Creazione è relazione, rapporto, comunicazione di vita: da Dio all'uomo, attraverso la molteplicità del creato; dialogo tra Creatore e creatura, che trova il senso della sua esistenza nel sentirsi uscita dall'amore di Dio...
del 05 ottobre 2005 
 
 
Quando nella Prima Lettura della Messa viene proclamato il primo capitolo di Genesi, certamente vengono in mente a molti giovani tante catechesi e attività svolte da bambini legate ad un “calendario” settimanale fatto di luce, terra, stelle, acqua, animali, pesci e quant’altro, e alla fine, a coronamento di tutto, l’uomo e la donna, disegnati sui cartelloni o riprodotti in immagini colorate semplici ma anche puerili. Insieme a questi ricordi però, sicuramente ritorna all’orecchio un timbro di stupore: e Dio vide che era cosa buona... E questo annuncio, opposto alla “natura matrigna” di leopardiana e scolastica memoria, oppure alle tante esperienze di fatica e sofferenza vissute in tempi adolescenti non ancora lontani, ricrea un tiepido senso di familiarità, l’idea di un ordine e un senso al tutto, che neppure lo studio delle ipotesi del big-bang, o la teoria degli stadi evolutivi hanno infranto.
La creazione è cosa buona: un gesto, un atto d’amore di Dio. Forse è anche un po’ ingenua questa rappresentazione di Dio, compiaciuto, come un bravo artigiano, di ciò che è uscito dalle sue mani. La vita, il dono della vita è cosa buona: affermarlo oggi di fronte ad una cultura frammentata che genera smarrimento e comunque angoscia, non è cosa da poco; ma anche affermarlo nella cultura in cui Genesi fu scritto era, forse, un azzardo.
In Genesi si dice che la creazione non è uno stato di decadimento dal perfetto e puro mondo ideale, né una perfida ironia degli dei, e neppure un boato ancestrale, frutto del caos o della rottura dell’uovo cosmico. Creazione è stupore, perché la vita è stupore: stupore dell’uomo che si trova a viverla, ma anche stupore di Dio che si compiace di donargliela da ora e per sempre.
Creazione è relazione, rapporto, comunicazione di vita: da Dio all’uomo, attraverso la molteplicità del creato; dialogo tra Creatore e creatura, che trova il senso della sua esistenza nel sentirsi uscita dall’amore di Dio.
 
 
Una domanda sulla vita
 
Di fronte al racconto biblico delle origini del creato, dell’uomo e della vita siamo chiamati a ricuperare in noi delle domande, a saperle accogliere, mentre ascoltiamo il testo.
Siamo stati così preoccupati per decenni (e non invano, perché bisogna dare merito a questi pionieri della esegesi storico-critica di Genesi) a dire e scrivere tutto ciò che il racconto delle origini non voleva o non poteva esprimere, da rischiare di perdere il senso di questo mistero dell’inizio, che nessuno scavo archeologico e nessuna comparazione tra letterature antiche potrà mai svelare pienamente. Sappiamo, certo, che biologicamente la vita ha fatto in milioni e milioni di anni quel cammino che il racconto (di chiara tradizione Sacerdotale) in Gen 1,1-2,4a concentra in sette giorni, in un tempo raccorciato, dunque, tempo simbolico, perfetto, universale nella sua espressione numerica. Ma detto questo, è detto tutto? Ci accontenteremo di relegare questo testo ad una espressione ora mitologica, ora simbolica, affidando ad una petizione di principio la verità che esso contiene? Il prezzo di questa operazione lo conosciamo: smarrire il coraggio e la forza delle domande che il nostro testo esprime e che le risposte troppo affrettate non posseggono più. Il tempo della domanda è un tempo concentrato, intenso, logico sebbene si affidi ad una intuizione. Si tratta di un attimo in cui si accede ad un di più, che pone il soggetto in profonda relazione con se stesso, con la sua esistenza e dunque con la verità dell’uomo.
Nell’affannosa ricerca di una risposta ci si può dimenticare che Genesi pone degli interrogativi la cui soluzione è lasciata al tempo lungo dello svolgimento del racconto biblico e della meditazione del lettore, cioè della sua vita. Il mistero dell’esistere, che affonda le sue radici nel tempo lungo e nello spazio aperto, ha bisogno, per essere compreso, di essere collocato in un “inizio” che non è “mito”, perché il mito si interessa soprattutto del passato, viceversa il racconto di Genesi spinge in avanti verso il futuro, come le tavole di un grande progetto architettonico. Questo “inizio” non è un racconto fantasioso, ma è l’attimo fulmineo della domanda sul perché io vivo, da dove vengo, dove vado, e del perché questo progetto non mi trova da solo, ma coinvolge anche gli altri.
 
