Il silenzio delle ceneri e della neve

Il silenzio è un luogo verso cui istintivamente migriamo. Da bambino ricordo nella nostra casa di campagna dei lunghi momenti di silenzio. Essi corrispondevano alle partenze improvvise di mio padre. Erano giorni in cui mia madre si chiudeva in se stessa e il silenzio in quella grande casa era per me come il cielo...

Il silenzio delle ceneri e della neve

da Quaderni Cannibali

del 13 gennaio 2009

Il silenzio è un luogo verso cui istintivamente migriamo. Da bambino ricordo nella nostra casa di campagna dei lunghi momenti di silenzio. Essi corrispondevano alle partenze improvvise di mio padre. Erano giorni in cui mia madre si chiudeva in se stessa e il silenzio in quella grande casa era per me come il cielo: cupo e gravido di grandine in prossimità delle stanze della mamma, variabile e inaffidabile come un giorno di marzo quando attraversavo le stanze vuote dei fratelli che erano a scuola, azzurro e pieno di luce quando uscivo in giardino. Ma fuori il cielo era vero e il silenzio uno sfondo su cui risuonavano i rumori che giungevano dalla campagna: l’abbaiare di un cane, il frusciare dell’erba medica se tirava vento, il passaggio di un trattore, il ronzare degli insetti se si era nella bella stagione. Accadeva, allora, che mi andassi a cercare un posto appartato dove trovare un mio silenzio e un po’ di calore, come un uccello migratore. Il più delle volte mi accucciavo in una buchetta che mi ero scavato sotto i rami di tre cipressi dai tronchi che costeggiavano la strada tracciata dalla vecchia ferrovia regia. Lì vivevo uno dei momenti più intensi delle mie giornate, quello dell’immaginazione. In quel silenzio nasceva un mondo e una felicità tutta particolare. Fino al momento in cui la cuoca usciva in giardino e mi chiamava a gran voce perché si erano accorti della mia assenza.

 

Il silenzio non è mai neutro. La sua qualità è determinata dalla parola (l’essere) di chi lo abita. Soprattutto da quella non detta. A Tel Aviv la scrittrice Lizzie Doron mi ha raccontato che da bambina ha desiderato con tutto il cuore la morte di sua madre. I suoi silenzi le erano insopportabili. Sopravvissuta ad Aushwitz e alla “marcia della morte” questa donna non ha mai voluto raccontare alla figlia la sua storia personale (per dirne una, solo dopo la sua morte Lizzie, nata in Israele nel 1953, è venuta casualmente a sapere che prima della guerra sua madre aveva avuto due figli, entrambi assassinati dai nazisti). Eppure proprio da questo silenzio sono scaturiti i libri di questa scrittrice israeliana (in Italia sono stati pubblicati da Giuntina i primi due, Perché non sei venuta prima della guerra? e C’era una volta una famiglia?).

Anche Eraldo Affinati è diventato uno scrittore per via del mutismo dei suoi genitori, schiacciati dal peso di esperienze che non erano in grado di raccontare. Il romanzo Campo del sangue (che sarà finalmente ristampato da Mondadori il 20 gennaio) nasce dal viaggio dell’autore lungo il percorso del treno che avrebbe portato sua madre all’età di diciassette anni fino ad un campo di concentramento nazista, se non fosse miracolosamente fuggita alla stazione di Udine.

Quando i tempi sono diventati maturi Lizzie ed Eraldo sono andati alla ricerca di una parola che era presente nei silenzi terribili delle loro case con la determinazione del cacciatore che ha un conto in sospeso con una belva feroce. Come Achab (lo si sarebbe detto un profeta o veggente che contemplasse le ombre del destino, racconta la voce narrante del romanzo di Melville) con Moby Dick: una questione di vita o di morte.

 

Il silenzio non è mai da scambiare con il nulla, anzi ne è l’esatto contrario. L’ho scoperto per caso nel campo di concentramento di Majdanek in Polonia, una decina di anni fa. Nevicava forte ed ero completamente solo, neppure un custode davanti al cancello spalancato. La neve in campagna ha il dono di creare un silenzio quasi totale. Sentivo solo lo scalpiccio delle mie scarpe sulla neve ghiacciata che copriva il fango del sentiero che attraversava il campo. Le torrette, il filo spinato e le baracche del lager meglio preservato dell’Olocausto erano in una quiete assoluta, ma tanto assordante che ho continuato a camminare senza mai fermarmi. Fino in cima ad una collinetta all’altra estremità del campo dove c’era una strana costruzione, un muretto circolare in cemento sovrastato da una copertura d’alluminio che pareva la punta di un gigantesco comignolo. Nel cerchio ho visto un grande cumulo di ceneri, ciò che restava di molte persone che erano state portate in quel luogo durante la guerra. Immobile di fronte a ciò che era stato bruciato nei forni crematori ho avvertito nel silenzio la sacralità di quel luogo. Per “sacralità” non intendo quel senso della Storia e della dignità dell’uomo che ti porta a venerare il Golgota di tante vittime della Shoah, ma un’esperienza più personale e ampia: l’annuncio di un finale non ancora compiuto, il termine ultimo di una narrazione ancora in svolgimento di cui il mausoleo in onore delle vittime di Majdanek è solo una virgola.

