A proposito del cervello umano qualcuno ha acutamente osservato che «si presenta come un oggetto del quale non può esserci conoscenza 'oggettiva' senza l'accettazione decisa di un approccio sempre dialettico, se non addirittura polemico». Non è dimostrabile con strumenti di rilevazione un rapporto di causalità tra un'attivazione cerebrale e una scelta di tipo morale.
del 16 giugno 2009
 A proposito del cervello umano qualcuno ha acutamente osservato che «si presenta come un oggetto del quale non può esserci conoscenza 'oggettiva' senza l’accettazione decisa di un approccio sempre dialettico, se non addirittura polemico» (Castel). La ricerca in questo campo, più che mai aperta, ha da essere pertanto interdisciplinare. Un interrogativo emerge esplicitamente dalle stesse neuroscienze, un interrogativo che ovviamente interessa da vicino anche altri campi del sapere, compresa la teologia: «Come è possibile che parti di materia priva di coscienza producano coscienza?» (Searle). Qualunque sia il nesso cervello-coscienza questa domanda introduce, come documentano ampiamente gli studi neuroscientifici, il tema delle credenze (Gazzaniga, Hauser). Una volta aperto il campo delle credenze, bisogna poi fare spazio a tutte le forme espressive del senso religioso. Le neuroscienze giungono così a parlare di neuroetica (Safire, Roskies). Per rispondervi articolerò la domanda iniziale in un triplice interrogativo: «È il cervello a produrre la mente?». Ancor di più: «Partendo dal cervello e dal suo funzionamento si dà una spiegazione esauriente della natura dell’uomo?». In questi interrogativi ve n’è implicato un altro, per me decisivo. «Se fosse necessario, sulla base delle scoperte delle neuroscienze, superare la dualità mente-cervello, riconducendo la mente al cervello vi sarebbe ancora posto per l’anima (o per ciò che una storia plurisecolare ha voluto indicare con questo termine, comunque lo si voglia denominare)?». Evidentemente non è possibile in questa sede affrontare analiticamente questi interrogativi partendo da una articolata critica interna relativa ai principali settori delle neuroscienze. La mia risposta si limita a due piccoli passi. A compiere il primo bastano poche righe. Per lasciare almeno aperti i tre interrogativi e così documentare la non falsificabilità delle teorie circa l’esistenza della mente, distinta dal cervello, e dell’anima basterebbe ribadire il noto principio che l’hoc post hoc non implica l’ergo propter hoc. Correlazione e successione non dicono causalità. La critica è applicabile a certe estremizzazioni contenute nella elaborazione del cervello etico formulate, per esempio, dal Gazzaniga, così come a certe letture riduzioniste degli strabilianti risultati dovuti alla risonanza magnetica funzionale per immagini, agli esperimenti sul senso morale, sul libero arbitrio e sui neuroni specchio! In tutti questi casi i dati sperimentali di cui si viene a disporre non sono riducibili al puro livello neuronale, ma implicano sempre un’operazione eseguita a discrezione dello scienziato. In ogni modo, a livello di pura rilevazione empirica, non è dimostrabile, in maniera incontrovertibile, un rapporto di causalità tra l’azione morale «A» e l’attivazione cerebrale localizzata «X». Con ciò, in linea di principio, è data una risposta sufficiente ai quesiti di partenza. Mi interessa però assai di più aprire, col secondo passo, una pista di lavoro condivisibile in vista di quell’«unità del sapere» oggi improcrastinabile.
