Viaggio nei discorsi di Papa Ratzinger alla scoperta del paradosso di una virtù debole che permette un pensiero forte.
del 28 agosto 2007
Ricordando Tertulliano il grande teologo africano del secondo secolo dopo Cristo, Bendetto XVI ha detto: “A me fa molto pensare questa grande personalità morale e intellettuale, quest’uomo che ha dato un così grande contributo al pensiero cristiano”. Il Papa teologo è affascinato da questa figura e la sottopone al vaglio della sua critica senza peraltro soffermarsi troppo sui contenuti della sua speculazione ma ponendo invece un problema quasi di “stile teologico”. Nel cammino di Tertulliano Ratzinger critica la ricerca “troppo individuale della verità” e mette in luce come “le intemperanze del carattere, era un uomo rigoroso, lo condussero gradualmente a lasciare la comunione con la chiesa e ad aderire alla setta del montanismo”. La stessa critica che il Papa muove alla società occidentale moderna, l’esasperato individualismo che porta alla solitudine e alla disperazione, non a caso ha parlato di un “dramma” di Tertulliano: “Con il passare degli anni egli diventò sempre più esigente nei confronti dei cristiani. Pretendeva da loro in ogni circostanza, e soprattutto nelle persecuzioni, un comportamento eroico. Rigido nelle sue posizioni, non risparmiava critiche pesanti e inevitabilmente finì per trovarsi isolato.” A questo gigante del pensiero antico cristiano il Papa riconosce la grandezza ma ne coglie anche il piede d’argilla, presentandone la diagnosi: “Si vede che alla fine gli manca la semplicità, l’umiltà di inserirsi nella chiesa, di accettare le sue debolezze, di essere tollerante con gli altri e con se stesso. Quando si vede solo il proprio pensiero nella sua grandezza, alla fine è proprio questa grandezza che si perde. La caratteristica essenziale di un grande teologo è l’umiltà di stare con la chiesa, di accettare le sue e le proprie debolezze, perché solo Dio è realmente tutto santo. Noi invece abbiamo sempre bisogno del perdono”.
La semplicità e l’umiltà predicate come virtù essenziali del teologo sono fisicamente visibili in questo piccolo e anziano Papa tedesco che suscita sempre, in chi gli si accosta con animo non prevenuto, un inevitabile sentimento di tenerezza, dall’altra questa umiltà sembra essere smentita dalla disinvoltura con cui il Papa dice e ripete i suoi messaggi: “Bordate” lanciate urbi et orbi, fuori e dentro la chiesa. Un Papa che parla chiaro, cioè semplice, ma anche forte, senza timore.
Quel fare timido e modesto con cui si presenta, così diverso dall’incedere sicuro e potente del suo predecessore, è il faticoso risultato, nella pratica quotidiana, di un cammino lungo ottanta anni. Quelle parole rivolte a Tertulliano gettano una luce su tutto il percorso di Ratzinger teologo, cardinale e Papa. Si potrebbe tracciare un cammino all’interno della predicazione di Benedetto XVI seguendo queste parole, umiltà e semplicità, quasi come la sua costellazione di riferimento e quello che scaturirebbe sarebbe un ritratto fedele dell’uomo e del pontefice. Praticamente tutti i discorsi rivelano in controluce questa riflessione continua di Benedetto XVI sul tema dell’umiltà intesa come un’esigenza, una condizione di partenza per svolgere il suo mandato di sommo pontefice e di monarca assoluto.
Un anno dopo l’elezione, in occasione della catechesi del 24 maggio 2006, il Papa si sofferma sulla figura di Pietro e sulla sua “generosità irruente” che lo porta all’amare Cristo ma anche al rinnegarlo. Commenta: “La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere niente! Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione.”
