Viaggio nella Barcellona di Antoni Gaud√≠, che per Le Corbusier fu il più grande architetto del xx secolo. A 150 anni dalla nascita, la città catalana lo celebra dedicandogli un “anno internazionale”. Intanto va avanti la costruzione della “sua “ cattedrale: la Sagrada Familia. Ed è a buon punto la sua causa di beatificazione...
del 27 agosto 2006
      Si dice che Barcellona sia la Milano della Spagna. Orgogliosa del suo spirito catalano, della sua prorompente vitalità, il motore economico della Spagna ne incarna l’anima un po’ folle e rivoluzionaria. Le sue ampie strade, la rambla che porta da piazza Catalunya verso il mare, i grandi viali dell’Eixample, il primo modello di urbanistica “programmata” del secolo XIX, sembrano riverberare la vastità dell’aria del Mediterraneo e della sua luce potente. È la città delle sperimentazioni urbanistiche, del modernismo, della razionalità, del reticolato di strade che si incrociano in isolati regolarmente smussati a 45 gradi. Ma è anche e soprattutto la città di Antoni Gaudí, il “genio” catalano, l’architetto della Renaixença, di cui si celebra quest’anno il 150° anniversario dalla nascita.
       
      Il più grande architetto del secolo XX
      Il più grande architetto in pietra del secolo XX, lo definì Le Corbusier. Un asceta e un mistico per alcuni, un “visionario”, templare, massone e alchimista per altri. Per altri ancora, un santo. Tant’è. Antoni Gaudí, a centocinquant’anni dalla nascita, è più che mai un caso. L’unico architetto moderno che riceva ogni anno l’omaggio di più di due milioni di visitatori. L’uomo che non si è mai spostato dalla propria terra, catalano e catalanista, e che è oggetto di una straordinaria ammirazione fino in Giappone e in Corea. L’unico architetto che in età moderna abbia dedicato la propria vita a un’impresa non più tentata da secoli: l’edificazione di una cattedrale, dedicata alla Sagrada Familia, costruita solo ed esclusivamente con le offerte “de los pobres”. E che morì, povero come loro, all’ospedale della Santa Croce, dopo tre giorni di agonia. Era stato investito da un tram, la linea 30, mentre percorreva la via che conduceva dal cantiere della “sua” chiesa al piccolo oratorio di San Filippo Neri, alle spalle della cattedrale gotica, dove lo aspettava il quotidiano colloquio col padre spirituale. Al suo funerale, migliaia di cittadini salutarono il feretro per le vie di Barcellona. Nella cappella di quel piccolo oratorio, il pittore Llimona era stato incaricato qualche anno prima di rappresentare san Filippo Neri mentre celebra l’eucaristia e benedice i bambini. Il volto del santo non è altri che quello del vecchio Gaudí, con la barba bianca, e un azzurro acceso negli occhi.
     
      La causa di beatificazione
      Nel 1992, in un bar di Barcellona, lo Xamfrá Gaudí, a pochi passi dalla Sagrada Familia, nasce, dall’iniziativa di cinque amici, l’Associazione per la beatificazione di Antoni Gaudí, che è giunta in pochi anni ad un considerevole successo: l’apertura del processo diocesano di beatificazione, annunciata pubblicamente dal cardinale Ricardo María Carles Gordó in un’affollata conferenza stampa nell’aprile del 2000. «Sono al lavoro due commissioni, una storica e una teologica, che riferiranno al cardinale» spiega José Manuel Almuzara, architetto e presidente dell’Associazione: «E in questi giorni sta terminando l’iter delle testimonianze». La Barcellona laica storce il naso. Gaudí è di tutti, dicono, la Chiesa non può appropriarsene. Ma la causa va avanti. E va avanti la costruzione della “sua” chiesa, dedicata alla Sacra Famiglia di Nazareth. Sarà terminata forse nel 2020, ma sono solo congetture. Nel cantiere lavorano oggi un centinaio di operai e «lo spirito degli inizi non è andato perduto» spiega padre Lluis Bonet, parroco della Sagrada Familia e vicepostulatore della causa. Padre Bonet, figlio di un architetto che collaborò con Gaudí, ci accompagna per il cantiere. Nella cripta della Sagrada Familia, sede della parrocchia, che fu iniziata da Villar e completata da Gaudí, ci mostra la tomba dell’architetto catalano. Accanto, in più lingue, un santino con la preghiera per la devozione privata e l’indirizzo dell’Associazione per la beatificazione. Padre Bonet stampa da qualche anno un bollettino che pubblica testimonianze di grazie ricevute per intercessione dell’architetto. Parlano soprattutto di disoccupati che trovano lavoro, ma anche di guarigioni inaspettate. «Nulla di documentato» specifica Almuzara «ma intanto sono segni. Segni che provengono da Barcellona, ma anche dal Messico, dall’Argentina, dal Cile». La tomba è adorna di fiori: «Durante la guerra civile tentarono anche di profanarla». E di bruciare la chiesa.
