Intervista a Paul Jacob Bhatti, fratello di Shahbaz. "E' possibile perdonare una persona che si ha di fronte a sé, ma io ancora non ho visto né ho scoperto chi ha deciso che mio fratello doveva morire. Ma io non credo nella vendetta, credo nel perdono".
del 05 ottobre 2011 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) {return;} js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/en_US/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
Paul Jacob Bhatti, fratello del ministro per le Minoranze religiose crivellato il 2 marzo scorso da alcuni sicari, interviene sulla sentenza del Tribunale anti-terrorismo del Pakistan che ha condannato a morte Mumtaz Qadri, l'assassino del governatore Salman Taseer che aveva preso le difese di Asia Bibi.  
Bhatti ci racconta perché ha deciso di opporsi ai fondamentalisti islamici che tengono in scacco il Paese. E anche sulle persone che hanno ucciso suo fratello osserva: “Non mi importa che siano puniti gli esecutori materiali, quello che voglio è poter guardare negli occhi i loro mandanti”.
La condanna a morte di Qadri sta facendo discutere. Lei che cosa ne pensa in quanto cristiano?
Per motivi di sicurezza il verdetto è stato comunicato a porte chiuse, perché c’era il forte rischio di attentati. Il giudice ha dichiarato che, a prescindere da quale sia il suo movente, nessuna persona può sostituirsi alla legge e farsi giustizia da sola. Questa condanna quindi, seppure disdicevole, può essere un segnale per tutti.
Ma per favorire la riconciliazione tra musulmani e cristiani, non sarebbe meglio trasformare la pena di morte in ergastolo?
Sono vissuto per molti anni nell’Unione europea, e se mi chiede un parere personale sulla pena di morte le dirò che sono contrario, anzi che ritengo che non dovrebbe esistere affatto. Dobbiamo però tenere conto del fatto che in Pakistan basta un cambiamento a livello politico, perché gli assassini di Taseer siano scarcerati senza problemi. E questo dopo avere inflitto alla nazione una grave perdita, in quanto il governatore del Punjab era un uomo di grandissimo spessore, che lavorava per il bene delle persone, per i diritti delle minoranze e per il progresso del suo Paese. Non dimentichiamoci inoltre che di recente anche il figlio di Taseer è stato rapito dalle stesse persone che ne hanno ucciso il padre. Per tutte queste motivazioni, la sentenza contro i suoi assassini è destinata a essere di esempio per l’intera comunità pakistana.
Non può essere di esempio anche una condanna al carcere?
Lo devo ammettere, su questo argomento mi sento fortemente combattuto. Se l’omicidio fosse avvenuto in Italia, non avrei alcun dubbio nel chiedere l’ergastolo e non la pena di morte. Ma conoscendo la realtà del Pakistan, ritengo che il segnale che deve dare la magistratura sia diverso. L’omicidio infatti è avvenuto all’interno di un contesto sociale e di una mentalità che approva l’operato di chi uccide in nome della religione.
Un uomo fuori dal tribunale portava un cartello: “Punendo Mumtaz Qadri, darete vita a mille Mumtaz Qadri”. Accadrà davvero così?
Questi slogan in Pakistan sono abbastanza comuni, ma per me sono del tutto insignificanti. Noi non dobbiamo temere ciò che pensa la gente e le loro minacce, ma dobbiamo curarci soltanto di applicare in modo corretto le nostre leggi. Per il nostro Codice penale, di fronte a un caso di questo tipo il Tribunale non può che esprimersi come ha fatto il giudice Sharin. E' giusto però discutere se per il futuro del Pakistan vogliamo o meno la pena di morte.
Lei quale condanna auspica per gli assassini di suo fratello Shahbaz?
Il punto vero è che dietro agli esecutori materiali dell’omicidio di mio fratello ci sono una mentalità e un’organizzazione. Tutto ciò che voglio quindi è sapere perché quelle persone odiavano mio fratello, e che cosa aveva fatto Shahbaz per inimicarsele. Ovviamente non mi riferisco ai killer, ma ai loro mandanti. Dalle indagini risulta infatti che chi ha premuto il grilletto sono stati dei killer prezzolati, persone così ignoranti che forse non si rendono nemmeno conto di quello che hanno compiuto. A me non importa che loro siano condannati, il mio obiettivo è scoprire qual è l’organizzazione che li ha usati. Io voglio giustizia nel senso che desidero che siano scoperti i mandanti.
E’ possibile il perdono nei loro confronti?
E’ possibile perdonare una persona che si ha di fronte a sé, ma io ancora non ho visto né ho scoperto chi ha deciso che mio fratello doveva morire. La giustizia non ha ancora detto l’ultima parola su questa vicenda. Sono state condotte delle indagini, ma non si è ancora arrivati a individuare un responsabile.
Non è proprio dal perdono che può venire la pace tra cristiani e musulmani?
Io non credo nella vendetta, credo nel perdono. Ma fino a quando non si giunge a una pena per chi gioca con la morte delle persone, i fondamentalisti saranno sempre più sfrontati nel compiere i loro attentati perché nessuno avrà il coraggio di opporsi loro. Mentre il ruolo positivo di una sentenza del tribunale, è incoraggiare le persone a pensare a quello che fanno. Altrimenti si convinceranno che tutto sia permesso.
Ma allora, a partire da cosa cristiani e musulmani possono smettere di odiarsi?
Il dialogo interreligioso è uno degli strumenti più potenti. Inoltre occorre favorire l’Islam moderato, perché la religione musulmana non promuove la violenza, non insegna a uccidere, e quindi noi dobbiamo sostenere questo modo di intendere l’Islam e di trasmetterne il messaggio, che è totalmente contrario all’ideologia omicida.
Asia Bibi ha presentato appello contro la sua condanna. A che punto è il processo di secondo grado?
Deve essere ancora decisa la data in cui inizierà. Il giudice ha un anno di tempo per individuare una data, ma io sono certo che quando il Tribunale avrà prove adeguate e sufficienti darà inizio al processo d’appello. Oggi la magistratura in Pakistan è valida e in buona fede, ed è uno dei settori della società più vicini all’Islam moderato.
 
Pietro Vernizzi
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