Dopo millenni di tormentata riflessione, possiamo stare tranquilli nella certezza che qualunque cosa facciamo, è la cosa giusta, perché non potevamo fare diversamente. Affermazioni pseudoscientifiche come queste sono diventate molto frequenti sulla stampa. Qualche anno fa, sembrava che tutto si potesse spiegare con i geni. Adesso si è capito che non è così, e allora si tenta di spiegare tutto con i neuroni.
del 24 aprile 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          Tranquilli: ieri hanno scoperto che l’etica è semplicemente un’espressione di un neurotrasmettitore con un nome che non ricordo. Mi sembra che l’altro ieri abbiano dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che il libero arbitrio è solo un’apparenza. Dimostrazioni di protesta si erano scatenate in ambienti religiosi, ma il ricercatore, un certo Tizio Caio Sempronio, ha rilasciato un’intervista in cui ha comprovato che anche queste proteste altro non sono che prevedibili reazioni determinate dal meccanismo di autodifesa evoluzionistica che ha generato per secoli l’illusione della libertà negli uomini…
          Dopo millenni di tormentata riflessione, possiamo stare tranquilli nella certezza che qualunque cosa facciamo, è la cosa giusta, perché non potevamo fare diversamente. Affermazioni pseudoscientifiche come queste sono diventate molto frequenti sulla stampa. Qualche anno fa, sembrava che tutto si potesse spiegare con i geni. Adesso si è capito che non è così, e allora si tenta di spiegare tutto con i neuroni.
           Dato questo contesto, mi ha colpito l’articolo sulle protesi che compare sul numero dell’edizione americana di Wired attualmente in edicola. In questo articolo (Waiting for the bionic man, di Michael Chorost), ci sono ammissioni di ignoranza: “Non capiamo gli schemi in codice che la biologia usa”. “Questo è più che un problema ingegneristico. È un problema di scienza di base”. “Come una intenzione, un pensiero, una mente emerga dal network della gelatina elettrochimica è ancora un grande mistero”. Ce ne sono persino nel sottotitolo: “migliaia di persone hanno bisogno di arti artificiali. Nessuno sa come costruirli”.
          L’articolo dice che le protesi elettroniche in molti casi non sono utili quanto quelle meccaniche di due secoli fa. Ma ci sono altri esempi più incoraggianti. Per esempio, da poco si è riuscito a comunicare con pazienti che sembravano in stato vegetativo, attraverso un rilevamento di attività cerebrale. Vengono i brividi a immaginare la gioia di un paziente che tutti credevano morto, e che in realtà capiva tutto, ma non poteva muovere un solo muscolo del corpo in risposta. Ora, con l’aiuto della tecnologia, di colpo può comunicare con il mondo esterno!
          Lettura del pensiero? In realtà è una cosa molto meno sofisticata: un sensore rileva il volume di attività cerebrale, non singole intenzioni o decisioni. Ma dopo poche prove una persona può imparare ad aumentare o diminuire questa attività, un po’ come può rendere teso o rilassato un muscolo. Da queste due opzioni si può dire “si” e “no”, scegliere lettere, comporre frasi, comunicare.
          Ma torniamo alle protesi. Si direbbe che fare una protesi è un po’ più semplice che spiegare la libertà, l’autocoscienza, o la carità. Alla fine si tratta di segnali elettrici e di meccanica. Eppure anche il movimento dell’avambraccio è talmente complicato da resistere tutt’ora ai più validi ricercatori nel mondo, nonostante centinaia di milioni di euro in ricerca.
          Com’è che la persona si guarda agire, cosa è la “proprioception”, la percezione di sé come un corpo? Come mai ci sono neuroni che si “accendono” durante un movimento e poi dopo qualche tempo non sono più coinvolti nello stesso identico movimento? Forse non ci sono nemmeno circuiti stabili, e le connessioni fra i neuroni cambiano continuamente? Ma allora i circuiti neuronali di due persone diverse sono irriducibilmente individuali, come il disegno dell’impronta digitale? Sono tante le domande che nascono attorno al desiderio di ridare un braccio a chi non l’ha più.
          Cosa ci insegna l’articolo di Michael Chorost? In primo luogo, la conoscenza ha solo da guadagnare da un atteggiamento umile e aperto di fronte alla realtà. È molto difficile imparare una cosa che si crede di sapere già. E poi, non bisogna credere a tutto ciò che si legge sulla stampa a lettere cubitali a proposito della natura umana. Non siamo soltanto meccanismo. Neanche le nostre braccia sono soltanto meccanismo, figurarsi i nostri pensieri, decisioni, desideri, e amori.
          È bello vedere un articolo del genere sulla rivista “bandiera” del mondo tecnologico. È bello essere umili e curiosi, senza la paura di affermare che il più rimane da scoprire. Per Chorost, il fatto che il mistero è ancora per lo più sconosciuto non è la smentita di una qualche ideologia materialista o positivista. È invece, più semplicemente, uno sprone a cercare più a fondo, porre domande più precise, tenere conto di tutti i fattori.
Jonah Lynch
Versione app: 3.26.4 (097816f)