Io sono sempre stato “sorpreso” dalla vita.
del 01 gennaio 2002
Hong Kong, Pasqua 1977
Io sono sempre stato “sorpreso” dalla vita.
E siccome credo che Dio sia Vita, così com’ è Luce e così com’è Amore, penso davvero che sia stato proprio Lui a “sorprendermi” nel mio cammino.
Dio è sorpresa. Dio è novità. Dio è creatività.
Quando, dopo il mio lungo soggiorno nel deserto del Sahara, ebbi la gioia di rivedere Papa Giovanni, mi chiese fissandomi con quei suoi occhietti vivaci e penetranti: “Dimmi, prima di andare laggiù in Africa, ci avevi pensato? Era stata una cosa premeditata? Nella tua vita, durante il tuo impegno qui a Roma in Azione Cattolica, non avevi qualche volta intravisto la possibilità di farti piccolo fratello; non avevi mai intuito che la tua vita sarebbe cambiata, che ti saresti fatto religioso... eccetera?”.
No, gli risposi, proprio no. Fu di sorpresa che Dio mi ha chiamato ed è in pochi giorni che decisi l’accettazione di ciò che credevo sua volontà partendo per l’Africa... Non avevo mai pensato prima di allora a questa svolta.
E il Papa, fissando mi con un sorriso: “Capita sovente così. Si va a finire là dove non s’era mai pensato... Anche a me è capitata la stessa cosa... non ci avevo mai pensato”. E continuò a sorridere guardando lontano da una finestra che dava sul lago di Castel Gandolfo.
E così Dio che è “sorpresa” mi ha condotto questa volta in Cina. Ma... non per fare un viaggio in più: ne ho fatti tanti di viaggi. La novità sta che non me l’aspettavo e soprattutto non mi aspettavo ciò che Lui voleva dirmi proprio qui a Hong Kong, in questa città così uguale eppure così diversa da tutte le altre città; su questa immensa portaerei dove sbarcano uomini da tutti i continenti e dove il commercio su scala mondiale riesce a far sorridere i cinesi della Repubblica Popolare con quelli di Formosa e dove nello stesso grattacielo s’incontrano giapponesi, coreani, americani, europei, arabi e indiani, tutti pronti a sorridere pur di far buoni affari.
Mao Tse-tung diceva: “A Hong Kong le galline fanno le uova d’oro” e per questo la manteneva così col suo statuto speciale anche se – se avesse voluto – poteva occuparla in poche ore.
Hong Kong mi è apparsa come la vera città del domani, ancorata su acque senza confini e con strade disseminate all’inverosimile da templi agli idoli come erano Corinto e Atene al tempo di S. Paolo. I nomi dei templi sono: Bank of AmericaThe Hong Kong Shanghai Banking Corporation – Bank of China – The Chartered Bank – Bank of Tokyo – Banque Nationale de Paris – Dredsner Bank – The Chase Manhattan Bank – The Hang Seng Bank – Bank of Bangkok – Amsterdam Bank, eccetera.
Peccato davvero che questi templi abbiano facciate tutte uguali e che la fantasia non abbia piùspazio nella idolatria moderna.
Ma forse è proprio la mancanza di fantasia e immaginazione di questi templi che mi ha fatto trovare la più bella sorpresa tra i giovani cinesi che ho incontrato.
E mi spiego.
Sapendo della mia venuta a Hong Kong un gruppo di amici ebbe la bontà di tradurre le mie Lettere dal deserto in cantonese e di farle uscire a puntate sui giornali locali. lo non so come sia avvenuto: io so che al mio arrivo mi trovai assediato dai lettori. Non mi era mai capitato un fatto di questa portata. Notte e giorno fui assillato da telefonate, incontri, richieste di adunanze, inviti.
E il tema era unico: il Vangelo di Gesù.
Ho ancora davanti a me quegli occhi brillanti dei giovani cinesi che volevano conoscere il Cristo e che mi interrogavano appassionatamente.
Evidentemente i templi degli idoli pagani non avevano conquistato tutti. Lo Spirito del Signore alitava su queste masse di giovani operai, intellettuali, studenti e li interrogava sulle realtà invisibili, sul significato della esistenza, sul perché della vita.