 
In principio l’uomo e la donna, insieme
 
Nel racconto della creazione possiamo distinguere due tradizioni diverse, accostate armonicamente (pur nel rispetto del loro timbro originale) dal redattore di Genesi, probabilmente vicinissimo alla così detta “fonte Sacerdotale”. Essa, siglata dagli studiosi appunto con una P (dal termine tedesco Priester = sacerdote), è visibile in 1,1-2,4a.
La narrazione ha qui un andamento teologico: essa è infatti scandita in modo solenne da varie formule, come ad esempio – e Dio disse... – e Dio vide... –. Gli studiosi moderni hanno anche notato come questo racconto sia stato ben bilanciato in tutti i suoi elementi. Oltre alla scansione settenaria dei giorni della creazione che culmina nel riposo sabbatico, dobbiamo notare il gioco dell’intervento di Dio con il discorso diretto nel racconto. Nove volte ricorre la espressione – e Dio disse... – segno della volontà di Dio nel creare; a questa scansione fa da coronamento la formula – ... e disse loro – al v. 28 dove Dio si relaziona all’uomo e alla donna dopo averli benedetti (cosa che aveva fatto con gli altri esseri viventi al v. 22). In questo racconto c’è dunque rigore, proporzione e misura. Siamo di fronte ad una teologia molto chiara: l’uomo e la donna sono al centro e all’apice della creazione, il loro habitat, insieme, preludio al compimento del riposo di Dio nel settimo giorno, cioè preludio della sua piena gioia condivisa con le sue creature.
La seconda tradizione, appartenente alla fonte J (detta Jahvista, nominata così dall’uso prevalente del tetragramma sacro JHWH), è ben individuabile in Genesi 2,4b- 25 e prosegue con tutta probabilità nei capitoli 3 e 4. Essa ha un andamento molto più poetico, almeno per il nostro gusto. L’autore sacro ci dà la geografia di Eden, non si pone l’accento sulle varie fasi della creazione, essa si dispone armonicamente attorno ad Adamo e si compie con la comparsa di Eva sulla scena, accompagnata da Dio davanti ad Adamo come una sposa splendida per il suo sposo. È un racconto che ci mostra tutta la creazione come cornice di un grande matrimonio tra la creatura maschio e la creatura femmina, con Dio che celebra le loro nozze. Le due tradizioni (P e J), assai diverse tra loro, conducono ad un medesimo centro: Adamo ed Eva, la loro unione voluta da Dio come culmine della creazione.
È interessante cogliere questa centralità della coppia nel racconto delle origini, è come se fossimo invitati a spostare il nostro sguardo dall’inizio al compimento. Ognuno di noi, posto di fronte alla domanda della sua origine, trova questa duplicità, padre e madre, ora in modo bello, ora in modo problematico. Ma sempre, sempre, di fronte a questa duplicità, ognuno di noi sente se stesso come il compimento di questa promessa di unità, e insieme il “morso” di una incompiutezza che lo spinge a cercare il “suo” Adamo, la “sua” Eva, per costruire a sua volta una pienezza.
Proprio in questo vediamo che la Bibbia si apre con la presentazione della creazione non con l’ingenuità della mitologia arcaica, ma con la rivelazione del sapiente piano di Dio. L’autore sacro, nella scansione dei sette giorni della creazione, poteva attingere a piene mani alle mitologie fantastiche dei Babilonesi o degli Egiziani. L’immagine centrale di questi miti di creazione dell’antico Oriente era sempre quella di un matrimonio primordiale tra due divinità, come per esempio il Sole e la Luna. La Bibbia afferma invece la netta distinzione tra Creatore e creature: non c’è all’inizio uno sposalizio cosmico ma l’unica parola di Dio che crea, nomina, interpreta e dispone. Dietro ogni imperativo risuona il primo comandamento: – Sono io il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me – (cf Es 20,2; Dt 5,6-7). Se Dio è uno, la ricchezza dell’universo è invece molteplice e ordinata, essa è famiglia. Tutto è creato “in coppia” diventando così ordine e armonia: il cielo e la terra, la luce e le tenebre, l’acqua e l’asciutto, e ancora ogni essere vivente in coppia, “secondo la loro specie”. Il grande tema della creazione è dunque la famiglia, l’unità dei diversi dalla quale scaturisce la vita. Se infatti guardiamo il testo biblico, l’uomo è a immagine di Dio maschio e femmina. Non l’uno o l’altra presi singolarmente, ma insieme, formano l’immagine di un Dio che è amore che si dona. Quando Dio crea l’uomo crea la famiglia, perché prende a modello se stesso, l’unico Dio in tre persone, la Trinità, la “comunità divina”. Se l’immagine del Creatore si riconosce anche nel singolo individuo creato, in quanto è generato da Dio, è però nell’umanità in quanto coppia che rifulge tutta la potenza di Dio. Essi insieme realizzano l’immagine della fecondità di Dio, del dono della vita, del dono dell’amore e dell’amicizia.
Nel Vangelo Gesù conferma questo progetto primordiale di Dio contestando chi voleva abbassare il matrimonio ad una pura convivenza o ad un contratto: – Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: “E` lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?”. Ed egli rispose: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” – (Mt 19,3-6). È a questa carne sola che Dio affida poi il comando di governare tutta la creazione.
 
