Nell'amore non ne va soltanto qualcosa di te, ma ne vai di mezzo tu, con tutto te stesso. E per questo l'amore non solo affascina, ma genera anche paura, non promette soltanto un giardino di delizie, ma riserva anche un percorso tra le spine.
del 18 maggio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
 
          La letteratura di ogni tempo ha sempre individuato nel tema dell’amore non soltanto il luogo più tipico per l’effusione idilliaca del sentimento, ma anche il punto di incontro più emblematico con l’esperienza del tragico, come se solo un filo sottilissimo separasse la più attraente delle esperienze umane dalle molte forme in cui può degenerare. Il tragico – che si tratti della morte o della colpa, del tradimento o dell’impossibilità – sembra annunciarsi immediatamente come un’ombra incancellabile prodotta dalla stessa luce dell’amore, per ricordare agli umani che «amare» non è solo «bello», ma anche «rischioso». Nell’amore, infatti, non ne va soltanto qualcosa di te, ma ne vai di mezzo tu, con tutto te stesso. E per questo l’amore non solo affascina, ma genera anche paura, non promette soltanto un giardino di delizie, ma riserva anche un percorso tra le spine.
          Tutto questo, e molto altro ancora, gli umani lo sanno molto bene, ma cercano volentieri di dimenticarlo. Il disagio che queste considerazioni impongono, infatti, può essere superato soltanto a patto di impegnarsi a decifrare nell’intrigo di sensazioni e pensieri che accompagnano il binomio «amore e morte», per dare una valutazione morale di ciò che costituisce veramente un bene per l’uomo, ciò che gli garantisce la sensatezza del suo amare, ciò che può sostenere la fatica del suo vivere. E questo significa interpretare l’esperienza, distinguendo ciò che è riconducibile alla finitezza della nostra condizione viatrice, da ciò che affonda le radici nella «cattiva coscienza» di un vivere ingiusto. Ma questo è un esercizio della moralità che non si improvvisa e a cui bisogna essere pazientemente educati, attraverso l’ascolto della tradizione, il confronto con la testimonianza, il riconoscimento personale della giustezza del vivere, la decisione ponderata, l’umiltà della verifica e l’ammissione eventuale della colpa. Sicché la tentazione a cui perennemente siamo esposti è da un lato quella di fare, come si suol dire, «di tutte le erbe un fascio», radunando tutti gli aspetti problematici della questione sotto l’insegna di un giudizio vago e improbabile sui costi dell’amore, e dall’altro quella di rimuovere rapidamente il vero nucleo del problema, rimandandolo a quando si presenterà.
          Una sana pastorale, però, deve assolutamente resistere a questa rimozione e al regime di «improvvisazione» affettiva che ne consegue, assumendosi l’impegno di illuminare i risvolti «onerosi» dell’amore secondo la logica del Vangelo. E il nucleo della questione, che appunto non va precipitosamente rimosso, riguarda proprio la distinzione tra il regime della finitezza del vivere (di cui è emblema la morte) da quello del vivere nella colpa. 
Amore e morte
          Che la finitezza e la morte si annuncino dal di dentro dell’amore è certamente risaputo. Ma il tragico non è qui. O meglio: non è qui, qualora dell’amore si sia scoperta la differenza rispetto all’appagamento immediato e si sia deciso in forma non condizionata e ipotetica sul suo valore. Qualunque innamorato, infatti, se non è accecato dall’infatuazione, sa che la persona che ama ha dei limiti e che la forma terrena della loro relazione non sarà né perfetta né infinita; ma non trova in questo una contraddizione con l’amore.
          L’amore umano, infatti, si istituisce fin dal principio nella tensione tra il trasalimento suscitato dalla percezione incantata dell’amato/a e la consapevolezza che proprio i suoi tratti immediatamente più affascinanti (la bellezza giovanile della donna e la prestanza fisica dell’uomo) sono anche i più transitori. E di questo non si scandalizza.
          Così pure l’amore sponsale vive nella percezione che il nuovo inizio che si profila nel «distacco» dalle relazioni parentali è un testimone che si riceve per disporsi a passarlo. Mentre la propria fecondità generativa relativizza la generazione che precede, si dispone allo stesso tempo a essere relativizzata dalla generazione che segue. E anche di questo l’amore non si scandalizza, ché anzi nessuno riuscirebbe seriamente a desiderare di imporre la propria presenza ai figli e a tutta la catena dei nipoti, in un durare terreno senza fine.
          Nel momento stesso in cui si istituisce, dunque, l’amore dell’uomo per la donna porta con sé ciò che lo istruisce non soltanto circa la propria nobile bellezza, ma anche circa la propria fragilità e transitorietà, e lo presenta come un’esperienza che non si fonda su stessa, ma rimanda ad un grembo eterno del vivere e dell’amare da cui soltanto può essere giustificato e custodito. Su questa trasparenza del divino nell’esperienza dell’innamoramento ci siamo già soffermati negli articoli precedenti, e non vi ritorniamo. Qui piuttosto vogliamo insistere sul fatto che l’amore umano si afferma come esperienza di «relatività» e, di questa «relatività» ad un Assoluto affettivo, che è Dio, si nutre. Per questo, riporre la qualità tragica dell’amare nella non assolutezza, incompiutezza, transitorietà che l’esistenza storica oppone al desiderio, pur essendo una tentazione permanente, è però soltanto il frutto di una rimozione delle consapevolezze di fondo di cui l’amore vive. Il risentimento scandalizzato con cui essa talora si manifesta è così l’altra faccia della medaglia di un accostamento «leggero» all’affettività, che ne ha sentito l’emozione immediata, ma non ne ha letto l’identità profonda. 
Amore e colpa
          Il tragico dell’amore, dunque, non sta propriamente nella finitezza dell’umano e nella morte, che ne è la cifra. Da questa idea, che era largamente diffusa nella letteratura pagana, il cristianesimo ci ha felicemente liberati. Il tragico dell’amore, ciò che rovina le esistenze e conduce alla disperazione, ciò che capovolge i luoghi della tenerezza in quelli della violenza, ciò che smaschera l’apparente leggerezza di un’avventura mostrandone le conseguenze brutali, non è il «limite», ma è la colpa. Adamo ed Eva insegnano.
          Tanto il loro amore si era acceso di incanto, nella limpida trasparenza della presenza di Dio, che come un paraninfo li aveva fatti incontrare, quanto esso si spegne quando guardano il creato con gli occhi cupidi di chi, sospettando di Dio, non vede più la logica del dono. E il loro rapporto iniziato come uno splendido canto di amore («questa volta essa è carne della mia carne e ossa delle mie ossa») finisce nell’accusa reciproca e nella contrapposizione («la donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero»).
          Gli affetti umani vivono di un ordine, che non è solo armonica compostezza, ma vero ordo ad Deum, cioè ordinamento, destinazione, riferimento a Dio come al proprio centro. Quando questo ordo viene violato, cercando il proprio partner come si cerca Dio, aspettandosi da lui/lei ciò che ci si può aspettare solo da Dio, la corruzione dell’amore è inevitabile e il prezzo doloroso: per entrambi. Come scrive lucidamente un autore: «Nella relazione dell’uomo e della donna c’è un grande mistero di Dio, che vale la considerazione del corpo – che qui forma ‘una sola carne’ – come tempio dello Spirito. Ma appunto, non dovete desiderarvi e amarvi come si desidera e si ama Dio. L’esperimento è dannoso, e la delusione (spesso inavvertita delle sue reali ragioni) capace di mortificare e rendere detestabile ogni legame. Gli umani affetti si accendono alla luce della rivelazione di Dio, tanto quanto si spengono all’ombra della prevaricazione che li sostituisce a Dio» [1].
 
