Le famiglie spesso si trovano nel luogo dell’assenza di Dio. Cercano nella direzione sbagliata senza rispondere alla domanda fondamentale: “Chi cercate?”. Una riflessione approfondita e ardita che dalla Domenica delle Palme ci conduce alla Pasqua attraverso un percorso fatto di alleanza, dolore, tradimenti e resa all’Amore che è sempre nuovo.
Le famiglie spesso si trovano nel luogo dell’assenza di Dio. Cercano nella direzione sbagliata senza rispondere alla domanda fondamentale: “Chi cercate?”. Una riflessione approfondita e ardita che dalla Domenica delle Palme ci conduce alla Pasqua attraverso un percorso fatto di alleanza, dolore, tradimenti e resa all’Amore che è sempre nuovo.
di Assunta Scialdone, teologa, tratto da puntofamiglia.net
In fondo la Sacra Scrittura è l’alleanza tra Dio e gli uomini descritta con simboli nuziali. L’immagine dello sposo e della sposa che si cercano, si chiamano, si riconoscono apre, attraversa e chiude la Sacra Scrittura, a partire dai due delle origini (Gen 2,23-24), che si riconoscono simili ma non uguali, passando per il Cantico dei Cantici, che rappresenta l’appartenenza totale, desiderio e ricerca continua dell’amato/a. È un amore non corroso dalla routine quotidiana che conserva la freschezza del primo incontro, dei primi baci e abbracci, che non resta schiavo dell’innamoramento iniziale ma che cresce nella libertà del dono, fortificandosi nelle vicende quotidiane fino a oltrepassare la morte (Cf. Ct 2,8-17; 8, 6-7). Il Salmo 19, 6 quando canta: «Là pose una tenda per il sole che esce come sposo dalla stanza nuziale» paragona lo sposo che esce dalla tenda nuziale al sole che illumina la terra.
Questo linguaggio sponsale assume grande rilievo negli oracoli dei profeti Osea, Isaia, Geremia, Ezechiele che interpretano l’infedeltà del popolo all’Alleanza di Dio come adulterio o prostituzione. Dio è presentato come l’amante tradito che soffre, si adira, ma che vuole la riconciliazione con l’amata. Il profeta Osea, presenta l’infedeltà d’Israele attraverso la seduzione dell’idolatria, ma Dio, come sposo innamorato e fedele, per liberare la sua sposa dal peccato di infedeltà pronuncia queste parole: «La sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16). Il deserto è il luogo della solitudine, il luogo del primo amore, dove il popolo, uscito dall’Egitto, sperimenta l’amore di Dio per Lui eleggendolo suo unico Signore e Sposo. Anche il profeta Isaia ripresenta l’esperienza di amore, delusione e di fedeltà rinnovata (Cf. Is 55, 1-10). Infine, dipinge Gerusalemme immagine del popolo che ritorna al suo Signore come una sposa che nel giorno delle nozze accoglie lo sposo: «Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia, come uno sposo che si cinge il diadema e come una sposa che si adorna di gioielli»; «Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma tu sarai chiamata Mio compiacimento e la tua terra, Sposata, perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (Isaia 61,10; 62, 4-5).
Geremia ed Ezechiele, nella relazione tradita del rapporto sposa/sposa, esprimono la sofferenza dell’esilio babilonese dal quale Dio, grazie al suo amore fedele, li farà ritornare nella fedeltà a Lui. Nonostante l’infedeltà del popolo/sposa, Geremia spera in un ritorno perché solo il Signore è l’amato dalla giovinezza: «E ora forse non gridi verso di me: Padre mio, amico della mia giovinezza tu sei!» (Ger 3,4). Ezechiele(36, 28) gli fa da eco: «Sarete il mio popolo, e io sarò il vostro Dio». Si intravedono tracce di nuzialità anche sulla celebrazione dello Shabbat. Questo giorno è atteso dal popolo d’Israele secondo la stessa dinamica con cui si attende la sposa. In Esodo 20, 8 si legge: «Ricordati del giorno del sabato per santificarlo». La parola le–qaddesh, santificare, nel linguaggio del Talmud significa consacrare una donna, fidanzarsi con lei. Questo ci abilita a pensare che la parola pronunciata da YHWH sul monte Sinai volesse fissare, nella coscienza d’Israele, l’idea di essere il promesso sposo di quel giorno sacro e, unitamente, fissare il comando di sposare il settimo giorno. La tradizione ebraica per l’osservanza del sabato ha mantenuto una particolare ricchezza di segni nuziali che caratterizzano la celebrazione di questo giorno. Ricordiamo il colore bianco, tipico della sposa, che distingue la tovaglia e le candele della festa, la lettura integrale del Cantico dei Cantici che avviene in Sinagoga e, ispirato a questo testo biblico, l’Inno col quale questo Santo giorno viene accolto, che inizia e si conclude con le seguenti parole: «Vieni, mio caro, incontro alla sposa, volgiamoci a ricevere il Sabato (…) Vieni in pace, o corona dello sposo, con gioia e giubilo, in mezzo ai fedeli del tuo popolo prediletto, vieni o Sposa, vieni o Sposa». La dimensione nuziale della Torah è costantemente attualizzata, nella vita dell’ebreo, attraverso uno dei precetti fondamentale.
