L'uomo che visse tre volte

Jobs è stato un grande scopritore di ciò che diamo per scontato perché crediamo di averla sempre con noi: la vita. Ed è stato inventore della vita perché ha avuto il coraggio che pochi possono permettersi: ha amato la morte, l'ha guardata in faccia senza rimanere pietrificato come accadeva nei miti greci...

L’uomo che visse tre volte

da Quaderni Cannibali

del 14 ottobre 2011 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) {return;} js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

“Ricordarsi che si muore presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per prendere le grandi scelte della vita. Siete già nudi. Non c’è ragione per non seguire il vostro cuore”.

Jobs è stato un grande scopritore di ciò che diamo per scontato perché crediamo di averla sempre con noi: la vita. Ed è stato inventore della vita perché ha avuto il coraggio che pochi possono permettersi: ha amato la morte, l’ha guardata in faccia senza rimanere pietrificato come accadeva nei miti greci a chiunque incontrasse Medusa. L’ha vinta come Perseo, guardandola senza guardarla, fregandola con il suo stesso sguardo: l’ha messa nel sacco e l’ha sfruttata come strategia per la vita, la più potente, la più radicale che esista. Perché alla vita se le nascondi la morte ti si ribella contro e finisce col fregarti. Invece se sai che sei nudo e lo vedi, ti ritrovi vestito soltanto di quella povertà che ti salva perché ti costringe a rispondere alla domanda che rende la vita autentica: per chi e cosa vivo?

La morte gli si è presentata in vari modi come accade nella vita di tutti noi, ma l’ha trasformata nel più fertile principio vitale: “in my end is my beginning” diceva il poeta. Fateci caso: solo chi sa morire, ha saputo anche vivere. Jobs era uno di questi. Amava così tanto perché sapeva morire e rinascere. Tutte le volte che gli è stato necessario.

 

Tre volte è morto Jobs. Almeno tre sono le morti che conto nella sua vita.

 

La prima. Molti secondo le regole di una retorica sempliciona lo hanno paragonato a Leonardo, per il suo genio e la sua poliedricità. Uno che ha creato Apple, e forse ancora di più NeXt e Pixar, è un genio. Siamo d’accordo. Ma il vero paragone con Leonardo è un altro. Più profondo, più nascosto: come Leonardo Da Vinci, Steve era frutto di una “scopata”. Sì, una relazione casuale o quasi. I due padri si nascosero, si vergognarono e non vollero riconoscere i rispettivi figli, che si ritrovarono orfani entrambi, per scelta dei loro padri, vivi e in piena salute, ma troppo egoisti per guardarli in faccia. Nè l’uno né l’altro perdonarono mai i loro padri. Passarono la vita a cercare di essere all’altezza di chi li aveva rifiutati, ne superarono ampiamente la bassezza e si innalzarono dove i loro padri non avrebbero potuto mai sognare. Ma questa morte, la prima e più radicale, perché non finale ma iniziale, li portò a creare vita più di chiunque altro viva della certezza di sapere da dove viene. Non ebbero regole perché nessun padre gliele insegnò e fecero di questa apparente debolezza il loro genio. Le regole le inventarono loro a furia di cercarle: “Ai folli. Agli anticonformisti, ai ribelli, ai piantagrane, ai pioli rotondi nei buchi quadrati, a tutti coloro che vedono le cose in modo diverso, non amano le regole… perché solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo lo cambiano davvero”. Non si arruolarono in marina come tutti quelli normali, inquadrati e ben avviati al gioco della vita. Scelsero la pirateria, con tutti i rischi che comportava.