Uscito dalla “stanza delle lacrime” accanto alla Cappella Sistina, Joseph Ratzinger si è presentato al mondo definendosi “un umile servitore della vigna del Signore”. Un anno dopo, riflettendo su Pietro afferma che Pietro “deve imparare a essere niente”, il Papa deve essere “niente”, parola di Papa. Un Papa che, tra l’altro, tutto si aspettava tranne che quello di diventare successore di Pietro. Pochi giorni prima di partire per la sua Baviera, il 3 settembre 2006, Benedetto XVI aveva ricordato la figura di Papa Gregorio Magno e, nelle parole commemorative e nell’enfasi con cui sono state pronunciate, era fin troppo facile scorgere i segni di un processo d’identificazione con questa “figura singolare, direi quasi unica” di monaco benedettino divenuto Papa suo malgrado: “Cercò in ogni modo di sfuggire a quella nomina, ma dovette alla fine arrendersi e, lasciato a malincuore il chiostro, si dedicò alla comunità, consapevole di adempiere a un dovere e di essere un semplice servo dei servi di Dio”. Benedetto XVI deve ben conoscere e apprezzare questo famoso passo del suo predecessore Gregorio Magno: “Ricordo con nostalgia il periodo che trascorsi in monastero, quando mi elevavo in contemplazione al di sopra di ogni cosa mutevole e finita e non pensavo a nient’altro che alle cose del cielo… ma ora, a causa dei miei impegni pastorali, devo occuparmi di affari secolari e, dopo una visione e un riposo così dolci, sono sporco di polvere terrestre… sospiro come uno che si volta indietro a fissare la riva che si è lasciata alla spalle”. Ratzinger, si sa, voleva diventare benedettino e non poteva non appassionarsi nel ricordare quest’uomo del medio evo, “di salute cagionevole ma di forte tempra morale” che, vissuto in un periodo a dir poco burrascoso della storia occidentale, ebbe la “profetica lungimiranza” di intuire “che una nuova civiltà stava nascendo dall’incontro tra l’eredità romana e i popoli cosiddetti ‘barbari’, grazie alla forza di coesione e di elevazione morale del cristianesimo. Il monachesimo si rivelava una ricchezza non solo per la chiesa, ma per l’intera società”. Il ritratto che il Papa-teologo ha realizzato del Papa-monaco è, in controluce, un autoritratto.
 
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Giunto in Baviera Benedetto XVI rilascia un’intervista televisiva a un pool di network tedeschi e accetta di rispondere a una domanda su quale ruolo abbiano nella vita di un Papa “lo humour e la leggerezza dell’essere”. Con vero umorismo (fratello dell’umiltà) il Papa ha ammesso di non essere un umorista: “Io non sono un uomo a cui vengano in mente continuamente barzellette” ma ha aggiunto che “saper vedere anche l’aspetto divertente della vita e la sua dimensione gioiosa e non prendere tutto così tragicamente, questo lo considero molto importante e direi che è anche necessario per il mio ministero. Un qualche scrittore aveva detto che gli angeli possono volare perché non si prendono troppo sul serio. E noi forse potremmo anche volare un po’ di più, se non ci dessimo tanta importanza”. Non basta l’umiltà ma anche lo humour si rivela virtù necessaria per essere Papa. Umorismo, umiltà e semplicità. “La fede è semplice”, afferma Benedetto XVI nell’omelia della festa del Nome di Maria, l’11 settembre del 2006, e “il Credo non è un insieme di sentenze, non è una teoria” ma è l’evento dell’incontro tra Dio e l’uomo. Il cristiano è umile in quanto segue l’esempio di Dio che “si china sull’uomo; ci viene incontro e in questo modo ci avvicina anche tra noi”. Centrale nell’evento è la figura di Maria perché, come ha detto nell’Angelus del 17 dicembre del 2006, “per trasformare il mondo, Dio ha scelto un’umile fanciulla di un villaggio della Galilea”. “La fede è semplice” è anche uno stile di vita, come documentano quelle occasioni in cui, parlando per lo più a braccio con gli adolescenti, con giovani preti o seminaristi, con gli studenti e con i bambini, Ratzinger ha saputo presentare la sua raffinatissima scienza teologica con parole di una semplicità disarmante, degne di un viceparroco di campagna, senza perdere un grammo della potenza di pensiero. Cos’è che l’agostiniano Ratzinger ama di Tommaso d’Aquino? Il suo silenzio. Ricordandone la figura davanti alla Commissione teologica internazionale, il 6 ottobre 2006 Benedetto XVI ha ricordato le sue ultime settimane di vita in cui “non ha più scritto, non ha più parlato. I suoi amici gli chiedono: Maestro, perché non parli più, perché non scrivi? E lui dice: davanti a quanto ho visto adesso tutte le mie parole mi appaiono come paglia”. Da questo episodio il Papa trae lo spunto per esortare i teologi verso “una relativizzazione del nostro lavoro e insieme una valorizzazione del nostro lavoro. E’ anche un’indicazione, perché il modo di lavorare, la nostra paglia, porti realmente il grano della Parola di Dio”.
