Lungo il deserto, la marcia è rasserenata dalla costante sensazione di una Presenza, misteriosa ma in un certo senso tangibile e sperimentabile, di un Dio che ha scelto di farsi vicino all'uomo che lo ricerca. Fuoco di notte e nube di giorno: visibile eppure intoccabile, vicino ma pur sempre inavvicinabile.
del 12 aprile 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
 
          La Pasqua ebraica è un rito di passaggio, che commemora un vero viaggio, nel deserto, tra tante angustie e mille peripezie: un pasto da consumare “coi calzari ai piedi e i fianchi cinti” (Es 12, 11), un capretto da cucinare con erbe amare, per ricordarsi dell’amarezza di chi ha perso la libertà e mangia pane che sa di schiavitù. Le indicazioni sono precise, per indicare che si tratta di un pasto frugale, consumato in fretta, come quelli di chi è ancora per via e, affrettandosi verso la meta, sa che è controproducente, per la marcia che lo attende, appesantirsi di cibo durante il tragitto.
          Lungo il deserto, la marcia è rasserenata dalla costante sensazione di una Presenza, misteriosa ma in un certo senso tangibile e sperimentabile, di un Dio che ha scelto di farsi vicino all’uomo che lo ricerca. Fuoco di notte e nube di giorno: visibile eppure intoccabile, vicino ma pur sempre inavvicinabile. Il cammino è lungo e instancabile, la meta appare sempre troppo lontana: difficile credere ancora, rinnovare ogni giorno la propria fede in una promessa ormai stinta e stantia. Ecco allora accavallarsi e rincorrersi le tentazioni, a partire dalla principale: mollare la presa, lasciar perdere, accantonare la speranza e – forse – lasciarsi morire. Non è in fondo una tentazione frequente, anche per noi, oggi? Magari non lasciarci morire fisicamente: ma lasciarci vivere in modo apatico, lasciare che gli eventi passino, senza scuoterci, senza inquietarci, senza farci tremare, gioire, emozionare, badando solo di conservare quel poco che possiamo dire “nostro” e accontentarci di quello. Incuranti di chi, accanto a noi, s’affatica senza avere il necessario per vivere, incurante di chi non riesce a procurarsi nemmeno di quel poco. Con gli occhi fissi alla meta, senza renderci conto che non siamo soli su questa terra. E che, se andando da soli, talvolta, si va più veloci, è solo andando insieme che si va più lontano. Anche se questo può costare soste non preventivate, qualche supplemento di fatica e d’imprevisti, insieme con la necessità di rimettere in discussione le poche certezze fino a quel momento accumulate.
          I Magi, seguendo una stella, si avvicinano al vero Re, per poi cambiare strada, percorso: tornando da Gerusalemme, infatti, non era possibile ripercorrere il medesimo cammino. Simbolo di un cambiamento interiore ormai avvenuto, oltre che dell’incombente minaccia di Erode (evento reale e concreto che li spinge a questo cambio di rotta). Ogni ricerca richiede un viaggio, un mettersi in cammino, che è prima di tutto un’uscita da se stessi, nella sfida di giocare le proprio certezze come si fa sul tavolo verde e metterle alla prova della realtà. Incamminarsi è innanzi tutto guardarsi allo specchio, in ricchezza e in povertà e, dopo essersi squadrati, accettare di mettere un passo avanti all’altro. Sì, perché molto spesso la storia della fede è storia di una sfida continua tra Dio e l’uomo, un continuo ondeggiare tra fede e sfiducia, disperazione e speranza, nel tentativo di non crollare nel baratro. Perché quando la vita ci gioca brutti tiri è difficile continuare a credere e allora interpelliamo Dio, lo preghiamo, lo supplichiamo, lo sfidiamo. Forse lo bestemmiamo anche. Ma ci sono bestemmie che contengono più fede delle giaculatorie. Perché gli insulti possono essere rivolte solo alle Persone esistenti: dunque la bestemmia si rivela talvolta primordiale atto di fede nella Presenza di Colui che è sempre presente, dall’inizio dei tempi alla fine del mondo, anche se sembra, sornione e indifferente, lontanissimo da noi.
