«Kikka sei una kikka»

Percorrendo e attraversando le vie delle nostre città, sono spesso attratto e incuriosito da alcune scritte che leggo sui muri o sugli striscioni nei cavalcavia: «Fragoletta mia ti amo»... «Un'ora di vita con te mi ha ridato la vita»... «Kikka sei una kikka»... «Con te per sempre»... «Mi manchi da morire».

«Kikka sei una kikka»

da Teologo Borèl

del 22 settembre 2008

   «Guardandovi… spesso mi domando: siete felici? Ma allora cos’è quella strana inquietudine che trapela dagli occhi? Che cos’è la moltiplicata voglia di correre, di vedere, di provare; cos’è quella fatica del silenzio che sempre fuggite e che non amate?». Ha toni fortemente empatici la lettera indirizzata ai giovani da mons. Menichelli, arcivescovo di Ancona – Osimo. A partire dagli slanci sentimentali delle scritte sui muri, dall’affannosa ricerca del successo effimero, il vescovo guarda con affetto di pastore a queste pecore spesso considerate un «problema» o «una malattia». «E ora mi siedo accanto a voi» per «dirvi quanto preziosi siete e quanto più amore meritate… Vorrei anche motivarvi per costruire insieme… un cammino tra uomini e donne che portano nel cuore una speranza e vincere così solitudine e amarezza». 

Percorrendo e attraversando le vie delle nostre città, sono spesso attratto e incuriosito da alcune scritte che leggo sui muri o sugli striscioni nei cavalcavia: «Fragoletta mia ti amo»... «Un’ora di vita con te mi ha ridato la vita»… «Kikka sei una kikka»... «Con te per sempre»… «Mi manchi da morire».

Leggendo cerco d’immaginarmi un volto, di percepire l’emozione, penso anche alla voglia di dire al mondo quanto si vive dentro.

Altre volte mi soffermo a guardarvi, a leggere dietro il vostro look: siete spesso una splendida leggenda, capace di oltrepassare ogni regola e di abbandonare modi che fino a ieri sembravano intoccabili. Altre volte mi trovo a incrociare i vostri abbracci pubblici, quelle vostre soste intime che per voi diventano pubblicità di un amore e anche anticipata e frettolosa fedeltà d’amore.

Naturalmente ho visto la vostra fatica a scuola, in alcuni preziosi incontri con voi; come ho gioito nel pregare con voi quando vi ho incontrato nelle vostre comunità.

Guardandovi e leggendovi oltre il volto, spesso mi domando: siete felici?

Ma allora cos’è quella strana inquietudine che trapela dagli occhi? Che cos’è la moltiplicata voglia di correre, di vedere, di provare; cos’è quella fatica del silenzio che sempre fuggite e che non amate?

E poi le tante cose che avete, usate e gettate?

Ma so anche del disagio sociale che vivete dal momento che i progetti politici e la prassi economica vi hanno parcheggiato in un tempo che non dice il futuro.

E ancora quella serie infinita d’esperienze con le quali vi fate credito della maturità... e quelle vie telematiche che percorrete come ampie autostrade, ma che non vi consentono di guardarvi e anzi vi invitano ad aprire «il cestino» e a buttarvi dentro tutto ciò che ieri vi faceva ridere e sognare e che oggi non merita nemmeno un debole rimpianto.

Conosco tutte le sperequazioni dell’anima che vi caratterizzano: i grandi slanci di generoso volontariato e la depressione che vi impacchetta e che pensate di sanare con i sogni affittati dalle pillole da sballo.

Alla vostra generazione si addebita una marcata indifferenza sui grandi temi e le grandi disperazioni dell’umanità. Tutto sembra fuori dal vostro interesse. Mi rattrista spesso il vostro giocare con la vita, credendola come gustosa proprietà e come egoistico uso.

Come mi preoccupa il diffuso sistema culturale che vi fa vivere non «contro» ma «senza Dio», nell’antica tentazione di pensare che il sopranaturale non serva nella costruzione della complessa identità umana.

E ora mi siedo accanto a voi e tra voi, immaginando di raggiungervi in una sosta della vostra vita e dirvi quanto preziosi siete e quanto pi√π amore meritate.

Vorrei difendervi dalle accuse e dalla distanza con cui la società vi legge: voi non siete mai un problema né una malattia; piuttosto siete una bellezza e una speranza.

