Questo scritto della Madre Cànopi, tratto dalla rivista Vita Nostra delle Monache Cistercensi d'Italia, ci aiuta a chiarire la vocazione cristiana nel mondo attuale. «Per servire gli altri bisogna veramente farsi piccoli, umili, fino a sapersi inginocchiare davanti a loro, mettersi ai loro piedi. È difficile, perché il nostro io è duro a morire... Come cambierebbe il mondo se ogni mattino ciascuno di noi si proponesse di rivestirsi di Cristo assumendone i pensieri e i sentimenti per riprodurne le opere...».
del 30 marzo 2006
Il fondamento primo ed insostituibile su cui riposa tutta la vita monastica è la rinuncia.  'Colui che non rinunciasse a tutte le cose del mondo – diceva san Macario d'Egitto – non può essere monaco'; e l'Abbate Alonio: 'Se io non avessi distrutto tutto, non potrei edificare me stesso'.  La rinuncia monastica implica un distacco completo, una totale abnegazione ed una piena partecipazione all'umiltà e povertà di Cristo.  Il monaco si spoglia per sempre di quanto possiede: i suoi beni temporali, la sua famiglia, la sua patria, il suo corpo, la sua volontà, tutto.  La tradizione si mostra unanime su questo punto:  senza tale rinuncia preliminare è impossibile essere monaco.
Tuttavia, per non smettere di essere monaco, è necessario perseverare e anche progredire, se possibile, in questa condizione di rinuncia e di spogliamento.  Individualmente e collettivamente.  Non basta la povertà personale.  Non soddisfà più questo sotterfugio dei 'moralisti'. Sarebbe mentire a Dio e agli uomini riprendere a titolo collettivo quanto si è abbandonato a titolo individuale; ed anche acquistare più di quello che si è lasciato, in nome di certo umanesimo, che non ha nulla a vedere con la vita monastica.  Soltanto le loro 'opere' (scuole, missioni, ecc…) possono giustificare che i monasteri possiedano più di quanto è necessario perché i monaci vivano parcamente;  risulterebbe però assurdo che un monastero semplice abbondasse di beni materiali.
Il monaco sa che è uomo e che nulla di ciò che è umano gli è estraneo.  Tuttavia il suo sguardo va molto al di là delle cose di questa vita, per buone e nobili che siano, e si posa sulle realtà ultramondane.  Tutti i suoi desideri convergono nella vera Patria.  In questa terra egli si considera come un pellegrino, come uno straniero di passaggio.  È convinto che la 'teologia dell'incarnazione' – ideale di cui tanto si parla ai giorni nostri – è propria di altri membri del Corpo Mistico di Cristo.  La sua vocazione, la sua grazia speciale, lo porta a scegliere definitivamente le realtà escatologiche, che in qualche modo egli anticipa già sin d'ora. Questa è precisamente la sua peculiare testimonianza agli occhi della comunità cristiana e del mondo intero.
Vivere per servire: ecco un ideale davvero bello per un cristiano! Ogni autentico servizio, infatti, ha la sua radice nel mistero di Cristo che per salvarci « pur essendo di natura divina..., spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo » (Fil 2, 6-7). Gesù è venuto sulla terra per insegnarci a servire. Egli è il nostro modello. Durante l'ultima Cena, dopo la lavanda dei piedi, disse ai suoi discepoli: « Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi » (Gv 13, 12-15).
Conformarsi a Cristo significa, dunque, nelle situazioni in cui si vive e si lavora, saper dire con spontaneità: « Sono venuto per servire, non per essere servito » (cf. Mt 20, 28), « essere cioè sempre a disposizione per il bene degli altri », anzi, « diventare un bene per gli altri ». La differenza non è piccola: si tratta di passare dal fare qualcosa a favore dei fratelli, ad essere una persona per gli altri, come Gesù è « per noi ».
Questo modo di porsi in relazione a Dio e al prossimo dona alla vita una dimensione nuova: in qualunque stato ci si trovi — consacrati o laici, soli o sposati, sani o malati — sempre si ha una missione da compiere, quella di donarsi. E poiché il donarsi implica l'impegno di una continua conversione per negarsi a se stessi, chi vive in tale dimensione interiore evita di entrare in competizione e in rivalità con i fratelli, non agisce sotto la spinta dell'ambizione e dell'egoismo, fugge l'ostilità, la violenza, l'aggressività, con tutte le tristi conseguenze che purtroppo si esibiscono sulla scena di questo mondo. Allora, anche se in apparenza non occupa un posto di rilevo nella società, il cristiano contribuisce veramente a costruire la « civiltà dell'amore »; là dove vive è una presenza di pace che diffonde attorno a sé carità e spirito di comunione, favorisce la collaborazione e la concordia a tutti i livelli, diventa fermento di giustizia, di santità.