Fratel Carlo, come posso imparare a pregare? Come posso pensare alla presenza di Dio nel mondo?
Cosa significa fare il deserto nella propria esistenza?
Cosa significa “Regno” di Dio?
Come debbo vivere le Beatitudini?
Soprattutto era il Vangelo a inquietarli. Quei giovani educati in una delle varie religioni di Hong Kong sentivano la vecchiezza dei loro catechismi, la staticità delle loro pratiche, l’immobilismo delle loro istituzioni.
Non erano contenti, questo era chiaro. Volevano ascoltare una parola nuova e questa veniva fuori sempre dal Vangelo di Gesù.
Più la religione era in crisi nelle loro coscienze, più il Vangelo picchiava alle porte e il vento dello Spirito s’incaricava di renderlo attuale e appassionante.
Le parole che li galvanizzavano di più erano: Beatitudini – Povertà – Preghiera – Impegno – Comunità – Uguaglianza – Non violenza – Contemplazione – Gratuità – Parola di Dio – Spirito.
Questi giovani educati nei grandi collegi ricchi e puliti della città sentivano 1’attrazione verso i poveri della periferia, gli emarginati, gli oppressi e abbandonate sovente le loro pratiche tradizionali di pietà si raccoglievano a pregare in piccoli gruppi spontanei che prendevano vita un po’ ovunque e che trovavano la loro sede negli innumerevoli grattacieli che danno ad Hong Kong il primato di una città moderna incastonata in una baia che con la baia di Rio de Janeiro si contende il primato della bellezza.
Ma come a Rio si contende anche il primato delle differenze sociali, gli squilibri nella distribuzione delle grandi ricchezze, il sublime e l’orrendo, che reca con sé il miscuglio degli uomini che si passano vicino con le loro lacrime nascoste e con la sete di felicità irraggiungibile.
Sì, è proprio qui a Hong Kong, in questa città dove tutti lavorano come formiche, l’assenza quasi totale della difesa degli operai specie i più poveri. Finché lavori e rendi stai in piedi perché contribuisci alla creazione di questo orribile idolo del potere, ma appena sei malato e vecchio sei fatto fuori senza pensione e assistenza.
Mi diceva una ragazza sensibilissima e povera: “Mio nonno quando ha lasciato il lavoro è rimasto senza aiuto. Ha continuato per un po’ ad arrangiarsi ma quando è arrivato al traguardo delle sue forze, ha lasciato un biglietto in casa ed è scomparso gettandosi da uno scoglio nella baia. 1 cinesi sovente preferiscono morire in silenzio suicidandosi che continuare a pesare sulla famiglia, numerosa e povera”.
È terribile!
Ma è proprio in queste situazioni disumane e feroci che il fenomeno del Vangelo rompe la crosta della terra e irrompe nelle coscienze.
Ed io l’ho talmente sentito che – ve lo confesso per la prima volta nella mia vita ho desiderato vivere ancora per annunciare la parola di Dio.
Non mi era mai capitato di pensarlo. Sarà per debolezza, sarà che per aver fatto esperienza di Dio capisco abbastanza ciò che mi attendo dalla. morte, ho sempre desiderato non allungare la mia permanenza su questa terra.
Ho provato cosa dice S. Paolo al pensiero di sbarazzarsi del peso della terra: “Per me certo la vita è Cristo e morire è un guadagno. Però se la mia vita nella carne può essere utile per il Vangelo, ecco... io esito nel fare la scelta. lo mi sento preso da questa alternativa: da un lato desidero andarmene per essere col Cristo, ciò che è senza dubbio preferibile; ma d’altra parte se dimorare nella carne è più urgente per il vostro bene, sì, questo mi persuade: io so che resterò per essere con voi” (1 Filippesi, 21-25).
Non si può esprimere meglio l’attitudine interiore di chi vive di fede e si sente preso tra l’amore di Dio che lo chiama e l’amore dei fratelli che lo Impegna.
“Sì, preferisco andarmene ma... se per il Vangelo posso essere utile, allora rimango”.
A Hong Kong ho sentito la gioia di vivere per annunciare la Buona Novella.
Quale felicità annunciare agli uomini che siamo risorti in Cristo, che la storia va verso la vita non verso il caos, che le nostre lacrime sono contate, che tutto ha un significato perché Dio è il Vivente ed è Padre.