La cultura epocale
          A fronte di queste considerazioni, la «leggerezza» programmatica con cui la postmodernità tratta i vissuti affettivi non può che apparire come un atteggiamento altamente irresponsabile. Mentre la tradizione della sapienza cristiana, che dalla croce del Signore Gesù ha imparato che cosa significhi amare, ha sempre provveduto a difendere gli innamorati dall’ingenuità istintiva delle loro emozioni, attraverso una codificazione sociale dei rapporti improntata al riserbo e alla gradualità, la scelta postmoderna di una totale deregulation affettiva risulta allo stesso tempo semplicistica e cinica.
          Il semplicismo, mascherato di ammiccamenti tolleranti e supportato di «deboli» giustificazioni teoriche, consiste nel dimenticare che la serietà dei legami non è imposta da una norma morale estrinseca, ma dal di dentro della libertà umana. Non si possono infatti trattare le emozioni come se fossero energia allo stato puro, svincolata dai significati umani dei comportamenti e disponibile per ogni forma di investimento relazionale. Nel campo dell’affettività, il programma di vita: «divertiti, perché sei giovane» è quanto di più ambiguo si possa immaginare, perché gli affetti sono tutto fuorché un gioco e quando il presunto gioco si rompe, i cocci si chiamano vuoto interiore e incapacità relazionale, se non anche veri drammi esistenziali. La leggerezza di un’avventura e la tragicità di un aborto, nel mondo reale – non in quello delle immagini pubbliche che lo «mediano» – sono purtroppo molto più vicini di quanto si sia soliti pensare.
          Il cinismo della postmodernità affettiva, poi, consiste nel fatto che i pesi che non vengono responsabilmente integrati nell’esercizio limpido e generoso dell’amore, prima o poi si scaricano da qualche altra parte: sull’intera società e sulla singola persona. A livello diffuso il risvolto dell’atteggiamento morbido e debole verso gli affetti ha così la sua pena del contrappasso in un incremento di sofferenza sociale, che ha veramente del diabolico. I suoi tratti (disagio relazionale, prevaricazione verso la donna, violenze sui bambini, solitudine e abbandoni, fragilità delle famiglie) sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti: perennemente deprecati dalla retorica pubblica e perennemente evasi nella valutazione «morale» della loro origine. A livello del singolo, quando la fatica interiore di affrontare la complessità del proprio mondo affettivo, per discernere in esso i legami e i comportamenti che corrispondono all’amore, lascia il posto ad una sorta di «improvvisazione» sentimentale, la conseguenza più immediata è che si finisce con il perdere il bandolo della matassa dei propri sentimenti. Basta avere anche solo una minima pratica di contatto pastorale con i giovani, per accorgersi della fatica con cui essi nominano i loro vissuti affettivi con una terminologia «morale», ovvero con un discorso che non sia puramente la narrazione di fatti e di impressioni («ci sono rimasto male», «mi sentivo bene…»), ma una valutazione e interpretazione di sé e del proprio agire. Solo che sottratti alla giustezza morale del loro esercizio, gli affetti si corrompono e la tonalità di fondo del vivere diventa la noia, il disagio, e progressivamente la conflittualità.
 
[1] P. Sequeri, L’assoluto affettivo. Primato dell'amore di Dio e religione dei sentimenti, in G. Coffele (ed.), Dilexit Ecclesiam. Studi in onore del prof. Donato Valentini, LAS, Roma 1999, 299-317, 316.
 Andrea Bozzolo
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