La scuola è un atto d'amore, che sviluppa, senza alcuna ambizione sostitutiva, ma con specifica proiezione verso la maturità del legame sociale, il gesto dell'iniziazione famigliare. Pensare al suo “rendimento produttivo”, in termini esclusivamente funzionali al concetto di “avviamento al lavoro”, le toglie il meglio. In tutti i sensi.
del 10 novembre 2006
 
Nelle società cosiddette avanzate, l’istituzione scolastica è l’ultimo dispositivo di iniziazione al legame sociale che ci è rimasto, prima che dilaghi il nuovo individualismo tribale. Nelle società cosiddette in via di sviluppo, un sistema scolastico forte e aggiornato è la prima delle condizioni, e la più qualificante, per l’integrazione della dignità personale fra gli standards di qualità della vita collettiva. La passione e la professione dell’insegnamento, che comprendono necessariamente il senso di una responsabilità forte, che ha a che fare con “l’anima” – o chiamatela come vi pare, ma chiamatela – e non solo con le “tecniche”, sono in molti modi contraddette e avvilite nei contesti di entrambi gli orizzonti sociali.
Nuovi punti di attrito, nello scenario mondiale, fra eccessi di identità ed eccessi di liquefazione del legame sociale, rendono questa responsabilità strategica e cruciale. Strategica, perché la qualità dell’educazione, e non soltanto l’efficienza dell’istruzione, trova ancora nell’istituzione scolastica un vettore di legittimazione insostituibile per la dotazione umana – umanistica e umanitaria – delle generazioni. Cruciale, perché le opportunità e i potenziali offerti dall’età evolutiva, in ordine alla disposizione sociale del singolo, sono unici. Dopo, si può fare molto, naturalmente: ma non è la stessa cosa. E paradossalmente, gli effetti disgreganti dell’occasione mancata sono meno difficili da compensare al livello del singolo, che non a quello degli effetti di danno che essi inducono nel corpo sociale.
L’istituzione scolastica è anche uno degli azzardi più belli della società civile. Un effetto, magnifico e colossale, dell’impegno collettivo a tradurre, nella sfera sociale e pubblica, uno dei gesti più alti della donazione. Insegnare il linguaggio, insegnare a parlare e ad ascoltare, insegnare ad apprendere, insegnare a modulare l’espressione di sé e l’interpretazione dell’altro, mettere in comunicazione le menti, partecipare al pensi ero, agli affetti, alle invenzioni e alle avventure delle generazioni umane, insegnare a distillare le tradizioni e ad assimilare il nuovo. La scuola è il luogo dove si incorporano i tratti fondamentali del “diritto fraterno”, senza il quale una pretesa società di individui liberi e uguali nasconde certamente elementi di conflitto e prevaricazione senza limite e senza controllo.
La scuola è un atto d’amore, che sviluppa, senza alcuna ambizione sostitutiva, ma con specifica proiezione verso la maturità del legame sociale, il gesto dell’iniziazione famigliare. Pensare al suo “rendimento produttivo”, in termini esclusivamente funzionali al concetto di “avviamento al lavoro”, le toglie il meglio. In tutti i sensi.
Bene ha fatto l’Osservatorio Permanente della Santa Sede presso l’Unesco a Parigi, intercettando tempestivamente la congiuntura di sostanziale insensibilità, ad accendere i riflettori sul nesso cruciale e strategico che lega “amore dell’educazione”, il gesto stesso della scuola, ed “educazione all’amore”: ossia, il lavoro sociale e culturale che attrezza la qualità umana del legame fraterno. Fra i singoli. Fra i popoli. Fra le culture. La Chiesa, “esperta” nella testimonianza di questo fondamento, e di lunga militanza quanto alla cultura alta e ai buoni legami che ne provengono, ha lanciato il suo appello e convocato gli uomini di buona volontà. Che non sono affatto pochi, anche dentro le scuole. Ma questi, chi li ascolta?
Pierangelo Sequeri
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