Sì, per questo merita vivere, merita prolungare la propria esistenza, merita dire come diceva il Padre de Foucauld:
“Per il Vangelo san disposto ad andare sino ai confini del mondo e vivere fino al giudizio universale”.
Fu al diciassettesimo piano di un immenso building popolare, dove mi avevano dato l’appuntamento dei giovani cinesi per un incontro.
Da ore si parlava del Vangelo, di impegno, di preghiera.
“Fratel Carlo”, mi chiese uno studente cinese di architettura che viveva ad Hong Kong ma aveva i genitori nella Repubblica Popolare nelle vicinanze di Shanghai, “ho letto le tue Lettere dal deserto e ho desiderato conoscerti. Tu sei talmente entusiasta del tempo che hai trascorso laggiù nel Sahara che puoi dare l’impressione della insostituibilità di quella solitudine. lo non posso andare laggiù. Che cosa devo fare? Devo trovare il mio Dio qui nella babele della mia città. Quale strada devo percorrere? È possibile? E se è possibile ti chiedo una cosa: perché non scrivi per noi un libro che ci aiuti a trovare il nostro deserto qui nella città?
“E non dimenticarti della Cina”.
Mi sentii commosso e nello stesso tempo interpretato fino in fondo.
Il giovane studente mi guardava con simpatia. In quel momento nel mio cuore era nato
Il deserto nella città
Fuori dalla finestra vedevo l’ammasso di grattacieli di Hong Kong che incominciavano ad accendere le luci perché era sera.
Mi ricordai che la stessa scena di grattacieli illuminati l’avevo vista la prima volta a New York. I grattacieli illuminati sembrano diamanti.
Pare impossibile che le cose più brutte diventino così vive e belle investite dalla luce.
No, non c’è niente di veramente negativo. Anche la città, sentina di corruzione e giungla di asfalto, può avere la sua luce e la sua “trasparenza”.
“Il deserto nella città”... continuavo a ripetere tra me guardando fuori dalla finestra e spingendomi lontano, lontano fino all’origine di quella parola” deserto” che era stata depositata nel mio cuore nel più bel momento della mia vita. Ripensai in quel momento alle notti sahariane, alle dune, alle interminabili piste che avevo percorso, alla ricerca dell’intimità con Dio, alle stelle indimenticabili che trapuntavano con tanta discrezione la dolcezza delle notti africane, simbolo profondo delle notti in cui la mia fede era immersa e in cui mi sentivo così bene e così al sicuro.
Il deserto vero, quello di sabbia e di stelle, era stato il mio primo amore e non mi sarei più staccato da esso se non fosse stata l’obbedienza a richiamarmi lontano.
“Fratel Carlo, hai conosciuto l’assoluto di Dio, ora devi conoscere l’assoluto dell’uomo”.
Ed ero ripartito alla ricerca degli uomini.
Ero frastornato e dovetti impiegare un po’ di tempo per ritrovare il mio equilibrio e la mia gioia profonda
Ma poi Dio mi fece sperimentare che non c’era “luogo” privilegiato dove Lui abitava ma che il Tutto era “luogo” della Sua abitazione e che ovunque tu lo potevi trovare.
“Fare il deserto nella propria vita” mi dicevo, allontanandomi a piccoli passi dalla stabilità di . quella solitudine e camminando verso un mondo totalmente diverso.
Non bastava.
Mi ci voleva Hong Kong per farmi dire che anche la città aveva la possibilità del deserto e che anche i grattacieli potevano diventare luminosi come diamanti.
Bastava avvolgerli nel buio della fede in modo che le luci apparissero come stelle nella notte.
“Ora mi ci provo” dissi al mio giovane interlocutore... “Avevo deciso di non scrivere più libri”... E poi, questo tema “il deserto nella città” mi piace. Corregge in me, e in chi come me si è troppo innamorato della solitudine, l’impressione di voler fuggire.
È così facile la tentazione specie nei... violenti... nei pigri.
Chissà!
Dio è grande!
E poi anche il seno avvizzito di Sara e la vecchiezza di Abramo può dare un figlio, bello come Isacco... se Dio vuole.
