Con uno stile intenso e vivo, lo scrittore (scomparso il 16 giugno 2008) narra in questo libro la sua esperienza di ragazzo nella Seconda guerra mondiale, dall'arruolamento tra gli alpini, appena diciassettenne, alle campagne di Grecia, Albania e Russia. E l'incontro con la pagina del Vangelo.
del 21 maggio 2009
La casa editrice Einaudi aveva chiesto a Mario Rigoni Stern un libro di ricordi e testimonianze perché lo riteneva utile per i giovani. Racconti che parlano, non retoricamente, di patimenti e risalite. L’autore non accettò subito l’invito. Dopo le prime perplessità si impegnò scrivendo, con appassionante sintesi, la sua giovanissima esperienza nella Seconda guerra mondiale. Nella premessa si legge: «È scaturito un esile libretto, esile di pagine ma credo denso di vita…il cuore del mio pensiero, tutt’altro che triste, va ai ragazzi di oggi».
 
 
 
 
La retorica del fascismo
 
Mario Rigoni Stern condensa nel suo libro mezzo secolo della sua scrittura e parte considerevole della storia del nostro Paese. È l’esperienza, narrata con stucchevole semplicità e verità, di un ragazzo diciassettenne che attraversa, come un Ulisse del XX secolo, il mare tempestoso del regime fascista, della campagna di Grecia, Albania e Russia dove l’esperienza quotidiana di trincea si fa anche corale e collettiva. La disfatta della campagna di Russia nel 1942 segna un profondo spartiacque nella coscienza dell’autore e di moltissimi soldati al fronte. Tra la tormenta della neve e del gelidissimo inverno nella steppa russa, la retorica fascista si disgela svelando amare verità. Le partenze sono sempre euforiche perché le parole sono sempre gonfie di retorica: «Partimmo da Aosta per la Russia a mezzanotte del 13 gennaio 1942. Nevicava. Gli alpini erano euforici perché avevano bevuto, e sul treno si erano portati una buona scorta di vino. Canzonavano apertamente i gerarchi in divisa che erano venuti a salutarci: noi andavamo verso il fronte, loro restavano». La retorica dei gerarchi era la stessa sentita nella campagna d’Africa la quale, come tale, produce una convinta esaltazione mentre la dura esperienza di trincea in guerra insegnava l’indignazione: «Con quanta retorica, con quanta poca realtà venivano poi riportate le notizie sui giornali. Anche nella mia giovanile ignoranza riuscivo a capire l’assurdità di continuare una guerra che non vittoria, ma solo morte e distruzione avrebbe portato alla nostra Italia. Le battaglie e quanto avevo visto dell’occupazione nazista in Russia mi avevano insegnato l’indignazione».
 
 
La tragedia russa
 
Una tragica esperienza che incomincia a suscitare perplessità, una diversa realtà come il vedere con i propri occhi i primi segni della guerra: «In Polonia incontrammo le rovine della guerra ma anche le donne ebree addette alla pulizia delle latrine e a liberare dal ghiaccio gli scambi ferroviari. Quando il nostro treno si avvicinava a una stazione, i sorveglianti armati facevano fuggire i bambini polacchi che erano lì per chiedere un pezzo di pane. Nei posti di ristoro per i soldati si poteva avere un gavettino d’infuso caldo di erbe aromatiche o anche un mestolino di Griebrei, pappa di semolino. Sempre più radi e poverissimi apparivano villaggi e città, la pianura era un’infinita coltre bianca gelata dove ogni tanto si vedevano rottami di automezzi, di carri armati, di aerei. Con il fiato scioglievo un cerchietto di ghiaccio sul vetro del finestrino e osservavo l’esterno attraverso quel chiarore». Nella tragedia russa il giovane Mario Rigoni Stern è colpito dalla dignità dei soldati russi che morivano senza provare alcuna vergogna. Dal rapporto operativo delle SS si legge: «Tra il 29 e il 30 settembre 1941, poco lontano da Kiev, procedettero all’esecuzione di 33771 civili. In contrappunto a questi episodi, ricordo che lessi quanto scrissero sui muri gli ultimi soldati russi accerchiati da due divisioni tedesche nella fortezza di Brest. “Moriamo senza vergogna”».
 
 
Uomini liberi
 
L’autore è uno dei pochi superstiti della campagna russa. Nel viaggio di ritorno in patria sembra vivere un moto di risurrezione alla vita. La sera prima del ritorno al reggimento andò a salutare una ragazza alla presenza dei suoi, sulla porta gli sussurrò: «Domani mattina prima delle cinque verrò a battere sulla finestra della tua camera per darti un saluto. Non mi aspettavo tanto, lei venne ad aprire in camicia da notte e spontaneamente ci baciammo. Aveva il tepore del letto, odore di bucato. Era una mattina luminosa d’estate e il ricordo di quel bacio, di quel mattino, mi fu di grandissimo aiuto nei giorni dove in tanti morivano». Mario Rigoni Stern nelle circostanze vissute al fronte a suo modo ubbidiva al moto della propria coscienza: «No, non avevo rimorsi per come mi ero comportato nelle battaglie; quando mi avevano ordinato di uccidere e non era necessario, avevo disubbidito». Questo aprire gli occhi nell’esperienza portarono l’autore, insieme ad altri 600 mila soldati italiani, al rifiuto di arruolarsi tra le fila della Repubblica Sociale Italiana finendo internato in un lager tedesco. Da prigioniero gli capitò tra le mani di leggere un piccolo Vangelo donato da padre Marcolini. Quando Mario Rigoni Stern arrivò al Discorso della Montagna: «tutto mi apparve chiaro, mi sembrava di capire senza alcuna ombra. Era la fame che mi aveva portato a questa chiarezza di pensiero? Capii che gli uomini liberi non erano quelli che ci custodivano, tanto meno quelli che combattevano per la Germania di Hitler. Che noi lì rinchiusi eravamo uomini liberi».
 
Mario Rigoni Stern L’ultima partita a carte  Einaudi  Torino, 2009
 
Silvio Mengotto
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