Sono tanti i modi e le vie che i cristiani hanno oggi per realizzare la memoria di Gesù attraverso il servizio al prossimo. La Chiesa ne indica principalmente tre: far conoscere il suo Vangelo, vivere il servizio della preghiera, sentirsi responsabili degli altri, prendendosi cura con particolare attenzione dei più poveri e bisognosi.
del 04 giugno 2009
14. IL SERVIZIO
Una delle vie per vivere la memoria di Gesù e sentirsi membra del suo corpo, che è la Chiesa, consiste nel fare a nostra volta quello che lui ha fatto: servire e amare.
 
Tanti modi per servire
Sono tanti i modi e le vie che i cristiani hanno oggi per realizzare la memoria di Gesù attraverso il servizio al prossimo. La Chiesa ne indica principalmente tre: far conoscere il suo Vangelo, vivere il servizio della preghiera, sentirsi responsabili degli altri, prendendosi cura con particolare attenzione dei più poveri e bisognosi. Diversi sono i servizi e diverse le competenze, ma la responsabilità è unica: seguire Gesù. Gesù infatti continua la sua presenza in mezzo a noi e in noi attraverso il suo Spirito, che ci rende capaci di realizzare la missione che ci affida.
Il servizio nei confronti dei fratelli si è dall’inizio concretizzato in un compito molto importante: la cura del corpo di Cristo, che è la Chiesa, la comunità dei cristiani. È Gesù che dall’inizio del suo ministero ha chiamato alcuni discepoli perché stessero con lui e per mandarli a predicare. Egli li chiamò ed essi lo seguirono. Di loro formò un gruppo stabile, un “collegio”, alla cui testa pose Pietro. Lo stare con Gesù e il venire inviati da lui caratterizza il sacerdozio ministeriale nella Chiesa: il fondamento, la radice profonda dell’essere dei preti sta proprio qui. È restando uniti a Cristo, che i vescovi e i presbiteri insieme a loro guidano il popolo di Dio e conducono i fedeli sul cammino del Figlio verso il Padre.
Altri servizi sono affidati ai cristiani: tutti sono chiamati a farsi servi per amore, mettendo a disposizione degli altri con gratuità quanto hanno gratuitamente ricevuto da Dio. È la fantasia dello Spirito ad aiutarci a dare concretezza al comandamento dell’amore che Gesù ci ha lasciato come segno distintivo della nostra identità di suoi discepoli. Come insegna un’antica preghiera, “Cristo non ha mani, ha soltanto le nostre mani per fare il suo lavoro oggi. Cristo non ha piedi, ha soltanto i nostri piedi per guidare gli uomini a sé. Cristo non ha labbra, ha soltanto le nostre labbra per parlare agli uomini oggi. Noi siamo l’unica Bibbia, che tutti i popoli leggano ancora. Noi siamo l’ultimo appello di Dio scritto in parole ed opere”.
 
Il nostro vivere quotidiano come servizio offerto a Dio
L’apostolo Paolo si spinge ancora più lontano, nello sviluppo di questa “logica del servizio”: partecipando nella fede all’opera di annuncio e diffusione dell’amore di Dio per gli uomini, noi siamo in grado di trasformare tutta la nostra vita in un “sacrificio vivente”, in un grande gesto continuo di preghiera e di ringraziamento a Dio (cf. Romani 12,1). Il nostro lavoro, l’amore e gli affetti che danno calore e senso alla vita, i molti impegni che riempiono l’esistenza quotidiana possono essere trasfigurati, e assumere così un significato nuovo, se vissuti come luogo in cui rendere visibile l’amore, con cui siamo amati da Dio.
In un mondo in cui le logiche che legano gli uomini tra loro conoscono spesso il dramma del peccato e della distorsione, divenendo alienanti e disumane, servire Dio e gli altri risulta per molti aspetti faticoso: è questa fatica, tuttavia, che è stata fatta propria dal Figlio di Dio incarnato, che ha donato così nuova dignità alle opere e ai giorni degli uomini. In comunione con colui che ha lavorato con mani d’uomo e ha amato con cuore d’uomo, il cristiano riconosce nella fatica quotidiana lo strumento con il quale intervenire sulla trasformazione della realtà per conformarla al progetto di Dio, in costante relazione e dialogo con l’intera famiglia umana.
Nell’attesa dei cieli nuovi e della terra nuova, il cristiano sa di servire la causa di Dio nella causa dell’uomo. Umanizzare il mondo è servire il Signore, che vi è entrato e vi opera in vista della finale “ricapitolazione” di tutte le cose in Dio. Offerta a Dio nella fatica dei giorni, la nostra vita può divenire la via di una comunione sempre più profonda con il Cristo, redentore dell’uomo.
 