Nel Nuovo Testamento, la simbologia nuziale diventa immagine del rapporto d’amore fra Cristo Sposo e la Chiesa Sposa. San Paolo, scrivendo alla comunità di Corinto, afferma: «Io sono geloso della gelosia di Dio, perché vi ho fidanzati a un solo sposo, per presentarvi a Cristo come una vergine pura» (2Cor 11, 2). Infine gli ultimi tempi si caratterizzano come quelli delle nozze dell’Agnello con la Gerusalemme celeste (Ap 19,7; 21,2). L’intera vicenda storica di Gesù è attraversata dalla simbologia nuziale. Un giorno parlando con i discepoli di Giovanni, Gesù raccontò la parabola dell’invito a nozze affermando che “Lo sposo è con loro” (Mt 9,15), indicando così il compimento concreto nella sua persona dell’immagine sponsale di Dio-sposo che pervade l’intero Antico Testamento. Nel suo essere Sposo, Egli rivela pienamente il mistero di Dio come mistero di Amore. Presentandosi come “lo Sposo”, Gesù svela l’essenza di Dio, la Sua intimità, confermando l’amore immenso per l’uomo. All’inizio della sua missione Gesù partecipa ad un banchetto di nozze a Cana di Galilea, insieme con Maria e con i primi discepoli (Cf. Gv 2,1-11) indicando il suo essere Sposo. Anche il brano evangelico dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme è intessuto di nuzialità. È possibile intravedere in esso alcune similitudini con il matrimonio ebraico. In Matteo 21, 1-5 si legge: «Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito troverete un’asina, legata, e con essa un puledro. Slegateli e conduceteli da me. E se qualcuno vi dirà qualcosa, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà indietro subito”». Ora questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Dite alla figlia di Sion: Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma». Chi è la Figlia di Sion? Isaia chiama Gerusalemme «la vergine figlia di Sion» (Is 37, 22). La verginità simboleggia la totale ed esclusiva comunione con Dio perché quella città rimase inviolata, respingendo le proposte idolatriche del re di Assiria, rimanendo fedele al Patto con Dio.
La frase: “Dite alla figlia di Sion: Ecco, a te viene il tuo re” pone in risalto la ripresa delle relazioni di amore e fedeltà tra Israele e il suo Sposo. Sappiamo bene che il progetto di Dio era stato interrotto nel giardino di Eden con la disobbedienza dei progenitori. Nonostante quel rifiuto, il Signore Dio ha sempre corteggiato con amore passionale l’umanità promettendole, fin dal principio, un Salvatore: «Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa (la stirpe, il Salvatore) ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Genesi 3,15). Questo amore di Dio diventa concreto nella persona di Gesù che, nel suo ministero pubblico, si presenta come lo Sposo promesso da YHWH fin dal principio per ristabilire il patto di Alleanza con l’umanità intera e non più soltanto con il popolo d’Israele. Sulla base di questi pochi spunti possiamo rileggere tutta la vicenda terrena di Gesù, compreso l’ingresso nella città di Gerusalemme, con le categorie nuziali a partire dal matrimonio ebraico ben conosciuto dagli ebrei e da Gesù stesso e, quindi, di facile comprensione per gli interlocutori dell’epoca.
La celebrazione del matrimonio israelitico prevede due fasi. La prima costituisce lo sposalizio (i rabbini la chiamano ʼērûsîn o qîddûšhîn, che significa “santificazione – consacrazione – dedicazione, capace di rendere presente Dio attraverso relazioni autentiche”. L’amore umano, così consacrato, diventa segno di un’Alleanza perenne in quanto ha una particolare relazione con l’amore stesso di Dio; I canonisti invece parlano di matrimonium ratum). La seconda fase è l’inizio della coabitazione: le nozze (definita dai rabbini niśśuʼin “una sola carne” e dai canonisti matrimonium consummatum).