       
      La cattedrale dei poveri
      La Sagrada Familia. Sulle pareti dello Xamfrá Gaudí campeggiano foto d’epoca che ritraggono la chiesa in costruzione. Siamo al principio del secolo, in una periferia semideserta. Gaudí lavorava allora all’edificazione della facciata della Natività, l’unica delle tre che sia stata costruita sotto la sua direzione: «Volle cominciare con la facciata dedicata all’Incarnazione, perché i misteri dell’infanzia di Gesù sono quelli che parlano più direttamente al cuore del popolo» spiega Almuzara. Delle altre due facciate, quella della Passione e quella della Gloria, rimangono solo schizzi e disegni. La facciata della Passione è stata realizzata a partire dal 1956. Gaudí la disegnò a Puigcerdá, nel 1911, dopo aver visto la morte da vicino. Era in preda alle febbri maltesi. Durante la malattia, un religioso camilliano che lo accudiva gli aveva letto il Cantico Espiritual di san Giovanni della Croce. A questa meditazione si ispirò per il suo progetto. Disegnò anche le sculture, ma quando la facciata fu realizzata, lo scultore Subirachs decise di prendersi delle libertà. Eccessive, secondo Almuzara: «Ad esempio, l’ultima cena, l’istituzione dell’eucaristia, è stata rappresentata in un angolo, mentre Gaudí la voleva al centro. Sotto la croce. Come nella facciata della Natività, è la carità che sta al centro, rappresentata dal portale centrale. E la carità, nella Passione, è l’eucaristia e la croce. Un uomo che andava a messa tutti i giorni non avrebbe mai approvato la scelta di relegare in un angolo l’eucaristia».
     
      Un centesimo, per amor di Dio!
      A quel tempo, Gaudí era certamente l’architetto più in voga nella Barcellona ambiziosa e avanguardista di inizio secolo. Ci era arrivato nel 1869, dalla provincia, per frequentare la nascente Scuola di architettura. In capo a pochi anni se lo contendevano i più ricchi imprenditori dell’intraprendente borghesia catalana, i vari Battló e Milá, che ammiravano il suo spirito innovativo. Per loro l’architetto progettò abitazioni così straordinarie e originali che attirano oggi migliaia di visitatori. Ma il vero mecenate dell’architetto catalano fu il conte Eusebi Güell i Bacigalupi. Per lui Gaudí costruì il parco Güell, la “nuova Delfi” catalana, città-giardino simbolo dello spirito mediterraneo e della raffinata cultura europea del conte. Ma Gaudí, a partire dal 1910, rinunciò ad ogni altro incarico per dedicarsi esclusivamente all’edificazione della Sagrada Familia. Una chiesa che non avrebbe potuto finire, che avrebbe dovuto lasciare in mani altrui, per un Cliente importante e paziente: «Mi cliente no tiene prisa», non ha fretta, ripeteva spesso. Un’impresa che dura ancora, dal lontano 1883, anno in cui il giovane Gaudí rilevò il progetto dell’architetto Villar e assunse la direzione dei lavori.