Nel silenzio che avvolgeva ogni cosa, la neve e le ceneri condividevano la stessa pace, la stessa attesa. Ed io per un attimo mi sono sentito sulla soglia di un tempo nuovo che saprei descrivere solo utilizzando le parole del profeta Isaia: Ecco infatti io creo / nuovi cieli e nuova terra; / Non si ricorderà più il passato, / non verrà più in mente / poiché si godrà e gioirà per sempre di ciò che sto per creare / e farò di Gerusalemme una gioia / del suo popolo un gaudio. [...] Non si udranno più in essa / voci di pianto e grida di angoscia/ non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni [...] il lupo e l’agnello pascoleranno insieme (Is, 65, 17 - 25). Gli occhi fissi sulle ceneri scure e compatte, fredde scintille di neve sul viso e nel silenzio di quel giorno grigio e freddo la notizia che i 360.000 di Majdanek non sono ridotti a un nulla. E quanto a me l’invito a non temere, ad imparare ad aspettare facendo il mio dovere pazientemente, radicato nel mio compito ma in attesa, come quel mucchio di ceneri sotto la copertura, come i fiocchi di neve che per un attimo si posavano sul tessuto impermeabile del mio giaccone e poi scomparivano. Per quali vie misteriose sono giunto nel silenzio di Majdanek?

 

Il silenzio è il luogo di una chiamata. E se questa non giunge, rispondiamo lo stesso, magari accendendo il televisore. Ma preferisco la voce del muezzin che esplode nella quiete di una domenica mattina mentre cammino nel vecchio quartiere di Jaffo a Tel Aviv. È una voce scura, capisci subito che sta chiamando. Il tono salmodiante ricorda che c’è qualcuno che nel cielo e forse te ne sei dimenticato. Non vedi il minareto, ma la voce viene dall’alto, scende sulle case e allo stesso tempo sale verso l’alto. E tu sei in mezzo, tra il basso e l’alto, tra il nasconderti come un topo nelle cantine oscure dei tuoi pensieri e il guardare in alto. E se guardi in alto sai che qualcosa dentro di te non potrà fare a meno di inginocchiarsi mentre sei un turista che fa finta di guardare un vecchio cannone ottomano del ‘500.

Sul mare di Galilea ho visto l’autista di un pullman stendere il tappetino accanto all’enorme ruota del suo mezzo, alzarsi e inchinarsi, alzarsi e inchinarsi, alzarsi, tirare il fiato e inchinarsi. Non c’erano moschee nei paraggi, nessun muezzin aveva chiamato alla preghiera eppure rispondeva ad una chiamata. Ero ammirato perché si era creato un suo silenzio in mezzo al parcheggio. Il suo pullman come i miei cipressi? Emily Dickinson ci direbbe che Egli cerca la tua anima / come un musicista i tasti / prima di suonare forte - / ti stordisce poco per volta - / prepara la tua natura fragile - / per l’eterea botta / con martelli più deboli - uditi lontano - / poi più vicini - poi così lenti / il tuo fiato - ha tempo di riprendersi - / il cervello di gorgogliare tranquillo - / cala - imperiale - una sola saetta - /che scalpa la tua anima nuda.

 

Il bambino migra dalla casa ai cipressi e ascolta la parola nel silenzio della sua immaginazione. Lo scrittore fa tutta una lunga strada indietro finché non trova nel silenzio della scrittura la parola che il genitore non ha mai proferito. Il visitatore di Majdanek cammina fino al punto in cui nel silenzio delle ceneri e della neve ode una parola che è già lì ma, allo stesso tempo, non è ancora detta del tutto. L’autista del pullman si ritira nel silenzio della preghiera e va incontro a Colui che lo cerca con la prosternazione e l’inchino mentre Emily Dickinson nel silenzio della sua casa compie lo stesso movimento al passo della metrica dell’innologia protestante. Per tutti il cammino è pieno di dolore e di meraviglia. E le loro scarpe sono consumate e povere come quelle dipinte, non certo a caso, da Van Gogh.

 

Bombacarta

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