Intervento di Alessandro D'Avenia per le Giornate di Spiritualità della Famiglia Salesiana. «Sono stato in decine di scuole di tutto il Paese e ho incontrato migliaia di ragazzi, con un dispendio di energie ripagate cento volte tanto: chi sta con i giovani diventa giovane».
Per parlare dei ragazzi bisogna guardarli e ascoltarli. Non in televisione, ma in carne e ossa. Da quando insegno ho sempre avvertito una certa distanza tra i ragazzi che incontravo in classe e quelli raccontati dai media. Il ragazzo che emerge dai media non è reale: come il marziano che cercando di decodificare i segnali usati dagli uomini senza conoscerli pensa che il semaforo rosso obblighi a fermarsi e mettersi le dita nel naso. La distanza tra realtà e rappresentazione ha lentamente scavato dentro di me il desiderio di raccontare il volto dei giovani che le telecamere non inquadrano. I ragazzi mi sembravano molto migliori di come ce li raccontano, ma non volevo cadere nell'errore opposto: una rappresentazione ideologica nell'altro senso.
Negli anni precedenti all'uscita dei miei libri sono andato in giro per molte città italiane per conoscere realtà scolastiche diverse grazie all'esperienza di professore e quella di esperto di educazione e media, punto di osservazione privilegiato per cogliere i bisogni di questa generazione. Dopo l'uscita dei romanzi la mia possibilità di incontrare ragazzi di scuole e città diverse si è moltiplicata aldilà di ogni mia più rosea aspettativa ed è stato uno dei doni più interessanti dei libri. Sono stato in decine di scuole di tutto il Paese e ho incontrato migliaia di ragazzi, con un dispendio di energie ripagate cento volte tanto: chi sta con i giovani diventa giovane. I libri erano il punto d'appoggio su cui fare leva: durante gli incontri si partiva da lì per raggiungere altri porti. Questo è accaduto senza forzature, perché erano i ragazzi stessi a porre domande ad un interlocutore che ritenevano valido per il semplice fatto di aver parlato di certi temi in un romanzo. Ho trovato un'accoglienza sorprendente (in scuole di tutti i tipi), e spesso gli incontri si svolgevano in orario pomeridiano, a partecipazione libera: centinaia di ragazzi. Li ho visti rimanere oltre l'orario scolastico, ritardare l'orario del treno, organizzarsi affittando un pullman... per ascoltare un professore parlare di un libro. Mi chiedevo dove fosse la ragione di questa mobilitazione. La risposta era nelle loro domande: venivano per chiedere su dolore, morte, felicità, amore, sesso, Dio, fede, paura... Insomma quelle domande che ruotano attorno ai quesiti di sempre, riassunti nel grido: posso essere io felice? Percepivano nel libro uno spiraglio su un mondo desiderato. Niente muove le persone come la felicità, niente muove un ragazzo o una ragazza come la possibilità di raggiungerla.
Il tempo.
Mi ha colpito il fatto che mentre molti adulti mi ringraziano o criticano per quello che faccio o dico, per la mia performance, i ragazzi ringraziano soprattutto per il tempo che dedico loro: “Grazie per il suo tempo” è il grazie più frequente. Così ho capito che prima ancora di giudicare i ragazzi che ho di fronte devo giudicare l'uso che faccio del mio tempo: quanto tempo dedico ai miei alunni al di fuori delle ore in classe? Tempo di quello vero: che prendi e butti via per loro. Donare tempo è l'unica forma di amore reale: Dio si è fatto tempo per regalarci il senza tempo. Il ringraziare per il tempo donato manifesta due punti forti di questa generazione: la silenziosa richiesta di ascolto da parte di adulti (che rinfacciano loro proprio il fatto di non ascoltare, ma perché una persona ascolti deve essere prima ascoltata) e la capacità di ringraziare quando riconoscono la gratuità. Sono attratti dalla la vita come dono, non come prestazione o come consumo egoistico.
Verità.