Il deserto nella città
Ed eccomi qui a rispondere a chi mi ha chiesto di aiutarlo a cercare in città l’unione con Dio, l’intimità con l’Assoluto, la pace e la gioia del cuore, l’Invisibile presente, la realtà divina, l’Eterno.
Intendiamoci subito: non è cosa facile!
Noi viviamo in un secolo tragico in cui gli uomini, anche i più forti, sono tentati nella fede.
È un’epoca di idolatria, di angosce, di paura; un’epoca in cui la potenza e la ricchezza hanno oscurato nello spirito dell’uomo la richiesta fondamentale del primo comandamento della Legge: “Amerai Dio con tutto il tuo cuore...”.
Come fare a vincere queste tenebre che opprimono l’uomo moderno? Come affrontare questo demone del mezzogiorno che attacca il credente nella maturità della sua esistenza?
Non dubito nel dare una risposta che ho provato sulla mia pelle in un momento difficile della mia vita:
Deserto... deserto... deserto!
Quando pronuncio questa parola sento dentro di me che tutto il mio essere si scuote e si mette in cammino, anche restando materialmente immobile là dove si trova.
È la presa di coscienza che è Dio che salva, che senza di Lui sono “nell’ombra di morte” e che per uscire dalle tenebre devo mettermi sul cammino che Lui stesso mi indicherà.
È il cammino dell’Esodo, è la marcia del popolo di Dio dalla schiavitù degli idoli alla libertà della Terra promessa, alla luminosità e alla gioia del Regno. E questo attraverso il deserto.
Questa parola” deserto” è ben di più che una espressione geografica che ci richiama alla fantasia un pezzo di terra disabitato, assetato, arido e vuoto di presenze.
Per chi si lascia cogliere dallo Spirito che anima la Parola di Dio, “deserto” è la ricerca di Dio nel silenzio, è un “ponte sospeso” gettato dall’anima innamorata di Dio sull’abisso tenebroso del proprio spirito, sugli strani e profondi crepacci della tentazione, sui precipizi insondabili delle proprie paure che fanno ostacolo al cammino verso Dio.
“Sì, un tale deserto silenzioso è santo ed è una preghiera al di là di ogni preghiera che conduce alla Presenza continua di Dio e alle altezze della contemplazione, dove l’anima, infine pacificata, vive della volontà di Colui che essa ama totalmente, assolutamente, continuamente” .
Vi dicevo che la parola deserto significa ben di più di un semplice luogo geografico.
I russi che se ne intendono e che su questo ci sono maestri lo chiamano “pustinia”.
“Pustinia” può significare deserto geografico, ma nello stesso tempo può significare luogo dove si sono ritirati i padri del deserto, può significare eremo, luogo tranquillo dove ci si ritira per trovare Dio nel silenzio e nella preghiera, dove – come dice una mistica russa che vive in America, Caterina de Hueck Doherty – “si può elevare verso Dio le braccia della preghiera e della penitenza in espiazione, in intercessione, in riparazione dei propri peccati e per quelli dei fratelli. Il deserto è il luogo dove possiamo riprendere coraggio, dove pronunciare le parole della verità ricordando ci che Dio è verità. Il deserto è il luogo dove ci purifichiamo e ci prepariamo ad agire come toccati dal carbone ardente che l’angelo pose sulle labbra del Profeta”.
In ogni caso, e qui è la caratteristica che voglio sottolineare, “pustinia” per i russi, e per noi che siamo sulla stessa linea spirituale dell’esperienza mistica, segue l’uomo là dove si trova e non lo abbandona quando di deserto ne ha più bisogno. Se l’uomo non può più raggiungere il deserto, il deserto può raggiungere l’uomo.
Ecco perché si dice: “fare il deserto nella città”.
Fatti una piccola “pustinia” nella tua casa, nel tuo giardino, nella tua soffitta. Non staccare il concetto di deserto dai luoghi frequentati dagli uomini, prova a pensare, e soprattutto a vivere, questa espressione veramente esaltante “il deserto nel cuore della città”.
Il Padre de Foucauld, che fu uno dei più vivaci ricercatori della spiritualità moderna, pose il suo eremitaggio a Beni-Abbes in un contesto tale da rendersi con facilità presente a Dio e presente agli uomini nello stesso momento.
