“Io vivo rischiando per te”.

Christophe Lebreton, martire di Tibhirine. Dodici anni fa, a Tibhirine, insieme a sei confratelli, cadeva sotto i colpi degli integralisti islamici. Poeta, scrittore, cantore dell'amore di Dio, contemplativo dalla fede incarnata nella storia, ha donato tutto di sé fino al martirio.

“Io vivo rischiando per te”.

da Teologo Borèl

del 05 giugno 2008

Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, i sette trappisti del monastero di Notre Dame de l’Atlas, a Tibhirine, in Algeria, venivano sequestrati dai terroristi del Gruppo islamico armato (GIA). Dopo vari negoziati falliti fra rapitori e governi algerino e francese, i sette fratelli venivano barbaramente assassinati il 21 maggio 1996. Alla morte dei monaci una madre di famiglia algerina scrisse all’arcivescovo di Algeri queste parole: «Il nostro dovere è di continuare il percorso di pace, di amore di Dio e degli uomini nelle loro differenze. Il nostro dovere è di alimentare sempre i granelli che i nostri monaci ci lasciano in eredità».

 

La scelta dei monaci trappisti di restare in Algeria, nonostante il crescente clima di terrore e l’assassinio di numerosi preti, religiosi e religiose, era maturata comunitariamente dopo una visita intimidatoria da parte dei “fratelli della montagna” (così chiamavano i componenti del GIA) la notte di Natale del 1993. Mohammed, il custode del monastero, aveva detto a uno di loro: «Voi avete ancora una piccola porta dalla quale potete andarvene. Ma noi, no: nessuna via, nessuna porta». E Moussa, un operaio, aggiungeva: «Se partite, voi ci private della vostra speranza e ci togliete la nostra speranza». Quindi non sarebbe stato cristiano partire.

 

Questa libera decisione di non abbandonare Tibhirine, esprimeva la loro volontà di restare insieme nel luogo della loro stabilità, condividendo con la popolazione locale i pericoli della violenza che colpiva soprattutto i più indifesi, solidali con la sparuta minoranza ecclesiale, donati a Dio e all’Algeria, proclamando la verità del Vangelo attraverso una vita di carità fraterna senza frontiere. La loro vicenda si inserisce nel più vasto e drammatico scenario della guerra fratricida algerina, durante la quale gli integralisti armati hanno seminato migliaia di morti, i loro stessi fratelli musulmani, colpevoli di non piegarsi alle logiche del fondamentalismo più esasperato. La consapevolezza dei monaci di andare incontro alla morte e la consegna della loro vita perdonando gli aggressori, ci sono testimoniate dal mirabile testamento del priore, dalle loro lettere ai familiari e, in modo particolare, dal diario del maestro dei novizi, padre Christophe Lebreton.

 

 

In Algeria spinto dall’amore

 

Christophe Lebreton nasce a Blois (Francia) l’11 ottobre 1950, settimo di dodici figli. Personalità calda ed esplosiva, partecipa alla rivolta studentesca del ’68, poi presta servizio civile in Algeria dove ha il primo contatto con il monastero di Tibhirine. A 24 anni entra nel monastero di Tamiè (Francia), ma, innamorato della terra algerina, vi si trasferisce definitivamente nel 1987, spinto dall’amore per un popolo a quasi totale maggioranza musulmana. È ordinato prete nel 1990 e diventa maestro dei novizi della comunità di Tibhirine.

 

Consacrato a Dio nella vita monastica trappista, in mezzo ai poveri, condividendo in tutto la loro vita povera, Christophe percepisce e sperimenta fin dall’inizio, il rischio che connota la sequela di Cristo, l’unico rischio che valga la pena di correre, anche fino alle estreme conseguenze. Scriverà nel suo diario: «Io vivo rischiando per Te. Non mi resta che seguirti nella tua libertà, perdutamente» e un anno prima della morte: «Io non ho nulla ed è notte… Sono povero ma ho un Amico. Ricevo dal suo cuore aperto ciò che mi manca: l’amore, la misericordia, la tenerezza, la pazienza, la pace».1

 

