseriti nelle piccole comunità cristiane e impegnatissimi in scuole, parrocchie, dispensari, ostelli, catechesi, organizzazioni. È lo stile giusto?

È doveroso ammettere che molti di noi creano e dirigono strutture, si affaticano in costruzioni e organizzazioni, perché non sanno fare altro. Abbiamo bisogno di un ruolo che ci dia un certo potere, ci faccia tenere il coltello per il manico, di una scrivania fra noi e l'interlocutore, di una comunità che ci avvolga; immersi «alla pari» fra la gente, tanto più fra credenti di altre religioni, ci sentiremmo smarriti. Più che fare missione, facciamo opere missionarie e la testimonianza si arena: ammirano l'efficienza, invidiano la disponibilità economica, sospettano motivazioni nascoste o di conquista. Non si arriva al cuore.

Però non è sempre e solo così. Tanti hanno iniziato più o meno come padre Bob, per sentire poi che la carità evangelica chiedeva di offrire un aiuto più efficiente e più ampio.

Suor Silvia Gallina, un ciclone di attenzione, affetto e compassione per i poveri, negli anni Sessanta-Settanta era forse l'unica donna in Bangladesh a guidare una Vespa, con cui faceva la spola fra le case dei malati e l'ospedale, portando a rotta di collo anche le partorienti. Erano gesti immediati, da cui sprizzava la sua carica umana e una fede senza parole. Ma ha forse amato e testimoniato meno quando, per accogliere chi veniva da lontano e per aiutare più malati, s'è organizzata costruendo per loro un rifugio, ha maneggiato soldi dei benefattori, ha dato tempo (brontolando) alla contabilità?

Prendendo carne, il Verbo ne ha accettato l'opacità, per cui molti lo hanno frainteso, negato e calunniato; ne ha accettato il peso fino alla croce. Liberarsi di tutto perché risplenda meglio la grazia del Vangelo, o sporcarsi le mani perché essa trasformi e plasmi la vita quotidiana? Un guru che vivesse di esercizi ascetici e astrazioni spirituali, dimenticando la polvere, il sudore e la fragilità sua e dei fratelli sarebbe testimone solo di se stesso, tanto quanto un «missionario manager» che si preoccupasse soltanto del perfetto funzionamento delle sue opere, pastorali o sociali che siano. Il metodo ha valore, ma è sempre e comunque un filtro «opaco». Il Vangelo passa da persona a persona, si legge negli occhi, si percepisce nella passione con cui seguiamo Cristo nella sua incredibile missione di dare a Dio un cuore di carne.

Abbiamo bisogno di padre Bob e di suor Silvia, di interrogarci sul ,nostro modo di essere uomini e donne fra altri uomini e donne, loro e noi «nudi» davanti al mistero di Dio. E abbiamo bisogno di non trovare risposta a queste domande.

Franco Cagnasso

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