  Esiste un terreno comune da cui partire, nel rigoroso rispetto di ciò che è fede, e quindi teologia, e di ciò che è oggetto del sapere delle neuroscienze, per verificare quanta strada si può fare insieme. Mi riferisco al concetto di credenza introdotto all’inizio. L’espressione «morale prima della morale» (Boella), coniata nel mondo della neuroetica, ribadisce il peso delle credenze anche per i cultori di questa disciplina. Al limite, quand’anche si intendessero le credenze come pure rappresentazioni mentali, fisicamente determinate in base a una riduzione della mente ad aspetti funzionali di proprietà cerebrali, si finirebbe sempre per riconoscere una qualche inclinazione etica nell’uomo. Il fatto di scoprirci biologicamente provvisti di un sistema neuronale rivela come «i meccanismi complessi e fortemente interconnessi che stanno alla base delle emozioni, dei valori e dei pensieri» (Illes, Bird) ci urgono a rapporti intersoggettivi. È importante notare che già san Tommaso parla di inclinazioni naturali e di una voluntas ut natura  che, in qualche modo, precede la  voluntas ut ratio. Si intravvede così un possibile terreno su cui esercitare un confronto tra neuroscienze e filosofia/teologia morale. Se ora mettiamo in campo il prisma della ragione con la sua pluralità di forme di esercizio, è conveniente riconoscere che le credenze neuroetiche, almeno in quanto aprono alla dimensione sociale, lasciano di fatto spazio all’esistenza di un altro polo della «morale prima della morale». Se, infatti, guardiamo alla morale prima della morale, che potremmo forse meglio definire con l’espressione «esperienza morale elementare», ci rendiamo conto che essa si radica nel desiderio di compimento di sé proprio di ogni uomo. Esso prende forma nelle inclinazioni, negli affetti originari, nelle emozioni e nei pensieri, a partire dalle relazioni primarie di riconoscimento. Attraverso di esse l’io acquista progressivamente coscienza pratica di se stesso e diventa capace di comunione con il mondo. L’esperienza morale elementare possiede quindi «un carattere fortemente unitario, ma polare (duale)». Essa può ben poggiare su credenze che hanno basi neuronali empiricamente documentabili dalle neuroscienze (emozioni, valori, pensiero) ma, ad una ragione adeguata, rivela di possedere un altro polo che, in senso lato, possiamo chiamare spirituale. Non si vede a questo punto come un discorso scientifico rigoroso possa escludere la necessità di una compiuta elaborazione di una teoria della libertà. Il problema che sorge è piuttosto un altro. È forse possibile superare i due poli costitutivi dell’unità di questa esperienza morale elementare che inevitabilmente aprono al senso religioso, in una sintesi che chiuda, una volta per tutte, in un «sapere oggettivo», questa stessa polarità?
  Un’analisi rigorosa ci costringe a dire di no. Dal punto di vista delle neuroscienze è impossibile un sapere compiutamente oggettivante del cervello, capace di spiegare tutto l’uomo. Così pure il senso religioso non è in grado, da sé solo, di afferrare la profondità ultima dell’uomo. Il paradosso dell’uomo consiste nella sua ec-centricità. Egli è capace di infinito ma, essendo irrimediabilmente finito, non può esaurire il mistero. Il dono stesso della fede cristiana radicalizza questo paradosso perché conduce sì l’uomo all’incontro personale e definitivo con Dio, che si anticipa nell’Eucaristia-Chiesa, ma senza pre-decidere il dramma della sua esistenza sino all’atto finale del suo personale morire. Nell’unità profonda del Self si dà un’insuperabile polarità.
  Quand’anche si provasse che il cervello produce la mente, in nessun modo si potrà escludere che questa scoperta indichi di più del solo superamento di ogni dualismo mente-cervello. Essa non potrà annullare l’esperienza elementare del senso religioso, comunque lo si voglia intendere. Ora, da un’accurata analisi del senso religioso si giunge ad inferire ciò che chiamiamo anima (spirito). A condizione di pensarla in termini di relazione sostanziale all’a/Altro, sia con la minuscola che con la maiuscola. L’anima, scriveva nel 1972 l’allora cardinal Ratzinger, è «la dinamica di una apertura infinita che significa contemporaneamente partecipazione all’infinito e all’eternità. Tale dinamica non è un succedersi di fatti senza nesso… la dinamica è sostanza e la sostanza è dinamica». L’unità-duale (non la dualità unificata) di anima-corpo è insuperabile. Riconoscere questa prospettiva non giova forse anche alle neuroscienze?
 
card. Angelo Scola
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