      Nel 1915, quando i fondi per la costruzione della chiesa scarseggiavano, Gaudí arrivò a chiedere l’elemosina tra i ricchi borghesi di Barcellona per continuare l’opera. Stendendo la mano tra le strade e le case della città che lo aveva reso famoso, chiedeva «un centesimo, per amore di Dio». Fiorirono così gli aneddoti e le leggende su un uomo che aveva rinunciato al denaro e alla fama, per un’impresa che molti giudicavano improba. Ma per lui non era così: «Nella Sagrada Famiglia» disse «tutto è frutto della Provvidenza, inclusa la mia partecipazione come architetto». E, per tagliar corto, aggiungeva: «Questo tempio verrà finito da san Giuseppe».
     
      Figlio di calderai
      Antoni Gaudí, di Reus, un paesino sul mare a pochi chilometri dalla capitale catalana. Figlio di calderai, gli artigiani del rame. Figlio del Mediterraneo, della natura aspra e pietrosa di una terra solcata dalla luce. Una luce che “fa vedere” le cose nel loro splendore. Un’infanzia disturbata da reumatismi articolari che non gli permettevano sempre di andare a giocare con i compagni. Nella bottega del padre, vedeva costruire gli alambicchi che servono per la distillazione dell’alcool. Oggetti che prendono forma nello spazio senza un disegno, tra le mani esperte degli operai. Per il resto, i pini della costa iberica, il mare, le chiese medievali immerse nella natura. Fu questa la prima “scuola” a cui il giovane Gaudí attinse quelle immagini che si riflettevano nei suoi occhi e si fissavano nella memoria. E poi, i sacramenti, l’educazione cattolica ricevuta in famiglia e al collegio dei Padri Scolopi di Reus.
      Quando i professori della Scuola di Architettura di Barcellona nel 1878 gli conferirono la laurea, dopo un percorso di studi non sempre lineare, il direttore Elias Rogent si chiese se avessero promosso «un folle o un genio». La sua formazione universitaria si era dovuta dividere tra lo studio e il lavoro: gli pesava la geometria analitica, le discipline più astratte, ma cominciava a fare esperienza diretta negli studi dei migliori architetti catalani. Le sue letture nella biblioteca della Scuola gli fecero scoprire il Dictionnaire di architettura medievale di Viollet-le-Duc e lo portarono a indagare la struttura delle grandi cattedrali del medioevo.
      L’incarico di costruire la Sagrada Familia gli venne da un’associazione di fedeli dedicata a san Giuseppe. Erano gli anni in cui le idee anarchico-rivoluzionarie in seno al mondo operaio catalano iniziavano a diffondersi, e con esse i primi attentati, i primi disordini operai. La Chiesa affrontava la questione sociale, promuovendo un modello solidaristico. Tra i promotori di questa nuova sensibilità c’era il vescovo Torras i Bages, grande amico di Gaudí. Lo stesso Gaudí fu sensibile al problema. Tra i suoi primi lavori vi fu la cooperativa operaia di Mataló, e la colonia Güell. Il conte Eusebi Güell, una singolare figura d’imprenditore cattolico, promuoveva il modello sociale indicato dalla Chiesa. La colonia Güell di Santa Coloma di Cervelló, alle porte di Barcellona, non fu concepita come una mera industria tessile, ma come una vera e propria città per gli operai. Accanto ai padiglioni industriali, Güell fece costruire una chiesa, abitazioni, scuole e campi sportivi. La cripta della colonia Güell, che fu affidata a Gaudí, è considerata uno dei suoi capolavori. In questo clima, si diffondeva sempre di più il culto a san Giuseppe e il modello della Sacra Famiglia come esempio di un rapporto tra datore di lavoro e operaio fondato sulla carità. L’associazione di devoti di san Giuseppe, presieduta dal signor Bocabella, aveva perciò acquisito un terreno alla periferia di Barcellona per costruire un “Tempio espiatorio” in riparazione dei peccati e dedicato appunto alla Sagrada Familia.