 
Eva, il coronamento di tutto: sposa, madre e “tenda”
 
Un pittore contemporaneo tra i più geniali e poetici della storia dell’arte universale, Marc Chagall, ha coronato in tarda età un bel sogno. Quello di regalare all’umanità (e soprattutto alla Francia, la patria che lo aveva accolto, lui ebreo, dalla lontana Russia, e gli aveva regalato l’arte, la vita e la gioia) un museo di pittura sulla Bibbia. Questo museo oggi esiste a Nizza, interamente progettato e voluto da Chagall come un itinerario tra scene della scrittura, un capolavoro unico e molteplice. Al centro e al culmine di questo itinerario c’è una stanza, piccola e circolare, dove ci sono quattro quadri e una scritta sul muro. Il visitatore (che magari si è concesso una distrazione durante una abbagliante vacanza in Costa Azzurra, o magari vi è stato condotto dal noioso programma di una gita scolastica) entrando in questa stanzetta rimane come stordito. I quattro piccoli quadri, di colore rosso e arancione, mostrano un Adamo incoronato che fugge a cavallo con la sua sposa Eva sui tetti di Parigi in un orizzonte di poesia e di sogno nel quale poi le didascalie diranno si trovano i simboli del Cantico dei Cantici, il più bel poema d’amore dell’umanità, posto al centro della Bibbia. Ma è la scritta, fatta a mano, sul muro, che svela tutto. È la dedica che l’ottantenne Marc-pittore fa alla sua moglie e che dice “A Vava, la mia donna, la mia vita, la mia allegria”. Non è solo romanticismo, colpisce infatti l’ultima parola: allegria. È una parola che dice ordine, e insieme capacità di superarlo, poesia, e insieme spensieratezza. È come se Chagall dicesse che il centro è lì, centro della vita, centro della creazione, centro della Bibbia.
Ed è proprio così: non ci sono, secondo il primo racconto della creazione, un Adamo e una Eva distinti, anzi essi sono una carne sola.
Ma qual è lo specifico, il rispettivo dono che l’uno porta all’altra? – Poi il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”. ... Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: “Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta”. Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. – (Gen 2,18-24). Qui sono presentati Adamo ed Eva, distintamente, l’una creata dopo l’altro. Ma il racconto mostra con evidenza come Eva sia un necessario completamento di Adamo (il testo ebraico dice kenegdo che significa letteralmente – come a lui di fronte-). Egli è solo, e questo non è bene. Dio, presentando ad Adamo tutta la creazione, gli fa prendere coscienza di questa sua manchevolezza, e nello stesso tempo gli fa capire la sua dignità (dare il nome era prerogativa patriarcale). Nel sonno, tempo della misteriosa opera di Dio, egli “costruisce” da una sua costola, Eva. Sì, costruisce, l’ebraico (come commenta ampiamente il biblista Carlo Rusconi) non usa qui il termine creare. Eva infatti è costruita come “tenda”, cioè come luogo in cui l’uomo può prendere dimora, vale a dire può prendere piena coscienza di se stesso. In tal senso, se Eva dipende da Adamo perché da lui è stata tratta, è anche vero che Adamo dipende da Eva perché solo dinnanzi ad essa egli prende coscienza della sua propria “carne” e delle sue proprie “ossa”. Adamo ed Eva che non hanno padre o madre se non Dio stesso, sono simbolicamente l’uno genitore dell’altra, e si generano nell’amore, come esprime l’inno di gioia in cui prorompe Adamo quando Dio gli conduce Eva in sposa.