L'ideale del servizio comporta inoltre altre conseguenze. Se uno vive in pace con gli altri non avanza diritti per sé, cerca piuttosto di mettersi nella prospettiva del « dovere ». Oggi si parla facilmente di « diritti », ma si pensa meno al fatto che, se ogni persona ha il diritto di essere libera, di avere il necessario per vivere, ciò implica che io ho il dovere di fare per quella persona quanto occorre per il suo bene. Certamente si tratta di un atteggiamento da assumere reciprocamente, di una responsabilità comune. Quanto è importante la reciprocità! Tuttavia, per quanto ci riguarda, dobbiamo soprattutto preoccuparci di compiere il nostro dovere, cioè di servire gli altri con amore, in modo gratuito, anche se non riceviamo dagli altri il contraccambio. Anzi, quando tale disparità dovesse manifestarsi, proprio allora è il momento di vivere il Vangelo alla lettera, senza seguire la mentalità del mondo.
In altre parole, non si deve osservare soltanto la legge del « dare per ricevere », perché la nostra identità di uomini e di cristiani — se tali vogliamo essere — si caratterizza per un sovrappiù di amore, in forza del quale non si fa il bene per ricevere il contraccambio, ma lo si fa gratuitamente, comunque e sempre, senza paura di « perdere », poiché il bene che si fa ritorna sempre anche a chi lo compie: non è mai contro di noi. Anzi proprio quando gli altri non ci ricambiano, sul piano spirituale guadagniamo di più, perché diventiamo più conformi, più somiglianti a Cristo. E questo è il vero guadagno: la santità. Chi fa il bene ha già il suo premio, perché si realizza secondo il progetto di Dio. A poco a poco, nelle sue scelte si trova a non essere più schiavo di un criterio puramente umano e utilitaristico o, peggio, schiavo delle proprie passioni, ma si eleva a un concetto della vita più nobile e spirituale, e ad acquistare la capacità di avere rapporti autentici e sereni con tutti.
Questo è tanto importante, soprattutto nel nostro tempo in cui, con lo sviluppo delle comunicazioni, e anche in conseguenza delle migrazioni dei popoli, chi si dedica agli altri viene spesso a trovarsi a contatto con molte persone di altra nazionalità e anche di diversa religione. È una bella testimonianza di gratuità aprirsi a tutti: ogni uomo merita di essere onorato, amato, servito, a qualunque popolo appartenga e qualunque sia la sua fede.
Quando questi incontri avvengono in uno spirito di autentica accoglienza e umanità, favoriscono decisamente il formarsi di relazioni fraterne e pacifiche, perché il bene donato suscita altro bene. In un mondo dominato dalla violenza, si tesse così silenziosamente una rete di amicizia, che dice con i fatti che tutti gli uomini sono davvero fratelli, figli di un unico Dio, tutti incamminati verso un'unica meta. Tutti siamo poveri e deboli, ma se ci aiutiamo le fatiche del cammino si possono affrontare con maggiore fiducia: là dove uno cade, un altro è pronto a rialzarlo; quando ad uno viene meno il coraggio, chi gli è accanto diventa per lui un raggio di speranza. Anche questo è un servizio che siamo chiamati a renderci reciprocamente. E bisogna farlo con gioiosa disponibilità, sapendo che abbiamo sempre accanto a noi Gesù, nostro compagno di viaggio. Anzi, è lui stesso la Via. Guardando a lui, non si può più accontentarsi di arrivare soltanto « fino a un certo punto », perché egli non si è fermato lungo la salita del Calvario, ma ha servito l'umanità fino a salire sulla croce. Dal suo esempio nasce la forza di andare oltre le « convenienze » umane, accettando non solo la fatica, ma anche le umiliazioni che spesso il servizio comporta, accettandole come momenti di grazia, per liberarci dal terribile peccato di orgoglio che sempre c'insidia e spesso rovina anche il bene che possiamo compiere.
Per servire gli altri bisogna veramente farsi piccoli, umili, fino a sapersi inginocchiare davanti a loro, mettersi ai loro piedi. È difficile, perché il nostro io è duro a morire; ma in questo sacrificio non c'è tristezza, anzi proprio da esso scaturisce la vera gioia. Gesù stesso ha detto: « C'è più gioia nel dare che nel ricevere », e l'apostolo Paolo afferma: «Dio ama chi dona con gioia ». Queste parole di vita sono da ricordare sempre.
Chi si fa « servo » per amore di Cristo e dei fratelli si trova libero e felice di godere, insieme con tutti, il tesoro del Regno dei Cieli.
Come cambierebbe il mondo se ogni mattino ciascuno di noi si proponesse di rivestirsi di Cristo assumendone i pensieri e i sentimenti per riprodurne le opere; se con risolutezza ci mettessimo al lavoro come buoni operai dicendo: « Per me servire è regnare: oggi voglio cominciare a vivere così! ».
 
 
Autore: Madre Anna Maria Cànopi osb. La Madre Cànopi,  fondatrice e Abbadessa dell'Abbazia Benedettina 'Mater Ecclesiæ' dell'Isola San Giulio ORTA (NO) -Italia-, è anche studiosa di spiritualità biblica, liturgica e monastica.
 
Anna Maria Cànopi
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