Christophe soffre insieme al suo popolo, condivide la storia martoriata dell’Algeria, ma con una certezza che è in lui fonte di grande consolazione: al di là di tutta la violenza umana, la storia converge verso quel Dio che si è incarnato per ricondurre l’umanità al suo cuore pieno di bontà e di amore. Annota nel suo diario: «L’amore è più forte delle pistole… Gesù risorto è violenza d’Amore. È forza di pace. È misericordia invincibile». Questa relazione d’amore disinteressato e fedele lo conduce a vivere il mistero dell’Incarnazione pasquale in tutta la sua fecondità: la sua vita terrena si conclude il 21 maggio 1996, donata totalmente attraverso il martirio.

 

Le sue poesie ma soprattutto il suo diario dimostrano come tutti gli avvenimenti quotidiani, gli eventi drammatici, le relazioni umane, si trasformassero in preghiera e in occasione per lasciar sgorgare l’intensità dell’amore: «O, se morire potesse arrestare e impedire la morte di tanti altri ancora, allora, volentieri, sì, mi offro come volontario….Ti chiedo quest’oggi la grazia di diventare servo / e di donare la mia vita / qui / come riscatto per la pace / come riscatto per la vita / Gesù attirami / nella tua gioia / d’amore crocifisso».

 

 

Artista innamorato di Dio

 

Ricco di talento poetico e artistico, il Lebreton scrive lettere, relazioni, poesie, omelie, commenti biblici e il suo Diario. L’occasione gli viene fornita da un “bel quaderno” ricevuto in regalo per il suo onomastico, nel luglio 1993. Armoniosa sintesi tra biografia e teologia, espressa con scrittura “pittorica” e sapienza evangelica, il Diario permette di conoscere il cammino spirituale di Christophe, il suo “pensare” teologico e come la vocazione monastica e quella sacerdotale siano andate gradualmente maturando come vocazione al martirio. Dai suoi scritti emerge la personalità originale e affascinante di questo monaco trappista, il più giovane della comunità, scrittore, poeta, disegnatore, scultore, falegname, musicista, agricoltore. I suoi scritti, come opera d’arte, parlano, mostrano il mistero di Dio nella sua “sapienza” e nella sua “bellezza”, manifestano un cuore contemplativo:

 

«Canterò il mio poema per il Re», scrive all’inizio della sua biografia. La riflessione, incentrata sulla Parola, guidata dallo Spirito, calata dentro la storia, delinea la natura mistica e profetica del Lebreton. Da una parte emerge il legame vitale con la teologia monastica e la tradizione cistercense; dall’altra è rilevante il contesto storico-geografico in cui egli ha vissuto: come monaco tra monaci, membro della cchiesa algerina, in un mondo musulmano.

 

Il commento alle Scritture è alimentato dalla sua creatività, arricchita da uno spirito riflessivo e contemplativo e da capacità profetica che sa leggere i segni dei tempi e sa scoprire la presenza di Dio nel tessuto delle vicende umane. Secondo l’insegnamento paolino (cf. Ef 3,17-19), Christophe si è impegnato a scrivere “l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità” dell’amore di Cristo che abbraccia tutto l’universo e la cui salvezza – operata attraverso la croce – è offerta a tutti. Con animo di poeta e indole di artista, utilizza nella sua scrittura ogni possibile strumento per far “vedere” e contemplare il Signore Gesù, “l’Amato e il Maestro”.

 

Il suo diario è un creativo intreccio tra scrittura e disegni, specialmente quello della croce e del cuore, quasi a rappresentare la sua firma, segno di appartenenza a Cristo, alla sua croce e al suo «amore infinito, straripante, eccedente, folle». Avere sempre davanti ai propri occhi, nel proprio cuore, questo “disegno”, aiuta il discepolo a non perdere mai di vista la sua vera identità.