Eva è dunque sposa, madre, ma ancor di più “tenda”, tabernacolo in cui Adamo riconosce essere conservata la pienezza della vita e la pienezza della creazione. Dobbiamo così affermare che la Bibbia riconosce alla prima donna una dignità impensabile, superando tutte le remore antifemminili della cultura antica.
 
 
L’unione come dono e missione
 
Adamo si specchia in Eva ed Eva si specchia in Adamo, essi si ritrovano l’uno nell’altra carne della mia carne e ossa delle mie ossa. Il progetto di Dio sulla creazione si compie con questa bellissima scena matrimoniale. L’uomo e la donna nel loro amore, nella loro unità, costituiscono il sogno e il segno dell’amore di Dio su tutto il creato. Questo amore trascende la creazione perché non è molteplice come lo sono gli animali, ma è uno. Dobbiamo qui soffermarci sull’importanza degli animali e degli altri esseri viventi posti intorno all’uomo, seguendo l’autorevolezza di un geniale biblista come Paul Beauchamp. Egli fa notare come: – in un testo in cui tutte le parole contano, dove tutte hanno un peso, il lettore è invitato a notare che ciascun gruppo di viventi, sia animali sia vegetali, riceve l’ordine di riprodursi “secondo la sua specie”–. L’espressione è insistente, martellante. Certamente c’è qui un riferimento “scientifico” alla classificazione tipica delle specie animali in “liste di sapienza” come usavano gli antichi e come troviamo anche nei libri sacerdotali di Levitico e Numeri, classificazioni usate inoltre per motivi cultuali. Di fatto però va registrato che non abbiamo tale specificazione per l’uomo. Dio dice Siate fecondi e moltiplicatevi, ma non dice – secondo la vostra specie –! In compenso si dice che l’uomo e la donna sono immagine di Dio. L’animale fa vedere ciò che l’uomo non è: l’animale è molteplice, l’uomo è uno. Di per sé si può azzardare nel dire (chiamando in aiuto la psicologia) che l’animale è a immagine dell’uomo, perché in esso l’uomo può rispecchiarsi e nella relazione con l’animale nella sua molteplicità l’uomo scopre la sua missione nel mondo, quella appunto di governare il mondo. Tuttavia va anche affermato che per Genesi la vita (in comune con tutti gli esseri che hanno il potere di riprodursi secondo la loro specie) non basta per definire l’uomo come immagine di Dio, essa risiede in quell’essere unico dell’uomo, come Dio è essenzialmente uno. – L’umanità non si suddivide in diverse specie, come l’animalità. L’uomo non si aggiunge alle specie animali, come una specie in più: le trascende – (Beauchamp). Ma l’uomo possiede tale unità non come realtà definitiva (perché è solo immagine e somiglianza), egli la possiede come promessa, come compito, come missione: gli è infatti ordinata. Egli deve compiere l’unità e l’armonia tra tutti i viventi. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra” (Gen 1,28).
Nel momento in cui l’uomo realizzerà in pieno dunque l’immagine di Dio, anche la realtà vivente sarà ordinata e coerente con il piano di Dio. Tutto dipende dall’uomo, tutto è a lui sottoposto, come un erede, che ancora non possiede l’eredità, ma solo l’amministra. Ed il dramma di tale eredità, perduta e ritrovata in Cristo, sarà il dramma di tutta la Bibbia.
 