Vorrei anche motivarvi per costruire insieme non solo un dialogo, ma soprattutto un cammino tra uomini e donne che portano nel cuore una speranza, e vincere così solitudine e amarezza.

In questo progetto di dialogo e cammino mi piace pensare di essere per voi amico e padre, quasi ad accogliere il bisogno di confidenza e la richiesta di avere chiaro ciò che nella e della vita non è negoziabile.

E come amico e padre vi affido alcuni pensieri, una specie di guida, un manuale confidenziale che da una parte vi aiuti a uscire dal logoramento che genera disistima, e dall’altra vi spinga al coraggio e alla fedeltà.

 

Difendere la «marca»

Sapete tutti che siamo nel tempo dell’immagine che incanta e anestetizza e che sempre più induce a vivere di emozioni superficiali e consumabili, fino al convincimento che quanto in voi è vero, buono e bello e beato non possa essere coltivato perché comporterebbe fatica e contrasti.

L’espressione «difendere la marca » è un invito a custodire la misteriosa ricchezza di speranza, di verità e di libertà che vi distingue.

Abbandonate la corruzione della verità che i vari reality vi servono, occultando i disvalori che propugnano con l’effimero di un’apparizione televisiva e con l’illusione di un futuro assicurato da un pacchetto di euro.

Mi piace ricordarvi una frase di Gesù: «voi valete di più» (cf. Mt 10,31).

Non sperperate la dote che Dio ha seminato in ognuno di voi.

 

Prendersi cura dell’anima

Ovvero non passate il tempo tra palestre e cure artificiali.

A volte capita che il motore della moto s’ingolfi e non parta... Allora c’è la terapia dello «spurgo».

L’immagine del motore ingolfato mi è utile per farvi pensare all’anima.

Mi spiego: tutti vi dicono di fare tutto per il corpo tanto da ingolfarvi.

Gli affari del corpo sono diventati un piacere stressato e stressante.

E l’anima aspetta.

E avviene che una persona si senta come spaccata in due e si finisca con il dire: «sono stanco!».

La monotonia delle cose si fa mortificante delusione.

Va assunta una concezione più entusiasta, più vera, più coraggiosa osando nella fede, nella speranza, nell’amore.

Fu chiesto a Gesù: «Che cosa devo fare (…) per ottenere la vita eterna?».

La risposta sconcertante e non accolta fu: «Va’, vendi quello che possiedi (...); poi vieni e seguimi» (Mt 19,16.21).

La tristezza riempì la vita di quel tale: non succeda anche a voi di essere tristi, perché ciò significa che vi state ammalando l’anima di cose.

Abbiate cura dell’anima coltivando quella sapienza che vi fa discernere ciò che è buono e giusto e camminare lieti nei sentieri del tempo.

 

Aspettarsi Dio

Ogni generazione ha la sua discussione con Dio; spesso la discussione si fa contestazione, negazione, uccisione di Dio.

Nei decenni passati si parlava della morte di Dio; oggi più sbrigativamente si dice: «Dio non serve».

Dio non c’è non perché non c’è; non c’è perché non serve: questa è la strana filosofia dei giorni che viviamo.

Siamo entrati nella desolante storia nella quale l’uomo sperimenta una mortificante solitudine e una sregolatezza etica.

La progettata inutilità di Dio partorisce una babele interiore che deprezza l’identità della persona.

Vi chiedo, cari giovani, di permettere a Dio di stare nella vostra vita.

Non abbiate paura di Dio che in Cristo crocifisso e risorto ha svelato la sua immensurabile voglia di abitare con i suoi figli.

Cercate di piacere a Dio e sarete felici. A questo riguardo, con tenerezza e fermezza, indico a ognuno di voi una regola-sfida: prima o poi, nella tua vita «aspettati Dio» che ha qualcosa da dire e da chiedere.

 

Non «fare l’amore» ma «dare amore»

Voglio essere chiaro: mi turba un’espressione che la cultura massimalista ripete: «Ho fatto sesso... ho fatto l’amore con...». All’improvviso la vita mi sembra un’officina; la persona è un aggiustatore meccanico; l’amore una roba da robot.

Partecipando tutti dei doni di Dio («fatti a sua immagine e somiglianza ») siamo chiamati a riconoscere questi doni e a esercitarli nel senso loro proprio.

L’amore non è un esercizio fisico, una sorta di ginnastica muscolare; è dono di sé. Celebrare l’amore è viverne pienamente il mistero e incarnarne le qualità più intime: la totalità del dono di sé, la solenne perennità che si traduce con «ti amo», la bellezza della fecondità per la quale il dono reciproco si fa vita.

