Queste 24 ore che valgono un lungo regno hanno costretto l'opinione pubblica della Terra, inchiodata alle cronache televisive, a constatare la visibilità dell'invisibile, a comprendere che c'è qualcosa in più del successo nella vicenda di quest'uomo. Il profeta che se ne va lascia un vuoto percepito con eguale sensibilità anche dai non credenti. Wojtyla morendo consegna in eredità pure agli atei il bisogno di Dio...
del 02 aprile 2005
 Struggenti e appassionate nelle piazze mediatiche e ordinate nei palazzi apostolici, sono state le 24 ore più utili dei quasi 27 anni di pontificato di Karol Wojtyla. Se il dolore fosse tutto inutile, se anche dentro la civiltà di radici cristiane passasse l’idea che soffrire è sempre inutile, queste stanze vaticane ospiterebbero soltanto gli uffici di rispettabili signori stravagantemente vestiti di porpora, accanto a un vecchio morente.
L’autorità della Chiesa di Roma si legittima nell’idea che ha accompagnato Giovanni Paolo II anche nell’ultimo passaggio della sua intensa vita: morire per gli altri, a favore degli altri, è vivere due volte. E’ stata una morte esibita, come fu quella di Gesù sulla croce. Un uomo inabile ha trasmesso attraverso i mezzi di comunicazione un messaggio: la vita non ha momenti privi di senso, se è tesa a dare senso alla vita degli altri.
L’attenzione del mondo è stata costretta dalla volontà del Papa a concentrarsi lungo una frontiera fra l’aldiquà e l’aldilà che la frastornata cultura contemporanea tende a cancellare, per abolizione di ogni parte invisibile della realtà. Karol Wojtyla è stato potentemente uomo dell’aldiquà, una esistenza vissuta con intensità e vigore, un innamoramento di Dio che lo ha collocato subito in una storia di santi, una determinazione che ha inciso sugli equilibri ideologici e geopolitici del pianeta, un fascino naturale sulle folle, una giovinezza interiore che ha conquistato moltitudini di ragazzi.
Ma queste 24 ore che valgono un lungo regno hanno costretto l’opinione pubblica della Terra, inchiodata alle cronache televisive, a constatare la visibilità dell’invisibile, a comprendere che c’è qualcosa in più del successo nella vicenda di quest’uomo. Il profeta che se ne va lascia un vuoto percepito con eguale sensibilità anche dai non credenti. Wojtyla morendo consegna in eredità pure agli atei il bisogno di Dio. La sovrabbondanza ripetitiva e tardiva del contorno mediatico non ha soffocato l’innocente percezione del lutto e il sentimento corale di essere orfani.
Tutti i cardinali che entreranno in Conclave sono stati scelti da Wojtyla, sono pastoralmente e stilisticamente figli suoi. Avranno un compito arduo. In queste ore ognuno di loro si domanda: dove è un altro Wojtyla? E poi, dopo il tempo dell’eroe, quale tempo attende la Chiesa di Roma? Rileggo la Costituzione emanata da Giovanni Paolo II circa la vacanza della Sede apostolica. La firmò nel febbraio del 1996.
Con il tono brusco e autoritario che sapeva usare quando serviva, scriveva: «Proibisco a chiunque, anche insignito della dignità del Cardinalato, di contrattare, mentre il Pontefice è in vita e senza averlo consultato, circa l’elezione del suo Successore, o promettere voti, o prendere decisioni a questo riguardo in conventicole private». Di quel «Successore» parve quasi offrire un ritratto, invitando i cardinali elettori a evitare «la ricerca della popolarità» e a non farsi suggestionare dai «mezzi di comunicazione di massa». Li esortava a cercarlo «anche fuori del Collegio cardinalizio», di trovarne uno «giudicato idoneo a reggere con frutto e utilità la Chiesa». Un uomo «utile e idoneo».
Wojtyla muore sereno, convinto che ci sia. Dicono quanti gli sono stati accanto in queste ultime 24 ore che si è andato spengendo fragile e forte, magro come quei suoi fratelli ebrei polacchi che morirono nei campi di sterminio nazista. Aveva voluto che si pregasse per la loro memoria anche in una delle ultime messe silenziosamente concelebrate accanto al letto di infermo. Come dice l’antico canto romano, Wojtyla muore lieto perché vede morire la morte.
Gaspare Barbiellini Amidei
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