          La storia della predicazione di Cristo in terra di Giudea, in Samaria e in Galilea è segnata dal cammino, a piedi, per le strade polverose di un’irrequieta provincia romana, resa inquieta da movimenti d’indipendenza e inconcepibile fervore religioso. Un uomo che veniva da Nazareth di Galilea è riuscito a infastidire il potere religioso e politico in quella Terra Santa e martoriata dalla guerriglia ancora ai giorni nostri. Polvere e rocce, strade bianche di sabbia, sotto il sole caldo e torrido del meriggio percorsero quei piedi santi, senza posa ma non senza stanchezza, non senza domande, non senza turbamenti. Tra quelle strade di muri a secco e ulivi radi, pezzi di terra strappati all’arsura del deserto, camminò il Figlio dell’Uomo, imprimendo la sua impronta: così simile a quella di noi altri mortali, così diversa da qualunque altra, tale da essere ricordata a migliaia di anni di distanza.
          La devozione popolare ci riporta alla mente la Via crucis: il cammino, doloroso, che porta alla croce. Il cammino che è di ogni uomo che soffre. Perché, per quanto la Provvidenza potrà metterci accanto un Simone di Cirene a farci compagnia, il dolore è forse ciò che di più personale che un uomo ha. Incedibile, non interscambiabile, assolutamente non barattabile. Si può essere accompagnati, aiutati, sostenuti, incoraggiati, ma sta ad ognuno portare la propria croce fino in cima al Golgota. Per essere innalzati. Per imparare alla cattedra della sofferenza. Una scuola muta, ma sempre incisiva, nella vita e nell’esperienza di ciascuno.
          C’è la via che porta al sepolcro: un’andata cosparsa di pianto, un ritorno accompagnato da incredula gioia e inaspettata emozione. E qui vediamo due “stili” a confronto. Da una parte c’è Pietro, rallentato dal peso dell’età, che fatica a star dietro a Giovanni. Dall’altra, Giovanni, ringalluzzito dall’età o forse dallo stupore e dalla curiosità, precede l’incedere del capo degli apostoli, salvo poi lasciargli il passo giunto sulla soglia della tomba. Quasi a sancire che non esiste un unico ritmo possibile; ciascuno, col proprio passo, può raggiugere il Risorto, può scoprire la gioia, può assaporare la Sua presenza, può meravigliarsi dei prodigi dell’amore.
Sulla strada di Emmaus, l’Inatteso si fa prossimo, il Dio dei cieli si fa compagno di viaggio, che spezza il pane e allieta i cuori: anche chi è fuori rotta può essere raggiunto dalla grazia. C’è spazio per tutti, anche per i cuori afflitti, dubbiosi, eternamente scettici; per le menti complesse, arzigogolate, filosofiche. Non c’è posto solo per i semplici. C’è posto per tutti. Anche nella deviazione, Dio ti viene a cercare, per metterti in cuore la nostalgia del suo sguardo.
          L’intera storia della salvezza è costellata dalla richiesta di mettersi in cammino, dal desiderio imperioso instillato nel cuore dell’uomo, anche quando la convenienza, la pigrizia, il buon senso suggeriscono di sostare, consigliano di non avere grilli per il capo, di acquietarsi, di allinearsi al lecito, al regolare. Per questo motivo sorgono dei profeti, con il preciso compito di scuotere le coscienze, di pungolare le anime smorte, di rianimare i cuori, di riaccendere la speranza, perché tutti possano tornare a guardare in alto. Anche chi aveva dimenticato la nobiltà del proprio animo.
          Non siamo degli “arrivati”. Siamo dei partenti, dei principianti. Si tratta, soprattutto, di cercare e farci trovare da Uno che ci cerca (forse da tanto tempo). Il vero incontro è un incrociarsi di due ricerche. Quella, precedente, di Dio, e la nostra (condotta spesso a tentoni).
          Difficile dirsi cristiani, perché significa seguire Cristo. Difficile considerarsi fedeli… fedeli a cosa? Viene spontaneo domandarsi. Perché è evidente la nostra inadempienza. Perché non possiamo illuderci di possedere Dio, proprio perché è l’Inatteso sempre presente, ma mai come e dove ci aspetteremmo di trovarlo.
          Eco perché allora possiamo solo cercare di assicurarci almeno di essere sempre “in cammino”. Perché noi seguiamo un Crocifisso, sì, ma un Crocifisso Risorto. E seguire un uomo in cammino comporta la necessità di porci in cammino. Pena l’impossibilità di seguirlo, per accontentarci di guardarlo soltanto, rigorosamente da lontano, senza provare neanche a “sporcarci le mani” con una Parola che ci interroghi e rivolti come un calzino le nostre certezze.
Maddalena Negri
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