Da questa battuta si comincia a capire la portata dell’avvento di un Papa umile sul soglio di Pietro: è proprio il ridimensionamento della propria ricerca che finisce per valorizzare la forza della propria proposta. L’umiltà, la “relativizzazione”, non è solo un argomento retorico, il silenzio non è una posa ma è la sorgente della forza di ogni parola pronunciata. Il nodo centrale è quello della verità. Due settimane dopo, recandosi all’Università Lateranense il Papa sottolinea agli studenti di Teologia l’importanza dello “spazio del silenzio e della contemplazione, che sono lo scenario indispensabile su cui collocare gli interrogativi che la mente suscita”. Il silenzio non è solitudine ma energia per vivere la relazione, al fine di evitare il dramma del severo e solitario Tertulliano, che è il dramma raccontato dal mito di Icaro, il dramma della “ricerca della verità troppo individuale”, quello del “lasciarsi prendere dal gusto della scoperta senza salvaguardare i criteri che vengono da una visione più profonda”. A questo dramma il Papa contrappone un carattere umile, nel senso di “popolare”, a portata cioè di ogni uomo semplice, della verità. E’ forse questa la nota più scandalosa del magistero di Benedetto XVI, quella meno digerita dai suoi censori più o meno attenti e onesti che il Papa si diverte a prendere in contropiede citando Erasmo e il suo “Elogio della follia”: “Porre al centro il tema della verità” dice Ratzinger ai docenti e studenti della Lateranense, “non è un atto meramente speculativo, ristretto a una piccola cerchia di pensatori; al contrario, è una questione vitale per dare profonda identità alla vita personale e suscitare la responsabilità nelle relazioni sociali. Di fatto, se si lascia cadere la domanda sulla verità e la concreta possibilità per ogni persona di poterla raggiungere, la vita finisce per essere ridotta a un ventaglio di ipotesi, prive di riferimenti certi. Come diceva il famoso umanista Erasmo: ‘Le opinioni sono fonte di felicità a buon prezzo!’. Apprendere la vera essenza delle cose, anche se si tratta di cose di minima importanza, costa una grande fatica”. E’ a conclusione di questo discorso che Razinger ha rispolverato quell’affermazione, forse la più scandalosa, quando ha invitato tutti, credenti e non, a vivere nel mondo “veluti si Deus daretur”, come se Dio ci fosse.
 
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Nel discorso alla Curia del 22 dicembre scorso, parlando del sacerdozio ha detto che la “terra” ne è il fondamento, e “terra”, “humus” è la radice sia di umorismo che di umiltà; questa terra è Dio: “Dio stesso è la mia parte di terra, il fondamento esterno e interno della mia esistenza. Questa teocentricità dell’esistenza sacerdotale è necessaria proprio nel nostro mondo totalmente funzionalistico, nel quale tutto è fondato su prestazioni calcolabili e verificabili. Su questa terra che è Dio è stato piantato l’albero della croce, il paradosso più grande della fede cristiana, il rovesciamento totale che scandalizza i sapienti. Lo ricorda il Papa parlando ai preti romani esattamente due mesi dopo, il 22 febbraio 2007, in cui cita il suo Agostino che dice: “Noi siamo tutti sempre solo discepoli di Cristo e la sua cattedra sta più in alto, perché questa cattedra è la croce e solo questa altezza è la vera altezza, la comunione col Signore, anche nella sua passione”.