 

Steve morì una seconda volta quando i suoi soci, quelli che lui aveva assunto, con spregiudicata furbizia lo cacciarono dalla Apple che lui stesso aveva creato. Rifiutato ancora una volta, creò con fame inestinguibile qualcosa di ancor più grande e dieci anni dopo ricomprò la Apple e la sollevò di nuovo, lanciandola nell’iperuranio (spesso deludente) del capitalismo. E ancora una volta seppe morire, ringraziare la morte e quindi vivere ancora di più, senza scendere a compromessi con la quieta disperazione di cui si accontentano molti: “allora non lo capii, ma il fatto di essere licenziato da Apple era stata la cosa migliore che potesse capitarmi. La pesantezza del successo era stata rimpiazzata dalla leggerezza di essere di nuovo un debuttante, senza certezze su niente. Mi permise di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita”. Il successo rende pesanti, ci si sente al sicuro, arrivati, non si ha più fame di nulla. La povertà della morte, nelle sue varie forme più o meno cruente, ci fa leggeri, affamati, aperti: “accendi il cervello. Le nuove idee nascono guardando le cose, parlando alla gente, sperimentando, facendo domande e andando fuori dall’ufficio”. Altro che posto di lavoro assicurato. Jobs aveva il coraggio e la sapienza semplice dell’albero che si nutre delle sue stesse foglie morte. E così rinasce.

Prima della terza morte, però, mi voglio soffermare su una parentesi poco edificante. Anche lui ebbe una figlia quasi per caso, Lisa, e non la volle riconoscere. Per fortuna però la vita gli mise accanto Laurene: quando la vide Steve disse che non avrebbe mai avuto occhi per nessun’altra donna e così fu. Lei lo rese un po’ più uomo come sanno fare le donne vere: rinnovandogli il guardaroba e anche l’anima. Donandogli tre figli, lo aiutò a recuperare Lisa, accogliendola in casa e dandole il posto che le spettava: il circolo vizioso dell’abbandono e della rabbia si interrompeva, la ferita veniva curata. E per queste cose ci vogliono le donne, non basta essere geni. Divenne padre, come mai forse avrebbe sospettato potesse essere un padre. Lui che non tollerava mancanza di concentrazione, andava in totale confusione quando i figli arrivavano a fargli visita sul posto di lavoro, o gli facevano ‘ciao’ con la mano da lontano. Sorrideva e non riusciva più a riprendere il filo del discorso.

 

Steve è morto una terza volta quando gli hanno diagnosticato uno dei tumori più aggressivi e inguaribili. Ancora una volta ha fatto piazza pulita, riconsiderando la sua perenne nudità di fronte alla vita, mettendo nel giusto ordine le sue priorità: la famiglia prima di tutto, ma continuando a lavorare, scoprire, creare e cercare il bello in ogni piccolo dettaglio. Lui che non era mai stato brillante negli studi richiesti dal curriculum, scoprì molto di più, perché aveva chiaro che la stessa minestra non può andar bene per tutti ed era consapevole che lo studio è la radice dell’amore per il lavoro: “i miei figli non hanno imposizioni. Solo lo studio. Non si può essere ignoranti e felici”.

Amava la vita perché sapeva che non era illimitata. Poi la morte ha vinto sul suo corpo, ma fino all’ultimo ha continuato a ripetere ciò che solo un vero genio sa: “la morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della vita”, “essere l’uomo più ricco del cimitero non mi interessa. Andare a letto la sera dicendosi che si è fatto qualcosa di meraviglioso, è quello che conta per me”.

Neanche Steve Jobs era immortale, che ci crediamo o no, anche lui è morto. Ma la lezione più grande non sono le sue invenzioni, anche quelle passeranno, ma il fatto di essersi fidato del suo cuore fino in fondo: “Il vostro tempo è limitato, quindi non lo sprecate vivendo la vita di qualcun altro. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui offuschi la vostra voce interiore. Abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione. In qualche modo sanno già che cosa volete realmente diventare”.

 

Volle essere Steve Jobs. Grazie al cielo, ci è riuscito.

 

Vanity Fair, 19 ottobre 2011, pp.70-72

D'Avenia Alessandro

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