E quando volle costruirvi attorno un alto muro, giunto a mezzo metro lo interruppe per facilitare agli abitanti dell’oasi di oltrepassarlo per venirlo a trovare.
Il muro rimase... come “segno” del suo monastico isolamento. Il deserto occupò più profondamente la sua vita.
Sì, dobbiamo fare il deserto nel cuore dei luoghi abitati.
È un modo concreto per aiutare l’uomo di oggi.
È un problema attuale. Se ne parla con insistenza.
È nell’aria.
Un mio amico, Pierre Delfieux, che fu con me per due anni nel Sahara, ha iniziato a Parigi una forma di vita religiosa basata proprio sull’impegno di vivere nella grande città l’ideale monastico di lavoro, preghiera, silenzio, liturgia, carità.
Non dubito quando affermo che in pochi decenni ogni città vedrà il miracolo di queste fondazioni “di urto” e lo splendore di uomini e di donne che sanno trasformare “babele” in Gerusalemme e la “deportazione” in luogo di preghiera.
Per intanto incominciamo dal poco, e veniamo al progetto iniziale. Questo libro è stato concepito come un aiuto a trascorrere una settimana di preghiera più intensa, di ricerca approfondita di Dio nel cuore dei tuoi impegni.
Scegli una settimana qualunque, non fantasticare sulle possibilità ma accetta la realtà com’è.
Tienti vicina la Bibbia come strumento indispensabile e punta sull’amore che è in te.
Come luogo non preoccuparti, perché tutto è “luogo” di Dio e “ambiente” della Sua presenza.
Per incoraggiarti, ti dirò che quando mi sono convertito avevo fatto del treno il “luogo” della mia preghiera.
Facevo il “pendolare” per motivi di lavoro e tu sai cos’ è un vagone ferroviario che parte e arriva in città al mattino e alla sera, stracarico di operai e studenti. Chiasso, risate, fumo, trambusto, pigiapigia.
Io mi sedevo in un angolo e non sentivo nulla. Leggevo il Vangelo.
Chiudevo gli occhi.
Parlavo e ascoltavo Dio. Che dolcezza, che pace, che silenzio!
La potenza dell’amore superava la dispersione che cercava di penetrare nella mia fortezza.
Ero veramente uno con me stesso e nulla mi poteva distrarre.
Sotto la presa dell’amore ero in pace.
Sì, doveva essere proprio l’amore a creare l’unità in me.
Difatti gli innamorati che si trovavano sul treno bisbigliavano tra di loro in perfetta armonia senza preoccuparsi di ciò che capitava attorno.
Io bisbigliavo col mio Dio che avevo ritrovato. “Pustinia” .
Fare il deserto nei luoghi abitati.
Fare di un vagone ferroviario un luogo di meditazione e delle strade della mia città i corridoi del mio ideale convento.
Ti dirò subito un’altra cosa che è molto importante per chi, come te, è molto occupato e dice che non ha tempo per pregare.
Considera la realtà in cui vivi, l’impegno, il lavoro, le relazioni, le adunanze, le camminate, le spese da fare, il giornale da leggere, i figli da ascoltare, come un tutt’uno da cui non puoi staccarti, a cui devi pensare.
Dirò di più: un tutt’uno attraverso il quale Dio ti parla e ti conduce.
Non è fuggendo che tu troverai Dio più facilmente ma è cambiando il tuo cuore che tu vedrai le cose diversamente.
Il deserto nella città è solo possibile a questo patto: vedere le cose con occhio nuovo, toccarle con uno spirito nuovo, amarle con un cuore nuovo.
Teilhard de Chardin direbbe: abbracciarle con cuore casto.
È allora che non occorre più fuggire, alienarsi, chiudersi tra sogno e realtà, spaccarsi tra ciò che penso e ciò che faccio, andare a pregare e poi distruggersi nell’azione, fare i pendolari tra Marta e Maria, restare perennemente nel caos, avere il cuore diviso, non sapere dove sbattere la testa. Sì, la realtà ci educa e come!
La realtà è il vero veicolo sul quale Dio cammina verso di me.
Nel reale trovo Dio molto più vitalmente che nei bei pensieri che di Lui o su di Lui mi posso fare.
Specie se è una realtà dolorosa dove la volontà è messa a dura prova e dove riscopro con più evidenza la mia povertà.
