La Schiava Santa

Su Raiuno domenica 5 e lunedì 6 aprile la fiction su Bakhita

La Schiava Santa

da Attualità

del 03 aprile 2009

Che insuperabile romanziera è la vita, di quali intrecci fantasiosi tesse – spesso al limite del credibile – le trame. Come questa che, pur calata nella realtà di un passato remoto (a cavallo tra Ottocento e Novecento), si dipana fino ai giorni nostri irradiando luce, carità e speranza.

 

Perché è davvero una Storia meravigliosa, per ricalcare il titolo del libro che nel 1931 la raccontò, a firma della maestra elementare e laica canossiana Ida Zanolini, quella della piccola africana Bakhita, nata intorno al 1869 in un villaggio del Sudan meridionale, a quattro anni rapita dai mercanti arabi di schiavi, approdata dopo infinite e dolorose traversie in Italia, divenuta suora nel 1896, morta nel 1947, beatificata nel 1992 e canonizzata nel 2000, durante il pontificato di Giovanni Paolo II.

 

Una biografia così ricca d’azione e di emozioni, umane peripezie e palpiti spirituali, da costituire il copione cinematografico perfetto: che, messo a punto con qualche licenza creativa da un team di validi sceneggiatori e affidato alla solida regia di Giacomo Campiotti, è diventato una miniserie in due puntate in onda su Raiuno domenica 5 e lunedì 6 aprile, in prima serata. Di Bakhita, dei suoi protagonisti e della faticosa lavorazione (da un Veneto invernale umido e freddissimo al caldo torrido del Burkina Faso), parliamo con il regista, reduce dal successo di un’altra fiction nel segno della santità, Giuseppe Moscati, vincitrice del RomaFictionFest 2007.

 

 

 

Campiotti, le piacciono le sfide...

«Mi piace, soprattutto, raccontare storie che abbiano luce e diano speranza, capaci di fare del bene in questi tempi disorientati. Dopo il film su Moscati, 'medicina' che milioni di spettatori hanno mostrato di prendere volentieri, mi avevano proposto un progetto vincente già sulla carta, grazie al cast stellare e alla trama acchiappa-ascolti. Nello stupore generale, e nonostante forti perplessità (una brutta sceneggiatura e una protagonista di colore del tutto sconosciuta), ho preferito dedicarmi a un personaggio, quello di Bakhita, magnifico ma ignoto ai più, a partire dal sottoscritto. Perché intravedevo nella sua storia il seme di temi attualissimi: l’integrazione, la tolleranza, l’accettazione del 'diverso'. Oltre, naturalmente, al senso forte della vocazione religiosa. Ancora una volta, insomma, ho seguito il cuore più che la testa».

 

E avete rifatto il copione, basandovi sulle rare testimonianze scritte e prendendovi qualche libertà...

«Il film ripercorre l’incredibile vita di Bakhita attraverso numerosi flashback, nella cornice iniziale del convento delle Canossiane di Schio, in Veneto, dove la futura santa ha vissuto dal 1902 ed è morta dopo una lunga malattia; e dove nel 1948 arriva, troppo tardi per rivederla e riannodare l’antico legame, Aurora Marin (Stefania Rocca), oggi distinta e irrequieta signora, ieri piccola orfana di madre cui il padre Federico (Fabio Sartor), una via di mezzo tra l’avventuriero e il commerciante spregiudicato, aveva affiancato la giovane africana, strappata a un destino infame nella sua terra e portata con sé nella natia Zianigo. Attraverso il racconto che la donna fa alle sue bambine, lo spettatore ripercorre il doloroso cammino di Bakhita, vittima prima dei negrieri, poi delle angherie del paron italiano, in un mondo rurale chiuso e arretrato, dove la religione si mescola con la superstizione in una sorta di gotica pesantezza. È in questo microcosmo ancora 'feudale' che si svolge, ai primi del Novecento, la nostra storia».

 

Da una schiavitù all’altra, insomma. Povera Bakhita...

«Lei è e si ritiene una schiava (questo sarà risolutivo per la sua adesione al cristianesimo e al messaggio di liberazione in esso racchiuso), ma è capace – per buon cuore, non certo per ideologia – di mettere il dito nelle contraddizioni e nelle ingiustizie del nuovo ambiente. La gente muore di freddo? Lei, senza curarsi delle 'leggi' da sempre in vigore, regala ai bambini del villaggio la legna del padrone... Tanti piccoli, quotidiani miracoli che finiranno per ammorbidire cuori induriti e risvegliare coscienze intorpidite: come quella di padre Antonio (un drammatico e bravissimo Francesco Salvi), il parroco del paese che – proprio grazie a Bakhita e al suo limpido esempio – smetterà i panni di pavido don Abbondio per ritrovare il fuoco della vocazione. Introducendo in cambio lei al mistero di Gesù».

 

Nel cast, fitto di bravi attori (oltre a quelli già citati, segnaliamo Sonia Bergamasco e Ettore Bassi), spicca la protagonista Fatou Kine Boye: come e perché l’ha scelta, Campiotti?

«È una storia divertente, visto che ho una moglie africana (si chiama Aisha, l’ho conosciuta a Londra mentre giravo la fiction Zivago e sposata cinque anni fa) ed è stato automatico pensare che fosse la persona giusta per il ruolo, anche se non è un’attrice e non ha velleità artistiche. Sennonché, mentre insistevo per farle i provini, è rimasta incinta (Gabriel è arrivato qualche mese fa), il che ha risolto il dilemma... familiare. Quello professionale, invece, ha richiesto più tempo e centinaia di incontri, purtroppo infruttuosi. Finché mi sono imbattuto in questa giovane senegalese, Fatou Kine Boye, un lavoro da commessa a Roma e... scarse doti recitative. Ma il suo sorriso disarmante e la purissima luce che emana, insieme a un cuore grande, mi hanno conquistato: era perfetta per raccontare una santa. Lo studio e l’allenamento hanno fatto il resto».

 

Luisa Sandrone

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