Collaboratori della gioia di tutti
Chiamato a servire, nell’impegno di ogni giorno, nella specificità dei servizi d’amore cui Dio lo chiama, il cristiano non deve mai perdersi d’animo, né cedere alla tentazione della disperazione e dello scetticismo. Il segreto che gli permette di mantenere intatta la sua capacità di leggere giorno dopo giorno i segni della salvezza di Dio, che è all’opera, sta nell’incontro fedele e perseverante con Cristo, sorgente di vera gioia.
Questa gioia dell’incontro col Signore accompagna la vita del cristiano: anche nella prova e nella persecuzione i discepoli restano “pieni di gioia e di Spirito Santo” (Atti 13,52).
La gioia è un frutto dello Spirito, conseguenza del dimorare in Dio nella preghiera e nella celebrazione del suo amore per noi, sperimentato nella fede e nella speranza: “Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Tessalonicesi 5,16-18). La gioia si coniuga così alla carità, vissuta nel portare con Cristo il peso della sofferenza propria e altrui. Servire è farsi collaboratori della gioia di tutti: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Corinzi 1,24).
Lo spirito delle beatitudini è la caratteristica inconfondibile della vita cristiana: in chi lo vive è Cristo che vive, perché è Gesù il povero, il sofferente, il mite, il puro di cuore, l’affamato di giustizia e l’operatore di pace, e nessun altri al di fuori di lui è in grado di trasformare nella gioia e nella pace dell’amore il dolore, che devasta la terra. Le beatitudini sono al tempo stesso l’annuncio e il dono della vita nuova che i cristiani portano nel mondo, il criterio e la misura della loro credibilità, la promessa delle meraviglie che la sequela di Gesù opera nella nostra debolezza, secondo una logica che la fede comprende, ma che appare perfino sconvolgente agli occhi del mondo. Ecco come le riporta l’evangelista Luca:
“Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete, perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo.
Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo.
Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti” (6,20-24).
 
