Il Patriarca di Venezia card. Angelo Scola sarà il Relatore generale dell'XI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi che si apre a Roma in Vaticano il 2 ottobre per concludersi il 23 dal titolo: 'L'Eucaristia: fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa'. Alla vigilia della partenza per Roma, il cardinale ha accettato di approfondire alcuni spunti di riflessione sul significato del Sinodo, sulle aspettative e sulle ricadute concrete che avrà questo importante appuntamento della Chiesa.
del 01 ottobre 2005
Eminenza, lei è in partenza per il Sinodo del quale sarà il Relatore generale. Come guarda a questa nuova responsabilità?
 
Effettivamente un po' di timore c'è, perché è una responsabilità che mi è stata data da due papi, prima da papa Giovanni Paolo II e poi da Benedetto XVI ed è un servizio che devo svolgere per tutti i padri sinodali che rappresentano la grande ricchezza della Chiesa cattolica nella sua uniformità, nei suoi variegati aspetti e nella sua unità. Questo timore è alleviato dalla coscienza che al Sinodo siamo veramente in famiglia e in questo sono molto sostenuto dalla straordinaria esperienza delle congregazioni generali del Conclave dove si è vista la differenza di qualità nei rapporti di comunione dentro la Chiesa.
 
Sinodo è una parola greca che richiama l’andare insieme, l’andare condiviso. Cosa significa “l’andare insieme” nella Chiesa di oggi?
 
L'insieme è tutto. Cos'è la Chiesa? E' la modalità decisa e voluta da Dio, a partire soprattutto dall'Ultima cena, per andare incontro alla libertà dell'uomo di ogni tempo e di ogni latitudine e longitudine. Non c'è altro modo per incontrare Cristo oggi che non sia passare, in maniera diretta o indiretta, dalla Chiesa; la Chiesa è un insieme di persone che, toccate da Cristo che è Grazia, tendono liberamente a mettere in comune i loro beni spirituali e anche materiali. Dunque la Chiesa è, come ha detto il Vaticano II, il sacramento della presenza di Cristo e la modalità con cui si incontra Cristo, così come il marito è la modalità con cui la moglie incontra il volto amoroso di Dio. La nostra vita è sempre così. Questo 'fare insieme la strada' è la condizione esaltante per l'avventura della libertà di ogni cristiano.
 
Il tema del Sinodo sarà l’Eucaristia che ha una storia lunga duemila anni. Potrà dire qualcosa di nuovo oppure solo confermare ciò che già la Chiesa vive?
 
Cos'è il nuovo? Il nuovo non è l'inedito ma la continua ripresa dell'antico e della fecondità dell'antico. E' interessante riflettere sul fatto che i due verbi che sono al cuore dell'istituzione eucaristica sono i verbi con cui sempre la storia della Chiesa ha in qualche modo comunicato l'evento di Cristo. Sono ricevere e trasmettere: 'prendete e mangiate questo è il mio corpo'. E San Paolo dice 'quello che ho ricevuto vi do'. L'Eucaristia è proprio questo atto del ricevere e del trasmettere, così come un papà e una mamma hanno ricevuto la fede e la trasmettono ai figli, così come la comunità parrocchiale riceve la fede da una generazione e la trasmette all'altra generazione. Quindi in questo atto del ricevere e del trasmettere, che si chiama con una parola molto bella tra-dizione, sta il principio della vera novità, l'antico che si fa nuovo. Il nuovo è il rigenerarsi dell'antico, non è inedito. In questo senso secondo me il Sinodo potrà aprire delle luci che sono già previste dalle tante risposte che sono pervenute dalle varie conferenze episcopali e potrà poi gettare riflessi di luce nuova su questo grande mistero, che è nuovo e che è anche antico. Un po' come fa il sole quando gioca con i nostri mosaici in San Marco, dove si vede sempre qualcosa di diverso.
 
Cosa potranno dire al mondo che non va in chiesa i dialoghi del Sinodo? Che risposte potrà dare alle domande del mondo contemporaneo, alle ansie e alle speranze dell’uomo moderno?
 
Potrà darle ritornando a ciò che l'Eucaristia e, in connessione con l'Eucaristia, tutti i sacramenti esprimono e che la Parola di Dio profondamente ascoltata ci aiuta a capire. Cos'è il sacramento? E' il mistero pieno di amore della Trinità, attraverso cui Cristo Gesù afferra le espressioni e i riti della vita dell'uomo e li rende strumento e insieme occasione per mostrarsi nel rapporto positivo con Dio. Si tratta solo di ridire all'uomo di oggi la concretezza materiale della famiglia cristiana: la famiglia cristiana è al cuore del mestiere di vivere che ha a che fare con la vita di tutti i giorni, fatta di affetti, di lavoro... Il problema è che noi cristiani non testimoniamo tutto questo e quindi gli uomini di oggi non lo sanno e pensano che l'Eucaristia sia un rito magico.
 
L’Eucaristia è anche rito (la messa) e il rito è linguaggio, che si lega inevitabilmente alla cultura dei diversi popoli. Al Sinodo si parlerà anche di questo aspetto? Si parlerà di come coniugare la ricerca dell’unità con il rispetto per l’originalità delle differenti culture alle quali appartengono i cristiani?
 