Non cedete all’imbroglio nascosto nella superficiale equazione «sesso uguale amore».Impegnatevi piuttosto, attraverso un rigore etico, nel costruire la vostra identità personale armonizzando i vostri sensi, correggendone gli egoismi, al fine di prepararvi a celebrare l’amore dentro la vocazione alla quale Dio vi chiama e in particolare a servire la vita in una sapiente risposta al progetto del Creatore.

 

Dire «sì» alla pace

Tra conflitto e pace: cosa scegliere?

Non vi sembri superflua la domanda: l’ho posta per aiutarvi a fare una lettura della pace che vada oltre la dimensione politica e la semplice ed emotiva aspirazione alla pace.

È facile dire «no» al conflitto; non è così ovvio dire «sì» alla pace.

La pace di cui parliamo è quella che ha radici nel cuore e nel metodo di Dio, per il quale essa non è solo assenza di conflitto (sarebbe la pace… dei morti!), piuttosto è frutto dell’opera della giustizia congiunta all’opera della misericordia.

Per capire la pace e realizzarla come compito, è necessario mettersi davanti al trono regale di Cristo: la croce.

La croce è il segno, il fatto della pace. Lì Cristo si fa pace, assumendo «il perdere» come gesto di pace.

Egli, Dio, il Giusto, si fa perdente, misericordioso e abbatte ogni divisione e scrive sul suo corpo immolato l’alleanza di pace tra Dio e l’umanità, inchiodando l’iniquità.

Cari giovani, da allora, dal giorno del Crocifisso, la pace è in cerca di alleati disposti a «perdersi e perdere » per essa.

Erasmo da Rotterdam ha scritto il libro Lamento della pace, scacciata da ogni parte.

La pace è una sposa esigente e ama solo chi è disposto a pagare perché essa sia benedizione per tutti.

La pace chiede a voi giovani di servirla e custodirla, di purificare la società dalle vane supremazie, dalle ottuse pretese egemoniche. La storia di questi nostri giorni sembra allenata dire «parole rovesciate»: per portare la pace, facciamo la guerra; per giustificare la guerra la definiamo «giusta»; per coinvolgere Dio nei nostri affari inventiamo «la guerra santa». Di più, gli egemoni chiedono ad altri di eliminare le armi di distruzione di massa mentre essi le custodiscono e le ammassano in varie parti del mondo.

All’iroso Pietro, Gesù, già prigioniero, dice di rimettere la spada nel fodero! Ecco lo scandalo della mitezza, terapia esigente per essere e vivere nella concordia come fratelli.

 

Fare della vita qualcosa che vale

Quanto costa la vita? La domanda non vi spaventi, è provocatoria!

Essa vuole farvi gustare nuovamente la bellezza, la meraviglia, lo stupore che la vita porta con sé.

V’invito a contemplare la vita, questo mistero che ci è stato donato e che è la nostra vera ricchezza. V’invito ad adorare il mistero della vita, questo miracolo che si rinnova sotto i nostri occhi e che rallegra il mondo rendendolo adorno di volti. Il mondo, una casa di volti.

Vi chiedo questo perché vi facciate sentinelle vigilanti a difesa della vita.

Molti sono coloro che vogliono impossessarsi di essa, manipolarla, usarla, violentarla, deturparla, ucciderla.

Molti sono coloro che v’invitano a celebrarla come godimento facendovi cercare la gioia nei «paradisi artificiali » che finiscono per essere gabbia di morte.

Molti sono coloro che v’inducono a pensarla come superficiale vagabondare nella successione dei giorni; altri la pensano come «cosa propria» e la «gestiscono» al di fuori dell’etica e della responsabilità.

Mi piace affidarvi un pensiero di Raoul Follereau, che ha dato la vita a favore dei malati di lebbra: «Applaudite o denunciate, ammirate o indignatevi, ma non siate neutrali, indifferenti, passivi, rassegnati. Fate della vostra vita qualcosa che vale».

La vera meraviglia è la vita!

Amatela sempre.

Mi congedo da voi affidandovi a Dio Padre buono e misericordioso, chiedendo a lui che vi doni la «sapienza del cuore», quale criterio per stare con gioia nel tempo e per non cedere alla seduzione dei vani ragionamenti dei quali la nostra cultura si vanta.

 

 

mons. Edoardo Menichelli

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