Il dialogo, stile del servizio
Lo stile proprio del servizio è il dialogo, quel linguaggio dell’amore, in cui l’amore stesso si manifesta come attenzione e disponibilità agli altri. La fatica di amare si riflette perciò inevitabilmente nelle resistenze e nei rischi propri del dialogo. Come la gratuità dell’amore viene inaridita dalla possessività, così il dialogo non esiste realmente lì dove non sia suscitato da un’iniziativa gratuita, libera dal calcolo. Nulla si oppone di più all’autenticità del dialogo che la strategia o il tatticismo: dove il dialogo è strumento per dominare l’altro o per usarlo ai propri fini, lì cessa di esistere. Il dialogo ha la dignità del fine e non del mezzo: esso vive di gratuità e si propone come un’offerta di incontro che sgorga dalla gioia di amare.
Per dialogare veramente è, poi, necessario unire alla gratuità l’accoglienza dell’altro: il dialogo non si sviluppa lì dove la dignità dell’altro non è rispettata e accolta. Il dialogo ha bisogno dello scambio, in cui il dare e il ricevere sono misurati dalla gratuità e dall’accoglienza di ciascuno dei due. La massificazione - che ignora l’originalità dell’altro - esclude ogni dialogo, e quindi ogni autentico atteggiamento di servizio.
Chi pensa di non aver bisogno degli altri resterà nella solitudine di una vita senza amore. Chi si mette alla scuola dell’altro e si fa servo per amore, offrendo se stesso in dono, costruisce legami di pace e fa crescere intorno a sé la comunione. Anche nel Dio tre volte santo il Padre è eterna gratuità e il Figlio eterna accoglienza: l’eterno Amato davanti all’eterno Amante ci insegna come anche il ricevere sia divino! Veramente la gratitudine di chi si lascia amare è essenziale all’amore, almeno quanto la gratuità che ne è la sorgente.
Il dialogo, infine, è autentico quando si presenta come un’esperienza liberante, aperta agli altri, inclusiva e mai esclusiva dei loro bisogni e delle loro inquietudini. L’incontro dei due deve rendere possibili altri incontri: esso proietta fuori del cerchio dello stare a guardarsi negli occhi, verso il vasto mondo della solidarietà.
Solo così nell’esperienza del dialogo l’accoglienza e il dono di sé all’altro non si oppongono fra di loro, ma sono in certo modo l’uno la forza e l’autenticità dell’altro: ciò che è donato e ricevuto nel dialogo fra i due, esige di essere ancora offerto in sempre nuovi itinerari di amore e di servizio. Dialogando, si sprigionano le energie nascoste dell’amore, e l’esistenza, lungi dal chiudersi in se stessa, si proietta fuori di sé, facendosi servizio e dono.
Quest’apertura all’esterno non solo non mortifica la comunione di coloro che dialogano, ma la rende vera e gioiosa.
 
Oltre la fatica di amare
La fatica del servizio è la fatica stessa di amare: essa deve vincere la possessività, la chiusura egoistica e l’egoismo al plurale, che fa dei due un’isola. Perciò, la scuola del servizio è la scuola dell’amore: si comprende, allora, come si possa vivere un’esistenza piena servendo gli altri e dialogando con loro, solo se si riconosce di essere stati interpellati e amati per primi da un Altro. Come scrive sant’Agostino, “non c’è maggior invito ad amare, che prevenire nell’amore” (De catechizandis rudibus 4): così Dio ci ha insegnato ad amare! La rivelazione del mistero trinitario di Dio, culminante nell’offerta della Croce, in cui il Figlio abbandonato ci “amò sino alla fine” (Giovanni 13,1), è per la fede dei cristiani il luogo dove è possibile accorgersi di essere stati amati per primi, avvolti nel dialogo della carità divina. La fede nel Dio amore si offre come il fondamento più sicuro di uno stile di vita, plasmato dal servizio.
Dialogando con Dio e in Dio Trinità d’amore si risponde al primo Amore, nello Spirito che ci è stato donato, sull’esempio e in unione con Gesù. Dialogando con gli altri si testimonia loro di aver creduto all’amore: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli:se avete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13,35). Con il dialogo dell’amore, vissuto con Dio e al proprio interno, la comunità cristiana - in particolare quella familiare - diventa icona della Trinità, riflesso nel tempo del dialogo eterno d’amore delle tre persone divine.
Senza dialogo di adorazione e di intercessione con il Dio vivo e di sollecitudine e di amicizia verso la comunità degli uomini, la Chiesa non potrà annunciare credibilmente quanto le è stato rivelato e donato. Anche per questo Gesù ha dialogato col Padre, per insegnarci a dialogare con lui e fra noi, e insieme con tutti coloro cui ci ha inviati a portare la buona novella del suo amore infinito. Ce ne dà testimonianza il discorso di addio riportato nel Vangelo di Giovanni, che impegna i credenti in Cristo a costruire ponti di dialogo con Dio, fra di loro e con tutti, affinché il mondo creda. Eccone qualche passaggio:
“Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi… Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Giovanni 17,11.17-21).
 
Conferenza Episcopale Italiana
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