Don Bosco e Madre Mazzarello: due tralci ben innestati su una vite forte, Gesù.Ma come ogni primavera accade, per portare più frutto, il tralcio deve essere potato...Da piccola morte, nuova vita. Da un apparente fallimento, ecco l'aprirsi di nuove ed inedite prospettive...
del 27 settembre 2006MADRE MAZZARELLO
 
La paura“Nel 1860, a Mornese, una epidemia di tifo sparge sofferenza e terrore, perché all’epoca la malattia era difficile da prevenire e, in molti casi, mortale. Si ammala anche una casata dei parenti dei Mazzarelli. Quattro malati nella stessa casa, e molto gravi madre e figlio. Si ricorre a don Pestarino con le sue Figlie dell’Immacolata “le  quali- dice la Cronistoria- avevano per regolamento l’obbligo di assistere le donne malate del paese.” Solo le donne.
Don Pestarino va dai genitori di Maria a chiedere che la mandino come infermiera da quei parenti; vogliono lei, specialmente la madre. Ecco le reazioni nella loro schiettezza, a quell’invito.
La madre di Maria pronuncia un no secco e immutabile, perché la figlia è indispensabile a casa, e poi perché il rischio del contagio è grande. Dal padre viene dapprima un rifiuto, poi una concessione: non manderà certo Maria in quella casa, ma non si opporrà alla sua decisione di andarci.
Maria non ha affatto deciso, e spiega perché. Intanto, non si tratta di assistere solo donne: in quella casa ci sono anche ragazzi, una situazione che la trova impreparata ed inquieta. Poi c’è il pericolo del contagio, lei ne ha paura e lo dice senza minimizzare, limpidamente. Ci tiene ai suoi ventidue anni. Ha paura, certo, e se la sente addosso la malattia. Ma per rispondere a don Pestarino trova parole straordinarie: “Se lei vuole, io ci vado, benché sia certa di prendermi il contagio”. Il suo realismo non l’abbandona mai. Però ha deciso che non  la sua volontà prevalga, ma la chiamata a quel servizio. (…)
“…benché sia certa di prendermi il contagio”. Ripete queste parole più volte, ma in quella casa ci va. E ci rimane per un mese intero, servendo a tempo pieno i malati e i sani, fino alla guarigione certa di tutti, compresa la madre, che era la più grave. Tra quei parenti ha fatto meraviglie, e non finiscono più i ringraziamenti, le descrizioni ammirate della sua opera di infermiera, di governante per i figli più piccoli, risparmiati dal tifo. Il cugino Giuseppe fa notare con sorpresa anche la sua “gioviale disinvoltura”.
Non se l’aspettava, vedendo Maria di lontano, tutta assorta in chiesa: lì invece, sul campo, neanche l’ombra dei temuti imbarazzi, nessuna inquietudine. E’ stata efficiente come una vera “suora di carità”, con quell’additivo tutto personale, il buonumore.
 Si avveraTorna dunque a casa sua, Maìn, con la riconoscenza di tutta la parentela. Ma anche col tifo addosso, come temeva. E nella forma più grave. Il male l’aggredisce il giorno dell‘Assunta con la febbre alta, e la inchioda a letto per 52 giorni, con crisi gravissime che fanno credere imminente la morte. Ha ricevuto gli ultimi sacramenti, è stata persino ordinata una corona di fiori per il funerale. L’assistono, a turno, le Figlie dell’Immacolata. Don Pestarino le porta la comunione. Il medico perde le speranze. Maria sente la morte vicina e vi si prepara come per un lavoro importante da fare. Come quando alla Valponasca, di  notte, appuntiva i paletti per piantarli l’indomani a sostegno delle viti. (…)
Il momento però non viene. C’è una caduta della febbre e il medico la dichiara convalescente. Però avverte che sarà una cosa lunga e non senza pericoli, per le condizioni generali dell’organismo.
Infatti Maria resta bloccata in casa tutto l’inverno 1860-61.
Un nuovo ‘campo’La guarigione viene con la primavera. E dal letto si alza un’altra persona. Non è più, non sarà mai più la vigorosa ragazza che nessuna fatica spaventava tra i filari delle viti. A 24 anni si ritrova fragile, vulnerabile in tutti i modi. Scopre che all’appello della volontà manca ormai la risposta delle energie.(…)
Allora: preparata a morire, eccola restituita alla vita, come si usa dire. Ma a lei sembra piuttosto di trovarsi consegnata a una vita inaspettata e diversa. Una vita con limiti mai immaginati prima.
Scrive Maria Esther Posada: “La malattia stronca le forze della giovane Mazzarello e diventa per lei l’occasione di fare, in profondità, l’esperienza della sua fragilità fisica, psichica, spirituale. In fondo a questa esperienza la creatura trova la forza di una ripresa solo nell’abbandono fiducioso in Dio, intuito e conosciuto in luce nuova. Questa forza e questa luce non sono altro che la virtù della speranza che, infusa nel Battesimo, insieme alla fede e alla carità, acquista maggiore vigore e luminosità nel momento purificatore della prova.”
E Maria Mazzarello, infatti, nella prima visita in Chiesa dopo la malattia, prega in una luce nuova e serenamente chiede: “Signore, se nella vostra volontà volete concedermi ancora alcuni anni di vita, fate che io li trascorra ignorata da tutti, e fuorché da voi, da tutti dimenticata.”
Ignorata, dimenticata. Ma non dimissionaria. Viva. E con un’idea che sente come una chiamata. Le germogliava in mente da un po’, è cresciuta nei tempi lunghi della convalescenza: non può più lavorare nei campi. Il Signore non la vuole più là.
L’idea sono quelle bambine, alle quali la Maccagno insegna a leggere e a scrivere. Bellissima conquista, ma bisogna fare di più, insegnando anche un lavoro utile e occuparsi della loro formazione religiosa: e a questo preciso compito- ecco la sostanza dell’idea- dedicare la vita.”
 