Negli incontri non vado a fare pubblicità ai miei libri (li ho scritti proprio per non doverne parlare...) ma vado a complicare le loro vite, a spronarli, a metterli in crisi. Molti di loro escono in crisi, una crisi positiva, una benedizione, la crisi di chi scopre che può liberare delle forze imprigionate. Solo a contatto con la ricerca della verità le forze di un ragazzo si liberano, la libertà è messa in gioco. Non uso effetti speciali, solo le parole. E la parola che loro vogliono sentire non è quella che dà soluzioni, quella non l'ascoltano, ma la parola accompagnata da occhi che brillano, la parola vissuta, la parola che cerca la verità e la ama senza nascondere la fatica e gli insuccessi. Questi ragazzi hanno bisogno di persone che manifestino di non avere paura di vivere, anche se la vita fa tremare e non bisogna nasconderlo, solo così cominciano a generare la vita e si sentono spronati a farlo, nell'età in cui il loro corpo scopre di essere fatto per generarla. Ma abbiamo talmente anestetizzato la verità e virtualizzato la realtà che le verità più evidenti come il corpo, l'amore, il sesso, il dolore, la morte, la felicità, Dio... diventano allegorie ideologiche, ingabbiate in interpretazioni preconfezionate prima ancora di essere vissute, e questo vale anche in ambito cattolico. Ho visto ragazzi creare canzoni, pezzi teatrali, balli, video ispirati al libro. Ho ascoltato confidenze disperate di ragazzi che non riuscivano a trovare un adulto a cui chiedere aiuto, ho visto ragazzi alla ricerca di un sogno diverso da ciò che si può comprare. Mi sembra di avere a che fare con una generazione che è stata generata biologicamente, ma non culturalmente e quindi è privata di un ordine simbolico e narrativo grazie al quale interpretare esperienze ed emozioni. Se manca il senso si perdono i significati. Dolore senza significato, vita senza significato, sesso senza significato... Ecco cosa cercano: una capacità di lettura della realtà, che se viene a mancare oscilla tra labilità delle emozioni (più forti sono più mi sento vivo) e dipendenza dal più forte, dal così fan tutti (conformismo). Entrambi gli atteggiamenti scavano un pozzo di dolore nei loro cuori, una prigione interiore di noia e incertezza.
Che fare?
Quali le risorse da intercettare? Infinite. La loro fame è maggiore, perché più profonda. Più difficile da raggiungere perché più facilmente soddisfatta da surrogati.
Ho incontrato ragazzi che a 14 anni hanno già messo in piedi business leciti da centinaia di euro, ho incontrato ragazzi che a 16 anni hanno inventato una radio dal computer di casa loro, ho incontrato ragazzi generosi e disposti a mettersi in gioco per gli altri, se solo qualcuno sfida le loro vite e le inserisce in un orizzonte più grande. Ho incontrato anche ragazzi cinici, scettici: già arrugginiti e disincantati alla loro età, rifugiati in un mondo piccolo piccolo di affetti privati e ossessivi, droghe e disturbi di vario tipo, senza interessi o passioni, se non quelle capaci di scatenare adrenalina.
Ecco cosa mi ha scritto sul blog (profduepuntozero.it) una sedicenne: “Prova un giorno a travestirti da insegnante precario e ad insegnare a una terza aziendale, dove sono tutti ragazzi che spacciano a cui non importa nulla di avere un diploma… O semplicemente nella mia classe, ghetto di ragazze popolari che arrivano la mattina strafatte di canne e dormono tutto il tempo con la testa sul banco… Prova a insegnare Dante, Boccaccio e Petrarca a dei ragazzi che non sanno cosa vuol dire amare la vita... E i professori si lasciano trasportare, un po' come quei ragazzi, a quella stessa condizione, pensando che non ci sia più nulla da fare. Il più di volte troviamo insegnanti con poca voglia di vivere, quindi di lavorare, quindi di insegnare. Allora la domanda che sorge è se non bisogna cambiare il mondo adulto prima di voler cambiare il mondo adolescenziale, prima di lavorare sull’insegnamento lavoriamo sugli insegnanti”. Accolta la provocazione le ho risposto che sono stato precario sino all'anno scorso (33 anni), che ho cambiato due volte città (Palermo, Roma, Milano), che ho cominciato a insegnare alle medie e in un doposcuola di un quartiere disastrato della mia città natale. Ho incontrato ragazzi del liceo, ma anche di istituti professionali, tecnici, nautici e chi più ne ha più ne metta e non li ho trovati meno motivati e reattivi dei primi, anzi gli incontri più interessanti li ho avuti proprio in questo tipo di realtà. Le ho poi chiesto spiegazione su alcune delle dinamiche autodistruttive descritte e mi ha risposto: “Non tutti sono capaci di costruire il ponte della comunicazione tra alunni e insegnanti, certi ci provano ma usando un legno scadente che si distrugge alla prima bufera. Allora se si rinuncia a ricostruirlo con gli strumenti giusti e si resta bloccati ognuno dalla propria parte senza possibilità di congiunzione. A me personalmente la distanza fa paura. Fa paura a molti ragazzi. Hanno paura che nessuno in realtà possa davvero arrivare a concepire almeno in parte il loro dolore, spesso perché a casa, la famiglia, non si rende conto del disagio e li abbandona emotivamente a loro stessi, così quando arrivano a scuola cercano in qualche modo di attirare una silenziosa attenzione, cercano di esternarlo con comportamenti “animali”, sfogando una rabbia e una tristezza davvero spaventose. Ai ragazzi forse importa avere un diploma, il problema è che se non hanno le basi affettive indispensabili per affrontare la crescita con le sue difficoltà, non avranno le energie necessarie per arrivare a guadagnarselo. Se però sono stanchi a 16 anni e la vita ti annoia, probabilmente l’apatia affettiva li ha già svuotati e non sanno come andare avanti, con che forza e per quale scopo. I genitori sono lontani anni luce sensibilmente parlando. Allora ci provano con gli insegnanti, insomma con qualcuno che ricordi loro, e chiedono aiuto attraverso i loro comportamenti. Abbiamo pochi professori che se ne accorgono, pochi quelli che ci tengono davvero. Per questo sei l’eccezione che conferma la regola. C’è bisogno di adulti: chi c’è? Se fossi un’insegnante mi rimboccherei le maniche per fare la mia parte, non emarginando nessuno. Se fossi un’insegnante cercherei di sfruttare al meglio gli attrezzi che ho a disposizione”. Io meglio non avrei saputo dirlo.