Certamente. Io stesso nella relazione iniziale dedicherò un paragrafo a questo tema. Ma lo si capisce proprio se si va alla radice del rito: noi purtroppo abbiamo un'immagine sbagliata del rito, che invece è il gesto più potente che l'uomo possa compiere. E' l'investimento più elevato della mia libertà nelle condizioni di spazio e di tempo. Perché il rito è l'irrompere della potenza della Trinità nel ritmo spazio-temporale della mia esistenza, è come un qualcosa di improvviso, come un evento, che spezza questo ritmo e mi costringe a prendere un attimo di sospensione, a ripensarmi e a piegarmi a un altro e quindi a uscire da me. L'altra dimensione formidabile del rito, accanto all'aspetto individuale, è appunto che è un evento di popolo e che è quindi un incontro di sintesi tra la mia fede, tra il dono di una libertà personale della fede e ciò che la mia appartenenza religiosa comporta. Il rito è l'incontro tra la religione e la fede: non esiste fede senza religione e non esiste religione che non debba essere purificata dalla fede. La religione di un popolo non può dunque non tener conto della cultura, della sensibilità, della lingua e delle tradizioni di quel popolo. In questo senso il rito dell'Eucaristia è celebrato secondo la maniera che quell'assemblea comunitaria impone; il caso più clamoroso è stato al Concilio Vaticano II con la decisione di passare alle lingue 'vernacole'. Anche la natura del tempio, anche i fattori decisivi del tempio (l'altare, l'ambone, la musica, i canti, l'arte) esprimono l'oggettività del rito nella sua duplice dimensione unitaria e particolare. Il punto è che da una parte c'è il 'fate questo in memoria di me', che vive in tutto il corpo, ma il 'fate questo' è arricchito dal fatto che il sacramento ha ancora l'umano incarnato che lo trasforma. In questo senso ci sono già degli esempi molto significativi nella Chiesa, alcuni già approvati da Roma: nell' ordo missae dell'India o dello Zaire che vogliono recuperare questa singolarità e particolarità del rito legato alla loro tradizione.
 
Qualche osservatore guarda alla celebrazione dell’Eucaristia come a un momento di aggregazione per i cristiani, con una forte valenza sociologica. Che fine ha fatto in questo l’educazione al mistero dell’incontro tra Dio e gli uomini?
 
Questo è un problema molto delicato e importante. Quando penso alla celebrazione eucaristica nelle parrocchie del nostro Patriarcato, dove ho avuto modo di celebrare, credo che il popolo che partecipa domanda esattamente, attraverso quel gesto che gli costa sacrificio, questo rapporto profondo con il mistero che regge la vita. Ed è consapevole che questo rapporto non può essere individuale: ciò deriva dalla grande educazione che la Chiesa porta avanti da anni e che i nostri sacerdoti instancabilmente perseguono. Il punto per equilibrare la necessaria dimensione orizzontale dell'Eucaristia con quella verticale, cioè la comunione tra le persone con tutto ciò che ne deriva - la responsabilità e la condivisione, l'impegno culturale, sociale, politico, ecologico - e la comunione profonda con la Trinità sta proprio nel rispetto dell'arte della celebrazione e nel far intendere la partecipazione attiva dell'oggettività della celebrazione. Secondo me una certa giusta esigenza che l'Eucaristia sia partecipata viene spesso tradotta con un concetto equivoco che viene da una pedagogia superficiale di partecipazione attiva, cioè che per partecipare si debba far per forza qualcosa. Invece c'è anche una dimensione di ascolto, di silenzio. E' importante la semplicità del gesto, educare l'assemblea eucaristica al sapere all'unisono quando tutti devono star seduti, quando si devono alzare, quando si devono inginocchiare, quando si deve stare in assoluto silenzio, educare alla scelta dei canti appropriati, in cui la Scola cantorum accompagna all'ascolto e non si sostituisce al popolo, con canti sobri e semplici, con cui attraverso i ritornelli il popolo può partecipare.
 
Eminenza, lei va a Roma come Patriarca di Venezia: cosa porta della nostra Chiesa e cosa porterà alla nostra Chiesa?
 
Io vado a Roma come Patriarca di Venezia, perché sicuramente nella scelta di Giovanni Paolo II e poi nella conferma di Benedetto XVI ha avuto un peso preponderante non la scelta della mia persona ma il mio compito, perché il Patriarca di Venezia ha un peso nel Sacro Collegio e nel Collegio episcopale. E' molto importante che io, per quanto sarò capace, umilmente, sia cosciente che questo fa parte della mia missione di Patriarca di Venezia e che i miei sacerdoti e i miei fedeli comprendano questo. Io porto anzitutto quello che è il cuore della nostra vita, ad esempio il gesto molto bello fatto il 10 aprile all'Assemblea ecclesiale con tutte le testimonianze portate, lo stato di Visita pastorale in cui la diocesi si trova, l'incontro con le comunità parrocchiali, le persone che incontro e che mi scrivono portandomi i loro dolori e le loro sofferenze. Porto nel cuore i problemi della nostra Chiesa, della nostra città. E poi porto con me la grande tradizione veneziana: pensiamo cosa è stato nella nostra Chiesa, fin da prima che si diffondesse, il Corpus domini. E come nella sua storia la Chiesa veneziana abbia sempre legato la dimensione liturgica alla dimensione civile, nel rispetto delle differenze e delle distinzioni. Dall'altra parte sono messo da questa decisione del Santo Padre nella condizione di registrare in primo piano la grande ricchezza del caleidoscopio della Chiesa universale. E spero di riuscire a farla rifluire nella nostra Chiesa perché una Chiesa è tale se vive veramente ad immagine della Chiesa universale. Penso che questa è un'occasione che non appartiene solo alla missione del vescovo: tutti i fedeli del Patriarcato devono cercare di aiutarmi a capire che cosa è questo dono che il Papa ci ha fatto.
Sandro Vigani
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