Il rispetto per l'ambiente da parte dei giovani passa attraverso la famiglia. Essa è la principale “agenzia” educativa che può sviluppare una sensibilità ecologica.
«Alberto, per favore, non lasciare scorrere così a lungo l’acqua mentre ti lavi, la sprechi e consumi gas inutilmente». «Sì, mamma, ho capito», risponde il figlio adolescente arcistufo di sentirsi dire sempre le stesse cose: il cibo non va buttato, le cose rotte si aggiustano, non si lascia la luce accesa se non ne hai bisogno, ecc. ecc.
Non ne può più perché lui, che trascorre la sua vita tra studio, cellulare, computer e televisione, non riesce a cogliere pienamente il significato delle lezioni di ecologia di cui sono prodighi genitori e scuola.
Perché lui, che vive in un ambiente urbanizzato e vede più case che montagne, non riesce proprio a condividere quello “stupore” per la natura di cui gli parlano l’insegnante di religione e la mamma rompiscatole che cerca sempre di portarlo a scarpinare o a passeggiare nei boschi.
«Ma cos’è ’sto stupore che dovrei provare? Stupore per cosa? Perché dovrei stupirmi?» chiede Alberto. E vagliela a spiegare la differenza, per un cristiano, tra natura e creato, tra la salvaguardia dell’ambiente inteso come insieme di risorse che non vanno sprecate o distrutte e la “custodia” di un mondo meraviglioso che Dio ci ha donato. Difficile da spiegare perché non se ne parla abbastanza, perché le stesse comunità cristiane faticano a trovare forme nuove per far guardare alla natura come creazione.
Il “patrono dell’ecologia”
Un’interessante ricerca promossa alcuni anni fa tra le Conferenze episcopali europee dalla Fondazione Lanza (nata nel 1988 in seno alla diocesi di Padova come spazio di riflessione etica nel delicato dibattito fede-cultura) sottolineò proprio la necessità di approfondire i fondamenti teologici dell’azione ecclesiale per l’ambiente.
L’indagine, i cui risultati pubblicati nel 2007 sono ancora attuali, rilevava inoltre una certa differenza tra la consapevolezza dei problemi e le azioni concrete; le sempre più diffuse pratiche di formazione a nuovi stili di vita solo in pochi casi hanno prodotto reali trasformazioni nel segno della sostenibilità ambientale.
Insomma, su questo fronte la Chiesa ha ancora tanta strada da fare, a partire dal recupero di temi profondamente legati alla tradizione e alla prassi delle comunità cristiane. «Il punto – spiega lo scienziato e teologo prof. Simone Morandini della Fondazione Lanza – consiste nel tener viva la sensibilità che era di San Benedetto, di San Francesco, di Ildegarda di Bingen o, prima ancora, dei salmisti: ogni cosa ci è data perché possiamo gioirne e coltivarla, ogni cosa ci è data per essere responsabili e lasciarla ad altri, dopo di noi, altrettanto buona e bella».
E allora, caro Alberto, se vuoi dare una risposta alle tue domande prova a rileggere lo stupore di San Francesco, proclamato da Giovanni Paolo II “patrono dell’ecologia” perché «ha onorato la natura come un dono meraviglioso dato da Dio al genere umano». Uno stupore intessuto di gioia che il santo ha voluto mettere in versi, in preghiera, con il suo Cantico delle Creature in cui ringrazia Dio per il dono ricevuto e chiama fratello e sorella tutto ciò, compresi gli animali selvatici, che esiste per volontà dello stesso Dio creatore.
La crescente attenzione della Chiesa per i problemi ambientali è documentata dalle sempre più numerose iniziative con cui le comunità cristiane puntano a mettersi in “rete” tra di loro e con la società civile, per individuare una comune responsabilità.
Responsabilità che spinge a riflettere, a interrogarsi, a coinvolgere tutti coloro che possono fare molto perché il creato venga rispettato, salvaguardato, custodito per chi verrà dopo di noi.