La meglio gioventù c'è, ma la meglio “non-gioventù” dov'è? Il problema restiamo noi adulti e la cultura che abbiamo costruito attorno a questi ragazzi. Così mi scrive una maturanda: “La prof. di italiano ci ha detto: Smettete di sognare, non ne vale la pena… perdete solo tempo… vivete con i piedi per terra perché con una generazione senza futuro e senza valori come la vostra solo vivendo razionalmente riuscirete a concludere qualcosa… Non date retta a certi professori che vi spingono a osare… a puntare in alto… a credere che ogni tanto la botta di “fortuna” arrivi per tutti… la fortuna non esiste… esistono solo raccomandazioni e raccomandati… quindi rassegnatevi…”.
La misura alta del quotidiano di cui parlava il beato Karol è spazzata via. Il criterio di felicità è ridotto al successo e non alla capacità di sognare la vita che ci è stata data, accettare e trasformare il destino che abbiamo in una vita personale, vivendo per la ricerca di verità, bene e bellezza nello spazio consentito dai nostri limiti e pregi. La razionalità è pura funzione pragmatica. “Ho paura prof. tanta paura, paura di crescere, paura che la prof abbia ragione, paura di sognare. Sono demoralizzata perché mi rendo conto che forse non avremo mai davvero un futuro. È così brutto a 18 anni pensare questo…”
La meglio gioventù c'è, non c'è però speranza, perché le utopie si sono rivelate tali. La meglio gioventù c'è: c'è quella forte, con alle spalle famiglie forti, che stanno già costruendo il loro futuro e non aspettano altro che il tempo faccia il suo corso con chi li ha preceduti (la società italiana è una piramide rovesciata, pochi giovani portano il peso di un'Italia che invecchia). C'è la gioventù fragile, che soccombe sotto i colpi del cinismo e del disfattismo di chi spesso non vuole fare i conti con i propri fallimenti, ma anche questi cercano interlocutori per sopravvivere e a volte la loro fragilità esplode in richiami che non si possono ignorare: dipendenze, disturbi alimentari, suicidi. Sono i frutti più maturi della dittatura del relativismo. Ho sentito una professoressa dire, dopo un mio incontro: “A scuola dobbiamo seminare dubbi, non certezze”. Io non semino certezze, ma voglia di vivere per la verità, il bene e la bellezza. L'alternativa non è tra dubbi e certezze, ma tra senso e non senso della vita. L'epoca delle passioni tristi (titolo di un libro che ogni educatore dovrebbe leggere) è l'epoca che ha imbrigliato le risorse migliori, perché la ricerca della verità è stata rimossa dal centro della società e delle relazioni. Non si genera vita perché si ha paura di vivere e si ha paura perché non c'è verità da seguire.
Chi paga la dittatura relativista sono quelli che per essenza sono fatti per la verità: i giovani. Le loro passioni tristi sono la nostra mancanza di vita interiore e di tempo, il nostro attaccamento alle cose prima che alle persone, la nostra fatica a donare, la nostra ebbrezza di carriere e consumi. Valgano le parole del rabbino di un romanzo di S.Zweig: “È più forte chi si aggrappa all'invisibile di chi confida nel percepibile, perché questo è effimero, quello permanente”. Avremo il coraggio di tornare ad aggrapparci all'invisibile?
Alessandro D'Avenia
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