 
Ri-narrare Genesi tra di noi
 
Martina aveva il cuore che andava a mille. Un po’ per il peso del valigione che trascinava su per le scale. Un po’ per il pensiero che le dava quella destinazione che ancora era per lei un numero appeso in bacheca, nell’atrio dell’università: interno 151-D. Era stata una gioia sapere che il “Diritto allo studio” le aveva assegnato, secondo rigide e misteriosissime graduatorie, una stanza nel più centrale studentato della città. Ce l’aveva messa tutta l’anno prima per guadagnarsi una media di voti che le potesse assegnare quel posto in graduatoria. E dire che aveva avuto proprio il giugno prima una bella crisi. Non che la sua Facoltà di Scienze dell’Educazione non le piacesse più, ma proprio sul più bello della corsa estiva agli esami, Giampi, uno studente che aveva conosciuto al corso di teatro, l’aveva piantata con la solita scusa che i ragazzi prendono: – Ho bisogno di una pausa di riflessione, non sono più sicuro… non c’è un’altra, non potrei mai farti questo, ma non sono ancora maturo per una storia così impegnativa –. Dopo quelle frasi le sembrava di odiarsi e detestava i suoi capelli neri sfilati e le sue ciglia lievemente passate col rimmel che lui – diceva – le davano un tono di ragazza interessante.
Poi ai primi di settembre si era rifatto vivo (che vile!) tramite un’amica comune (cosa c’entrava quella?) e chiedeva di rivederla. E no, caro mio, mica sono il parcheggio della Conad che vai e vieni col tuo carrello! Al solo pensiero le veniva ancora una rabbia totale. Uno strattone alla valigia, quasi fosse il collo di Giampi, l’aveva riportata alla realtà: adesso era ad una rampa di scale dalla mitica stanza. È mai possibile che chi costruisce gli studentati universitari non metta mai l’ascensore? Che fatica questa valigia dove aveva dovuto mettere dentro tutto all’impazzata per trasferirsi veloce dal suo posto letto nel quartiere vecchio, fino a quella stanzetta.
Eccola ora sulla soglia, Dio mio, che tristezza. Il colorino dei mobili era di un formica blu-stinto da far paura. Gli angoli della scrivania e dei ripiani rigorosamente sbeccati con una infinità di frasi e numeri scolpiti in penna biro, segno di chissà quante altre tragedie e noie da dopostudio. Prima ispezione: la tenda della doccia. Uno sfacelo, con il bordo inferiore un po’ nerino che sa tanto di muffe e funghi. E lo specchio? Guardò con tristezza quella lampadina fioca sulla destra. Addio rimmel!
Seduta sul letto, col valigione aperto pensando di trovarsi all’ultima stazione della metro. Vabbè, diamoci da fare, forse un po’ di personalizzazione porterà meno fitte al cuore. I libri sulle scansie, i CD nell’angolo estremo della scrivania (così copro quei disegni a penna provenienti da altre civiltà arcaiche – sì sono sicura, l’anno prima qui c’è stato un ragazzo, guarda che untume in questi cassetti, e poi l’angolo di cottura è impregnato di odori antichissimi…). Con un lungo sospiro che rimbalza sulle pareti pensava alle risate dell’anno prima, con le sue colleghe di appartamento, e poi alle litigate. Almeno non devo pagare tutti i mesi i duecento euro alla “megera” che affitta. Ma guarda questo qua che roba. Sotto al lavello ha messo in fila sei o sette bottiglie vuote di birra. Che schifo!