 

Per il Lebreton la croce è il «luogo della nascita dall’alto, dell’identità cristiana e della verità pasquale, è luogo della contemplazione». è anche un segno dell’amicizia divina con l’umanità amata. Allora prendere la propria croce vuol dire aderire a questo segno/disegno posto da Gesù nell’esistenza quotidiana dei discepoli, per vedere il Regno, entrarvi, farne parte, parlando il linguaggio dell’amore e del dono di sé, «offerti con l’Amico, seguito fino all’eccesso». Christophe è anche sacerdote: celebrare ogni giorno l’Eucaristia, lo conforma progressivamente al dono che il Signore ha fatto di sé, plasmandolo a divenire corpo da offrire e sangue da versare. Nel racconto dell’ultima cena «viene narrato Dio: Amore più forte della morte».

 

 

Uomo “lavorato” che canta il suo Magnificat

 

Mentre il Diario sta per chiudersi, Christophe annota: «Sì, continuo a sceglierti, Maria, come madre e come compagna di viaggio, insieme a Giuseppe, nella comunione dei santi. Accanto a te io sono offerto». Maria lo ha accompagnato nel cammino di tutta la sua esistenza. Una consacrazione a lei, durata vent’anni, in cui egli ha potuto crescere come figlio e come fratello, imparando da lei quell’offerta di sé senza riserve, quel canto del Magnificat che fa della propria vita una lode continua a colui che solo è grande.

 

Anche Giuseppe è immagine eloquente per la vita del monaco: uomo di fede che ha saputo accogliere accanto a Maria il mistero di un Dio che si fa uomo; uomo della casa, che si è preso cura della sua famiglia; uomo fedele alla parola di Dio, lampada che ha illuminato la sua vita anche nei momenti più difficili; uomo silenzioso, taciturno, senza lamentele, che ha conservato ogni cosa nel suo cuore. Uomo lavoratore e “lavorato”: non è Giuseppe a essere il falegname che pialla, lavora, forgia il legno. Il falegname è Dio e Giuseppe è il legno che viene lavorato, raddrizzato, piallato, levigato e ben fissato al suo posto, all’interno dell’opera di Dio. Anche Christophe si sente “lavorato” così, chiamato a diventare «sentinella della Parola fatta carne» e ad accoglierla senza sconti nella propria storia, continuando a cantare il suo Magnificat.

 

 

“Speranza a perdita di vita”

 

 Il 4 settembre 1995, la comunità di Tibhirine viene a conoscenza dell’uccisione di due suore. Christophe, colpito da questa ennesima azione brutale, partecipa alla preghiera come un atto di fede, un canto che vuole «dare voce al Verbo assassinato» e si lascia trascinare dalle parole dell’inno che ricorda in quel giorno la figura di Mosè. Il monaco – come Mosè – si sente alla presenza di Dio, affascinato e attirato dalla sua parola e dal suo “volto”: esperienza di fede per «colmare di speranza il cuore di coloro che la violenza tenta di gettare nella notte della disperazione».

 

Il volto dei martiri manifesta e testimonia il Signore, rimanda al volto di Gesù, crocifisso e risorto. Per questo la speranza non può morire. Speranza definita da Christophe “a perdita di vita”, fino in fondo. Il martire è testimone di speranza: donare la vita fa nascere e nascere vuol dire entrare nell’avvenire di Dio. Sperare è saper leggere i segni dei tempi dalla prospettiva di colui che è Signore dello spazio e del tempo, consapevoli che la storia converge verso di lui e in lui troverà la sua ricapitolazione definitiva. Sperare è credere che «nessuna forza omicida prevarrà, nonostante la violenza e la persecuzione che sembra togliere ogni forza e ogni speranza per un futuro più umano. Beati i cuori puri, coloro che sperano, che sanno guardare più lontano dell’orizzonte sbarrato dalla minaccia di morte, poiché è oltre che Lui ci precede». Questa virtù teologale ha permesso a Christophe e ai suoi confratelli di rimanere accanto a un popolo martoriato, condividendone l’esistenza quotidiana fatta di rinunce, di sofferenza, di alienazione, di paura. Testimone di questa speranza, Tibhirine, che in lingua berbera vuol dire “giardino”, non ha finito di fecondare la terra degli uomini.

 

 

Cf. Mirella Susini, Io vivo rischiando per te. Christophe Lebreton trappista, martire del XX secolo, EDB, Bologna 2008, pp. 460.

Anna Maria Gellini

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