Nella sua enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI scriveva che «la famiglia è il primo ambiente in cui si impara la responsabilità verso le generazioni future». È il luogo privilegiato in cui, prima ancora delle scelte quotidiane (riscaldamento, illuminazione, consumi, trasporti…), si coltivano e si nutrono gli atteggiamenti fondamentali.
La cultura dello scarto
Ma come può la famiglia diventare una scuola per la custodia del creato e la pratica di questo valore? È la domanda posta nel documento preparatorio per la 47ª Settimana sociale dei cattolici che si è svolta a Torino nel settembre scorso. Un documento che sottolinea come la cultura della custodia che si apprende in famiglia si fondi sulla gratuità, sulla reciprocità e sulla riparazione del male.
La prospettiva della gratuità del dono «fa cambiare lo sguardo sulle cose. Tutto diventa intessuto di stupore. Da qui sgorga la gratitudine a Dio». La famiglia, inoltre, ha un’importanza decisiva nella costruzione di relazioni buone con le persone, perché in essa si impara il rispetto della diversità, ci si riconosce l’uno dono per l’altro (reciprocità).
E in famiglia si impara anche a «riparare il male compiuto da noi stessi e dagli altri, attraverso il perdono, la conversione, il dono di sé; si apprende l’amore per la verità, il rispetto della legge naturale, la custodia dell’ecologia sociale e umana insieme a quella ambientale».
Sia la Settimana Sociale sia l’edizione 2013 della Giornata per la custodia del creato, che dal 2006 la Chiesa italiana celebra il 1° settembre, hanno individuato la famiglia quale principale “agenzia” educativa che può curare non solo il rapporto con l’ambiente ma anche quello con gli esseri umani. Perché l’“ecologia umana” è strettamente collegata a quella ambientale.
Papa Francesco, all’Udienza generale del 5 giugno scorso: «Noi stiamo vivendo un momento di crisi; lo vediamo nell’ambiente, ma soprattutto lo vediamo nell’uomo… Questa “cultura dello scarto” tende a diventare mentalità comune, che contagia tutti. La vita umana, la persona non sono più sentite come valore primario da rispettare e tutelare… Una cultura dello scarto che ci ha reso insensibili anche agli sprechi e agli scarti alimentari, che sono ancora più deprecabili quando in ogni parte del mondo, purtroppo, molte persone e famiglie soffrono fame e malnutrizione».
Parrocchie sostenibili
La Chiesa si sta dunque impegnando, si sta preparando a scendere in campo con più energia e decisione, sta individuando le strade percorribili per sviluppare e diffondere con azioni concrete i nuovi stili di vita. E in questo percorso si colloca una ricerca avviata da poco per scoprire quanto sono ecologicamente sostenibili le parrocchie italiane.
Il progetto, sostenuto dalla Pastorale universitaria del Vicariato di Roma, è realizzato dal Centro di ricerche in scienze ambientali e biotecnologie (Cesab), dall’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum e dal corso di laurea in Scienze della comunicazione dell’università Lumsa.
Secondo Ercole Amato, presidente del Cesab, si tratta di «un’attività di ricerca che a questo livello non è stata mai realizzata in Italia e nel mondo. Ma è fondamentale per comprendere bene quale sia il livello di diffusione tra le comunità parrocchiali dei concetti relativi alla salvaguardia del creato e all’ecologia umana, secondo gli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa, stimolando i parroci ad applicare tali concetti nel concreto attivando processi virtuosi nella gestione dei beni ecclesiastici.
Non ci concentreremo solo sulle parrocchie ma anche sui centri della sanità religiosa, sulle scuole cattoliche, sulle case per ferie e sui centri di aggregazione. Chiederemo ai parroci quale attenzione ripongono alle tematiche ambientali durante il loro apostolato, e quale approccio abbiano le comunità parrocchiali rispetto all’ambiente e all’ecologia».
La ricerca è partita da Roma e si allargherà ad altre diocesi italiane. Siamo curiosi di conoscere i risultati.
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