Con carta e forbici riveste i ripiani dell’armadio così le sue cose non toccano quel legno sudato di chissà chi altro. A posto i vestiti, quelli estivi e quelli da mezza stagione, poi l’inverno arriva e magari qui non c’è tanto caldo. Sul fondo della valigia le cade lo sguardo e adesso è proprio arrabbiata: – ma guarda che amiche! – dice a voce alta. Mi sentiranno quelle sciocche – La foto di Giampi, che non aveva più trovato dal giorno della svolta era lì sul fondo della valigia, messa senz’altro dalle amiche-nemiche, forse un po’ “gelose” del posto in graduatoria che le aveva guadagnato quella “suite”. Aveva voglia di buttare tutto all’aria. Dove metto i miei animali di peluche, testimoni immobili delle mie tristezze, e il poster di Einstein tutto scarruffato che fa la lingua?
Il suo sguardo si posa su di una nicchia al centro della parete libera della stanza: vuota, impolverata, quasi che fosse il buco lasciato da una cassaforte portata via. Che ci metto? Per lo stereo è troppo piccolo e per la lampada è stretto. Le viene un’idea tipica in quei momenti di down depressivo. La nonna quando era partita le aveva fatto avere una piccola Madonna di quelle russe, insomma una icona. La nonna sapeva prenderla e non le faceva mai prediche, ad esempio non le chiedeva mai se andava alla messa durante le lunghe permanenze all’università. Però quella Madonna era lì e le ricordava anche quello, e certo qualche domenica alla messa ci andava, pensando anche alla sua nonna. Ma adesso accidenti qui dove era la Chiesa più vicina? Però non troppo vicina… altrimenti le campane la domenica alle otto ti suonano dentro il cervello (ma chi ci va alla messa delle otto?). Però sì nella nicchia la Madonna ci può stare – è un po’ triste – io a ventun anni, che allestisco l’altarino… però l’icona è simpatica, meno tetra di certe bottigliette bianco-azzurre in forma di Madonna che aveva visto apparire sulla scrivania della Mirca in tempo di esame.
Lei ci credeva, ma non solo sotto esami, comunque non pensiamoci. Ora devo mettere ordine. Accidenti c’è un’unica presa? E il carica cellulare dove lo attacco? E il fono del bagno?
Un sibilo leggero ruppe il silenzio. Un SMS. Poi uno squillo, solo uno, come a dire, guardami! No, non è possibile, proprio adesso il miserabile si fa vivo. Aveva – ovvio – cancellato il suo numero, ma lo sapeva a memoria… iniziava col suo spavaldo 333… noioso come lui, e senza poesia. “Ci 6 stasera per 1 chiacchierata? Ti ho pensata tt qs gg”. Il display mandava lampi come sciabolate. Cosa rispondere a Giampi?
Martina guardò la nuova stanza, la valigia disfatta, la finestra aperta su di un giardino che aveva conosciuto altri splendori. E poi sorridendo perfida digita una risposta: – ho bisogno di maturare ancora… – domani, sì, avrebbe cercato di vederlo. Intanto la foto di lui vola sulla nicchia e in un baleno tutta la stanza viene sistemata, non è poi così male una volta arredata – dovevo fare architettura? –. Ed anche l’icona della Madonna fa un bel sorriso al nuovo arrivato.
 
 
don Guido Benzi
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