Le affermazioni umilmente forti e dirompenti del Papa però sono anche quelle rivolte “ad intra”, all’interno della chiesa, quella chiesa che ha bisogno di pulire la sporcizia denunciata già dal cardinale Ratzinger in occasione della Via Crucis del 2005. Suoi interlocutori preferiti i teologi e gli esegeti. Nello stesso discorso ai preti romani Benedetto XVI, citando ancora una volta Agostino, fa suo l’invito del teologo africano all’umiltà: “Se tu hai capito poco, accetta, e non pensare di aver capito tutto. La Parola rimane sempre molto più grande di quanto tu hai potuto capire. E questo va detto adesso in modo critico nei confronti di una certa parte dell’esegesi moderna, che pensa di aver capito tutto e che perciò, dopo l’interpretazione da essa elaborata, non si possa ormai dire null’altro di più. Questo non è vero. La Parola è sempre più grande dell’esegesi dei Padri e dell’esegesi critica, perché anche questa capisce solo una parte, direi anzi una parte minima”. La grandezza della Parola di Dio è fonte di grande consolazione perché “da una parte è bello sapere di aver capito soltanto un po’. E’ bello sapere che c’è ancora un tesoro inesauribile e che ogni nuova generazione riscoprirà nuovi tesori e andrà avanti con la grandezza della Parola di Dio, che è sempre davanti a noi, ci guida ed è sempre più grande. E’ con questa consapevolezza che si deve leggere la Scrittura. Sant’Agostino ha detto: beve dalla fonte la lepre e beve l’asino. L’asino beve di più, ma ognuno beve secondo la sua capacità. Sia che siamo lepri o che siamo asini, siamo grati che il Signore ci faccia bere dalla sua acqua”.
Il Papa non è niente, aveva detto parlando di Pietro, ora l’esegeta è paragonato all’asino e oggi, dopo le discussioni scaturite in seguito all’uscita del libro su “Gesù di Nazaret”, rileggendo queste parole di febbraio, viene un po’ da sorridere. Ma anche i teologi non sono trattati meno severamente. Parlando agli studenti dell’Università di Tubinga il 21 marzo scorso Benedetto XVI ha auspicato una teologia che non sia mera tecnica scientifica: “L’università, l’umanità ha bisogno di domande. Laddove non vengono più poste domande, fino a quelle che toccano l’essenziale e vanno oltre ogni specializzazione, non riceviamo più nemmeno delle risposte. Solo se domandiamo e se con le nostre domande siamo radicali, così radicali come deve essere radicale la teologia, al di là di ogni specializzazione, possiamo sperare di ottenere delle risposte a queste domande fondamentali che ci riguardano tutti. Innanzitutto dobbiamo domandare. Chi non domanda non riceve risposta. Ma, aggiungerei, per la teologia occorre, oltre il coraggio di domandare, anche l’umiltà di ascoltare le risposte che ci dà la fede cristiana; l’umiltà di percepire in queste risposte la loro ragionevolezza e di renderle in tal modo nuovamente accessibili al nostro tempo e a noi stessi. Così non solo si costituisce l’università, ma anche si aiuta l’umanità a vivere”. Il culmine di questo cammino seguendo la scia dell’umiltà, Benedetto XVI lo ha raggiunto con la pubblicazione del suo libro. Nell’introduzione egli scrive le ormai famose parole: “Non ho di sicuro bisogno di dire espressamente che questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale […] Perciò ognuno è libero di contraddirmi. Chiedo solo alle lettrici e ai lettori quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione”. Ancora un contropiede. Un Papa teologo che si spoglia del suo potere, che si mette in gioco non è spettacolo a cui i paludati osservatori delle cose vaticane erano abituati. Ora, che ognuno sia libero di contraddire il Papa vuol dire ovviamente che il Papa è libero di contraddire ognuno. Dando il via libera ai suoi lettori e critici, il Papa si libera pure lui dall’ingombro del suo ministero, spogliandosi del “randello” del magistero, egli può ancora più liberamente “randellare” a destra e manca, e lo fa.
 
Andrea Monda
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