      A quel tempo Gaudí aveva già sviluppato un’architettura originalissima, basata sull’imitazione delle forme naturali. «Il mio maestro è l’albero del giardino di fronte alla mia finestra» diceva. L’idea potente e semplice: ciò che è in natura è funzionale, e ciò che è funzionale è bello. L’originalità di Gaudí è tutta qui: «L’originalità» disse «consiste nel ritornare alle origini; originale è, dunque, ciò che con mezzi nuovi fa ritorno alla semplicità delle prime soluzioni». E che riflette la bellezza della verità. Non una stravaganza ricercata per ottenere “l’effetto”. «La bellezza è lo splendore della verità» ripeteva: «Siccome l’arte è bellezza, senza verità non c’è arte. Per conoscere la verità, si devono conoscere bene gli esseri del mondo creato».
       
      Testimoni oculari
      «Io l’ho conosciuto. Avevo 14 anni, e una volta a settimana andavo alla sua casa con mia sorella, per sbrigargli le faccende domestiche». Suor Maria di Montserrat, 92 anni, lo ricorda perfettamente. È una delle pochissime persone ancora in vita che l’abbiano conosciuto di persona. È contenta che Dio le abbia concesso la grazia di testimoniare al processo di beatificazione: «Parlando con le mie consorelle dicevo sempre che, se ne avessi avuto la facoltà, io lo avrei fatto santo, perché era un uomo straordinario. La prova è che uno vede le pietre della Sagrada Familia, ed è il Vangelo puro. La Sagrada Familia è un libro per tutto il mondo. Per chi ha la fede, per chi sa leggere col cuore e con la mente».
      Era il 1924, suor Maria era un’adolescente. Era entrata come aspirante tra le Carmelitane Teresiane. Le sue consorelle avevano assistito il padre di Gaudí, infermo, poi la nipote, che morì giovane colpita dalla tubercolosi. «Io l’ho conosciuto più tardi. Quando morì sua nipote e si ritrovò solo, Gaudí venne qui a chiedere alla reverenda madre se potevamo continuare ad andare a casa sua per tenerla in ordine, perché lui non aveva moglie. E quando andammo non trovammo nulla, né un barattolo, né un cucchiaio, niente, nemmeno un pezzo di carta. Non aveva nulla neppure per accendere il fuoco. E cominciammo il nostro lavoro. Quando andavamo alla casa lo salutavo e lui diceva “Ave Maria purissima”, o un semplice buongiorno. Si alzava sempre molto presto per recarsi alla messa. Ci scambiavamo poche parole. Per il resto era sempre molto amabile con noialtre, era naturale, normale, ci dimostrava molto rispetto, però non ci dava confidenza. Quando se ne andava ci diceva sempre “buenos días, hermanitas”, e noialtre continuavamo il nostro lavoro. All’uscita della casa c’era un’immagine di sant’Antonio. A me piaceva guardare Gaudí da lontano, quando usciva e si fermava lì davanti mettendosi a pregare. Così passò quel tempo, una settimana dietro l’altra. Questo durò fino al 1926, finché non iniziò il mio noviziato e non potei più andare. E pochi mesi dopo gli capitò la disgrazia dell’investimento».
     
      Guardare dove guardava Gaudí
      Sul portale centrale della facciata della Natività si staglia una scultura che rappresenta la nascita di Gesù: «Il vertice della carità» osserva Almuzara «è l’incarnazione del Figlio di Dio, per questo Gaudí la volle al centro della facciata. Le tre porte rappresentano le tre virtù: la speranza a sinistra, con la strage degli Innocenti e la fuga in Egitto; a destra la fede, ma la carità è al centro, perché è la più grande, quella che rimane».