(Tratto da “Il comandamento della gioia” di Domenico Agasso, pp. 26-29)
  
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DON BOSCO 
Condizioni disperate“Prima domenica di luglio 1846. Dopo la massacrante giornata passata all’Oratorio in un caldo torrido, mentre torna alla sua stanza presso il Rifugio, don bosco sviene. Lo portano al suo letto di peso. “Tosse, infiammazione  violenta, perdite continue di sangue. Complesso di malattie gravissime per quel tempo.
“In pochi giorni fui giudicato all’estremo della vita”. Gli viene dato il viatico e l’Unzione degli Infermi. Sui palchi dei piccoli muratori, nelle officine dei giovani meccanici, la notizia si diffonde rapida: “Don Bosco muore.”
In quelle sere, alla cameretta del Rifugio dove don Bosco agonizza, arrivano gruppi di poveri ragazzi spauriti. Hanno ancora  gli abiti imbrattati dal lavoro, la faccia bianca di calce. Non hanno cenato per correre a Valdocco. Piangono, pregano:
-            Signore, non fatelo morire.
Il medico ha proibito ogni visita, e l’infermiere impedisce a tutti di entrare  nella camera del malato. I ragazzi si disperano:
-            Me lo lasci solo vedere.
-            Non lo farò parlare.
-            Io ho solo da dirgli una parola, una sola.
-            Se don Bosco sapesse che sono qui, mi farebbe entrare certamente.
Otto giorni don Bosco rimase tra la vita e la morte.
Ci furono ragazzi che in quegli otto giorni, al lavoro sotto il sole rovente, non toccarono un sorso d’acqua per strappare al Cielo la sua guarigione. Nel Santuario della Consolata, i piccoli muratori si diedero il turno giorno e notte. C’era sempre qualcuno in ginocchio davanti alla Madonna. A volte gli occhi si chiudevano per il gran sonno ( venivano da 12 ore di lavoro), ma resistevano perchè don Bosco non doveva morire.
Alcuni, con la generosità incosciente dei ragazzi, promisero alla Madonna di recitare il Rosario per tutta la vita, altri di digiunare a pane ed acqua per un anno.
Sabato, don Bosco ebbe la crisi pi√π grave. Non aveva pi√π forze, e il minimo sforzo gli provocava uno sbocco di sangue. Nella notte, molti temettero la fine. Ma non venne.
 
Una promessa
Venne invece la ripresa, la grazia strappata alla Madonna da quei ragazzi che non potevano rimanere senza padre.
Una domenica verso la fine di luglio, nel pomeriggio, appoggiandosi a un bastone, don Bosco si incamminò verso l’oratorio. I ragazzi gli volarono incontro. I più grandi lo costrinsero a sedersi sopra ad un seggiolone, lo alzarono sulle loro spalle, e lo portarono in trionfo fino al cortile. Cantavano e piangevano, i piccoli amici di don Bosco, e piangeva anche lui. Entrarono nella cappellina, e ringraziarono insieme il Signore. Nel silenzio che si fece teso, don Bosco riuscì a dire poche parole:
“La mia vita la devo a voi. Ma siatene certi: d’ora innanzi la spenderò tutta per voi.”
Sono le parole più grandi che don Bosco disse nella sua vita. Sono il voto solenne con cui si consacrò per sempre ai giovani e solo a loro. Le altre parole grandissime, vera continuazione di queste, le dirà sul letto di morte: “Dite ai miei ragazzi che li aspetto tutti in Paradiso.”
Le pochissime forze di cui poteva disporre quel giorno, don Bosco le spese a parlare a uno a uno coi ragazzi, “per cambiare in cose possibili i voti e le promesse che non pochi avevano fatto senza la dovuta riflessione quando io ero in pericolo di vita.”
Un gesto delicatissimo.
I medici prescrissero una lunga convalescenza di assoluto riposo e don Bosco salì ai Becchi, nella casa di suo fratello e di sua madre, ma promise ai ragazzi: “Al cadere delle foglie sarò di nuovo qui, in mezzo a voi.”
 
(Tratto da “Don Bosco, una biografia nuova “ di Teresio Bosco, pp.154-155)
Francesca Marcon
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