«Avvenire» intervista don Michele Canella. «La domanda che mi viene posta più spesso è: 'Ma tu, perché ti sei fatto prete?'. A distanza di tempo, di questi incontri la gente si ricorda, più che i ragionamenti, la serenità che sono riuscito a comunicare mentre parlavo della mia vita».
del 03 ottobre 2008
 
 Di don Michele Canella * 
Una delle cose che non mi sarei mai aspettato quando ho intrapreso il cammino che mi ha condotto fino all’ordinazione sacerdotale è la curiosità suscitata dalla mia vocazione. Ogni volta che passo un po’ di tempo con un gruppo di ragazzi che mi incontrano per la prima volta – soprattutto quando non sono, come si dice, 'gente di chiesa' – immancabilmente tra un discorso e l’altro qualcuno mi chiede: «Ma tu perché hai deciso di farti prete?». I più coraggiosi, per vedere se mi arrabbio, mi sfidano con l’ipotesi che non ho trovato una donna da amare e mi sono dovuto accontentare della 'vocazione'. Il clima di incertezza generale mette nel cuore a diversi giovani anche la domanda sulla reversibilità della mia scelta: ma se poi non ti piace più, puoi smettere di fare il prete? In ogni caso, sia davanti ai giovani che agli adulti, le mie risposte alle domande sulla vocazione non convincono mai per i ragionamenti che riesco a mettere in campo. A distanza di tempo, di questi incontri la gente si ricorda soltanto la serenità che sono riuscito a comunicare mentre parlavo della mia vita; 'grazie a Dio' hanno incontrato un uomo felice di ciò che è e di ciò che fa.
  A cinque anni da quando ho fatto voto per tutta la vita di vivere obbediente, povero e casto nella Congregazione dei Salesiani di don Bosco, a tre anni dal giorno della ordinazione sacerdotale, sono ancora convinto che quelli siano stati i giorni più belli della mia vita. E lo dico non perché negli impegni quotidiani le cose mi vadano sempre dritte! Ne sono convinto in nome del fatto che in ogni vicenda triste della vita, in tutte le occasioni in cui mi sono chiesto se valeva veramente la pena di vivere in questo modo le mie giornate, ordinazione sacerdotale e professione religiosa rimangono fino a oggi i punti di non ritorno. Con il cuore e la mente trovo il coraggio di vincere la tristezza facendo leva sulle promesse di felicità che lì ho raccolto. La mia avventura scaturisce tutta da quel 'sì' detto a Dio con la disponibilità più grande di cui sono stato capace, e l’unica certezza che mi sostiene nasce semplicemente dalla consapevolezza di essere stato scelto da Dio.
Non sono Salesiano sacerdote per qualche merito speciale; Dio non ha fatto la sua scelta tenendo presenti le mie capacità. In questo senso riconoscere la propria vocazione è una esperienza che ha molto a che fare con l’innamoramento: non lo decidi tu, ma ti scopri affezionato a un altro. Nel mio caso, due sono state le 'scintille': scoprire di essere sorprendentemente felice di spendere tempo ed energie con i giovani; conoscere dei religiosi capaci di lavorare in comunione tra loro e che sapevano far parte con altri della loro grande gioia di vivere. Più li incontravo nei raduni del Movimento Giovanile Salesiano, più mi accorgevo che col loro stile di vita realizzavano quello che da sempre desideravo anche per me, ma che non avevo mai saputo chiamare per nome. Era una emozione forte, promettente, che meritava insomma di essere verificata. Così è iniziata la frequentazione sempre più assidua di questi preti 'un poco originali'. Poi ho deciso di andare a conoscerli più da vicino con una domanda in cuore: lo stile di vita di cui sono portatori è una maschera che indossano per le grandi occasioni, o hanno veramente scoperto un segreto per essere felici? La ricerca ha avuto questo esito: una vita così nasce dalla profonda amicizia con Gesù Cristo. Nelle emozioni che provavo stando vicino a loro ho riconosciuto il Suo volto che mi interpellava. A quel punto anch’io ho detto 'Eccomi'. Ai suoi ragazzi don Bosco diceva che la santità consiste nello stare molto allegri, perché totalmente abbandonati nelle mani di Dio. Provare per credere.
 
*Istituto Salesiano Rainerum, Bolzano 
Fonte: Avvenire, 01.10.2008, pag. 22don Michele Canella
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