Senti cos’è capitato a me in proposito. Quando partii per il deserto avevo veramente lasciato tutto com’è l’invito di Gesù: situazione, famiglia, denaro, casa. Tutto avevo lasciato meno... le mie idee che avevo su Dio e che tenevo ben strette riassunte in qualche grosso libro di teologia che avevo trascinato con me laggiù.
E là sulla sabbia continuavo a leggerle, a rileggerle, come se Dio fosse contenuto in una idea e che avendo belle idee su di Lui potessi comunicare con Lui.
Il mio maestro di noviziato mi continuava a dire: “Fratel Carlo, lascia stare quei libri. Mettiti povero e nudo davanti all’Eucaristia. Svuotati, disintellettualizzati, cerca di amare... contempla...”.
Ma io non capivo un bel nulla di ciò che volesse dirmi. Restavo ben ancorato alle mie idee.
Per farmi capire, per aiutarmi nello svuotamento mi mandava a lavorare.
Mamma mia!
Lavorare nell’oasi con un caldo infernale non è facile!
Mi sentivo distrutto. Quando tornavo in fraternità non ne potevo più.
Mi buttavo sulla stuoia nella cappella davanti al Sacramento con la schiena spezzata e la testa che mi faceva male. Le idee si volatilizzavano come uccelli fuggiti dalla gabbia aperta.
Non sapevo più come cominciare a pregare. Arido, vuoto, sfinito: dalla bocca mi usciva solo qualche lamento.
L’unica cosa positiva che provavo e che cominciavo a capire era la solidarietà coi poveri, i veri poveri. Mi sentivo con chi era alla catena di montaggio o schiacciato dal peso del giogo quotidiano. Pensavo alla preghiera di mia madre con cinque figli tra i piedi e ai contadini obbligati a lavorare dodici ore al giorno durante l’estate.
Se per pregare era necessario un po’ di riposo, quei poveri non avrebbero mai potuto pregare. La preghiera, quindi, quella preghiera che avevo con abbondanza praticato fino ad allora era la preghiera dei ricchi, della gente comoda, ben pasciuta, che è padrona del suo tempo, che può disporre del suo orano.
Non capivo più niente, meglio incominciavo a capire le cose vere.
Piangevo!
Le lacrime scendevano sulla “gandura” che copriva la mia fatica di povero.
E fu proprio in quello stato di autentica povertà che io dovevo fare la scoperta più importante della mia vita di preghiera.
Volete conoscerla?
La preghiera passa nel cuore, non nella testa.
Sentii come se una vena si aprisse nel cuore e per la prima volta “esperimentai” una dimensione nuova dell’unione con Dio.
Che avventura straordinaria mi stava capitando. Non dimenticherò mai quell’istante.
Ero come un’oliva schiacciata dal torchio.
Al di là della “sofferenza” che dolcezza indicibile mi inondava tutta la realtà in cui vivevo!
La pace era totale. Il dolore accettato per amore era come una porta che mi aveva fatto transitare al di là delle cose.
Ho intuito la stabilità di Dio.
Ho sempre pensato, dopo di allora, che quella era la preghiera contemplativa.
Il dono che Dio fa di sé a chi gli offre la vita come dice il Vangelo: “Chi perde la sua vita la troverà” (Matteo, 10, 39).
E allora: coraggio!
Scegli una settimana per fare “pustinia”, cioè cercare il deserto nel cuore della città, nel mezzo dei tuoi impegni.
Tienti vicina la Bibbia.
Troverai qui per ogni giorno un tema da sviluppare con le indicazioni bibliche necessarie.
Ti ho fissato anche i salmi e le letture per la preghiera del mattino e della sera.
In uno di questi giorni ti confesserai ad un sacerdote.
Cerca di terminare il tuo ritiro con la commemorazione della morte e della Resurrezione di Gesù che è il giorno del Signore, la domenica, prendendo parte ad una Liturgia Eucaristica per comunicarti al Corpo e al Sangue di Gesù.
Se vuoi che il tuo deserto nella città dia frutti immediati e sensibili fa’, ogni giorno – meglio ogni notte – un’ora di preghiera contemplativa impegnando anche il tuo corpo in un atteggiamento orante come puoi imparare dalle illustrazioni.
Buon deserto!
Carlo Carretto
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