      Sopra l’immagine della Sacra Famiglia, gli angeli cantano, come racconta il Vangelo. Alcuni di questi sono opera di uno scultore giapponese, Etsuro Sotoo, che lavora al cantiere della chiesa da più di vent’anni. Gli chiediamo come abbia conosciuto l’architettura di Gaudí: «In Giappone Gaudí» spiega «fu portato da un professore di storia dell’architettura, Kenji Imai, che era stato qui a Barcellona nel 1926, pochi mesi dopo la morte del maestro. E per anni ha “raccontato” Gaudí ai suoi studenti senza una foto, senza un testo, solo ricordando quello che aveva visto». Sotoo sorride, e ci chiede scusa. Mentre parla con noi, deve continuare a dare indicazioni a un operaio che lavora con lui: «Venni a Barcellona nel 1978. Non pensavo di fermarmi. Sarei dovuto andare in Germania per lavorare al restauro di alcune chiese. Ma poi rimasi affascinato dalla bellezza della Sagrada Familia e feci domanda per lavorare qui come scultore». Sotoo in Giappone è un personaggio. Ha girato l’anno scorso lo spot del Nescafé, tutto giocato su immagini di Barcellona e della Sagrada Familia. Lo spot ha avuto un notevole successo e in Giappone è scoppiata una sorta di “Gaudímania”. Molti vengono a Barcellona e vogliono conoscerlo. Ma non tutti sanno che Sotoo ha anche un’altra storia da raccontare. Il suo spagnolo è faticoso, ma riesce a farsi capire: «I primi anni, mentre lavoravo, cercavo di entrare nello “spirito” dell’opera di Gaudí, e mi chiedevo come lui avrebbe realizzato quello che dovevo fare io». Ma le difficoltà non mancavano, c’era una distanza, non solo culturale. «Cercavo di immedesimarmi in lui e “interrogavo” le pietre, “interrogavo” lo stesso Gaudí. Per capire Gaudí, come del resto qualunque altro artista, bisognava sapere che cosa voleva fare con queste sculture, con quest’edificio tanto meraviglioso, che non è solamente un’opera d’arte. Bisognava scoprire quello che c’era dietro questa pietra». Sotoo, nel novembre del 1989, ha chiesto il battesimo. Gli chiediamo che cosa lo abbia spinto a questo passo: «Ho compreso che per capire fino in fondo il senso del mio lavoro e di quest’opera d’arte, non dovevo guardare Gaudí. Dovevo guardare dove guardava Gaudí».
      Dopo la conversione, ci racconta, il suo modo di lavorare non è cambiato, ma è «molto più facile e sicuro». E così, si lavora «con gusto e libertà»: «L’architettura di Gaudí indica, non obbliga, è una cosa umana. E così è anche il cammino di Gesù. Gesù non ci obbliga a fare, però ci guida. E allora possiamo essere molto più felici e molto più sicuri».
 
             La gloria, la facciata mancante
      Anche Sotoo ha testimoniato al processo di beatificazione. «E una conversione è forse un miracolo più grande di una guarigione» dice Almuzara. «Quando ho visto che l’opera di Gaudí ha prodotto anche questo, ho capito che forse può aiutare altri a trovare la fede. Per questo abbiamo sollecitato il processo di beatificazione». E si augura che Gaudí possa giungere presto alla gloria degli altari.
      La Gloria. È anche il nome della facciata principale, quella che ancora manca alla Sagrada Familia. Chissà che non arrivi prima la glorificazione del suo ideatore. I tempi della Chiesa, si sa, sono lunghi, come quelli del cantiere di una cattedrale. Ma Gaudí non se ne sarebbe preoccupato. Sapeva di non poter legare il suo nome all’opera finita: «Non vorrei terminare io i lavori, perché non sarebbe conveniente. Bisogna sempre conservare lo spirito del monumento, ma la sua vita deve dipendere dalle generazioni che se la tramandano e con le quali la Chiesa vive e si incarna». Quanto al resto, «nessuno può gloriarsi» disse una volta «perché tutto è dono di Dio; molto spesso Egli si serve di un infelice qualunque. Un giorno stavo dirigendo i lavori della Sagrada Familia, quando un ragazzo piuttosto sciocco, che passava di lì, mi disse: “Guardi, vede quell’impalcatura, si è rotta una fune e cadranno tutti!”. Apprezzai molto l’avvertimento di quel giovane. Crediamo che spettino a noi la gloria di ciò che è buono e i meriti che ognuno di noi, con il suo talento, si è guadagnato realizzando qualcosa di importante; in realtà la si deve a un’anima sconosciuta che prega per la riuscita di una persona più nota».
Giovanni Ricciardi
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