Abbiamo chiesto a Sandro Crippa, musicista e maestro di Coro e strumenti al Workshop 2003, di raccontarci la sua storia. (continua...)
del 11 aprile 2003
 Da bambini tutti sognano di fare l’astronauta, il pilota di formula 1, o il comandante di un sommergibile atomico e, ad ogni nuova conoscenza, cambiano idea, passando dai mestieri più umili alle professioni più famose e irraggiungibili.
 Io non avevo dubbi: sarei diventato un musicista, anzi, per la precisione, un pianista. Fin da piccolo avevo manifestato una chiara inclinazione per la musica, tanto che convinsi mio padre, nonostante le difficoltà economiche, a prendere lezioni private; a 10 anni ero già in conservatorio e, oltre alla musica classica, suonavo jazz; a 12 anni entrai a far parte del mio primo gruppo, i “Km” e a 14 cominciai a lavorare nel mondo dello spettacolo, feste, cabaret, night-club. Insomma la musica era tutto per me, era la mia vita, il mio divertimento, era meglio del cinema, dello sport, del mare, che a Palermo, dove sono nato, è meraviglioso, era più di tutto quello che facevano i miei coetanei. Attraverso essa esprimevo ciò che di più profondo avevo dentro, quello che con le parole non si riesce a dire. Per essa sacrificavo tutto, ma, diciamolo pure, era un sacrificio che mi costava davvero poco, perché quello che ricevevo in cambio era talmente appagante che… non vedevo (sarebbe il caso di dire: non sentivo!) altro che la musica.
Ma non stavo certo chiuso in una bolla di sapone o in un guardino incantato. In casa, tra i miei, c’era una quasi totale incomprensione frutto di un rapporto superficiale, le liti erano soventi e spesso finivano con piatti buttati in terra. Mi sentivo piccolo spettatore di un film che aveva come trama l’incomunicabilità e avrei voluto fare di tutto per cambiare il finale. Al conservatorio e nel mio complesso c’era tanto egoismo: ognuno era geloso delle proprie scoperte, voleva primeggiare sugli altri, o affermare il proprio talento e l’idea del successo abbagliava tanti facendo dimenticare il vero significato della musica. Per altri invece era solo una buona fonte di guadagno: che delusione! Beethoven aveva detto a Listz ancora bambino, dopo averlo sentito suonare: “Con il tuo amore e con la tua musica potrai fare felici tante persone”, ma ormai non ci credevo più: mi sentivo profondamente tradito e solo.
Proprio in quei giorni un amico d’infanzia mi chiese di prestargli una tastiera perché quella del suo gruppo si era rotta. Mi presentai davanti al locale e già il nome, per me, era tutto un programma: “Istituto S.Anna”. Il mio giro era di tutt’altro genere: “Mirage”, “Golden Gate”, “Shamade”, ma rimasi alle prove, se non altro per vedere che fine faceva il mio strumento. Invece notai subito che c’era qualcosa di diverso, i ragazzi si ascoltavano e si accorgevano delle necessità di ognuno. Succedevano cose alle quali non ero abituato: se il chitarrista accordava la chitarra, gli altri stavano in silenzio e tutto si svolgeva in un’atmosfera di grande serenità ed io stavo lì a guardare sbalordito questo “miracolo”, senza capire. Le ore passarono, rimasi oltre le prove fino alla conclusione dello spettacolo, il più bello che avessi mai visto, con il chiodo fisso, con un chiodo fisso in testa: questa gente non la lascerò mai più, io voglio vivere così!
Quello era un gruppo gen e io che, pur provenendo da una famiglia cattolica, non conoscevo niente di niente, passo passo trovai nell’amore cristiano quegli ideali che inseguivo nella musica. Ma la cosa che cambiò alla radice il mio modo di vivere fu una pratica che imparai in quegli anni, la “parola di vita”. Prendevamo una frase del Vangelo e cercavamo di attuarla nelle vicende giornaliere (cosa che per me, ovviamente, vale anche oggi).
Fu così che a casa, durante le liti dei miei genitori, invece di andarmene via, rimanevo lì cercando di rappacificarli o, se proprio non potevo fare altro, di comprenderli o di andare a fare quattro passi con papà. Al piano-bar dove lavoravo c’era un tipo che tutte le sere, regolarmente, si ubriacava e infastidiva i clienti; c’era un lavapiatti in cucina che nessuno sopportava e che veniva costantemente emarginato; c’era un piccolo boss locale che, grazie al portafogli piuttosto gonfio, decideva l’orario notturno di chiusura a suo piacimento. E io suonavo un pezzo al primo, che veniva a sedersi vicino al mio pianoforte, ascoltavo gli sfoghi e la rabbia del secondo e riuscivo a sorridere anche al terzo, non per servilismo, ma perché “qualunque cosa hai fatto al più piccolo l’hai fatta a me”, c’è scritto nel Vangelo. Al conservatorio, dove tra le classi c’era moltissima concorrenza, ho cominciato a svelare i miei piccoli segreti ai colleghi: diteggiature cambiate, posizione della mano, uso del pedale e piano piano, con grande stupore, cessava la rivalità, anche gli altri cominciavano a sbottonarsi, gli insegnanti venivano coinvolti e progredivamo insieme verso una maggiore capacità espressiva. Ancora oggi, dopo tanti anni, conserviamo tutti un ricordo indelebile di quel periodo e un profondo legame fra noi.
La musica: che cosa meravigliosa! Molte cose sono successe nella mia vita da allora e a volte mi chiedo dove sarei se non fossi nel Genrosso. Magari un insegnante al Conservatorio, o concertista di musica classica, o forse chissà. Certo è che non cambierei il mio posto con niente al mondo, perché è proprio vero che “con l’amore e la musica” posso far felici tantissime persone.
Sandro Crippa
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