La prima fase del matrimonio israelitico è più sostanziale e meno appariscente in quanto consiste nella stipulazione del patto sponsale. È a tutti gli effetti un atto giuridico in quanto senza questa prima fase non si ha matrimonio. Intravediamo in essa l’inizio dello sposalizio con l’umanità tra Dio e l’uomo nell’incarnazione di Gesù che decide di unire a sé la natura umana. È un fatto sostanziale senza il quale Cristo non avrebbe potuto portare a compimento la promessa di Dio fatta nel giardino di Eden. Prima che venga stipulato il patto sponsale bisogna, però, richiedere la fanciulla in moglie. Nel mondo ebraico, il giovane, accompagnato dal padre, si recava nella casa della ragazza prescelta facendo una richiesta molto specifica al capofamiglia: che gli “venisse data in moglie”. Nel nostro caso la richiesta è portata dall’Arcangelo Gabriele, messaggero di Dio Padre, non al padre della fanciulla ma direttamente alla Vergine che, dopo alcune resistenze, decide di pronunciare il suo “Sì” libero all’inizio dello sposalizio di Dio con l’umanità. Nel momento in cui l’uomo diventava marito, cioè acquisiva il sì da parte del padre della sposa, acquisiva dalla donna il diritto alla fedeltà. Maria dona, in prima persona, se stessa a Cristo restandogli fedele “conservando tutto nel suo cuore”.
Solo a termine delle trattative il contratto matrimoniale poteva essere stipulato accompagnando il tutto con una vicendevole dichiarazione degli sposi: “questa è mia moglie”, “questo è mio marito” (Cf. Os 2, 18). Seguiva la stesura del documento alla presenza di testimoni. Troviamo ciò nei due sì liberi di Maria e Gesù: «Eccomi, sono la serva del Signore» (Lc 1, 38); «Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà». (Eb. 10,5-7). Fin qui lo sposalizio ebraico. Dopo un certo tempo, avevano inizio le nozze. La cerimonia delle nozze, fase conclusiva del procedimento matrimoniale, avveniva quando, giunto il tempo stabilito nello sposalizio, si dava piena esecuzione all’accordo matrimoniale. Essa si apriva con un festante corteo che muoveva dalla casa della sposa verso la casa paterna dello sposo come riportato nel primo libro dei Maccabbei: «I figli di Iambri hanno una grande festa di nozze e conducono a Nàdabat la sposa, figlia di uno dei grandi magnati di Canaan, con corteo solenne» (1Mac 9,37). La sposa, seduta sul baldacchino con capelli sciolti (simbolo di femminilità e di donazione del proprio corpo allo sposo), la corona sul capo, ingioiellata e ben vestita, veniva condotta nella sua nuova casa accompagnata da un folto corteo di parenti ed amici che cantavano e danzavano per lei. Il Salmo 45 così testimonia: «La figlia del re è tutta splendore, gemme e tessuto d’oro è il suo vestito. È presentata al re in preziosi ricami; con lei le vergini compagne e a te sono condotte; guidate in gioia ed esultanza entrano insieme nel palazzo del re» (Sal 45, 14-16). L’intera comunità veniva investita e coinvolta in questa grande festa e ciò rendeva le nozze non un fatto privato, ma una scelta pubblica, sociale. È così ancora adesso, anche in occidente, ma nessuno ci fa più caso. La sposa, appena giunta alla sua nuova abitazione, veniva consegnata al marito dall’amico dello sposo.
Come non intravedere nell’ingresso festoso di Gesù a Gerusalemme la seconda fase del matrimonio di Dio con l’umanità? Nel caso di Gesù è lo sposo che va dalla Sposa entrando in groppa ad un asino. Va incontro all’amata che, tuttavia, non lo riconosce. L’amata gli era già stata consegnata da Giovanni il Battista, amico dello sposo, al fiume Giordano dove il Battista si presenta come amico dello Sposo al quale non è degno di sciogliere i legacci dei sandali indicando, così, proprio Gesù come lo Sposo.
Cominciava allora per tutti gli invitati il banchetto che durava sette giorni detti della “settimana della sposa” perché al centro dell’intera festa era posta lei con la sua bellezza. Nella prima notte gli sposi si ritiravano nella camera nuziale, addobbata per le nozze, dando inizio alla loro coabitazione. Dall’ingresso di Gesù inizia la grande settimana definita oggi “Santa”, nella quale lo Sposo consegna tutto se stesso all’amata. Il Giovedì santo Gesù Cristo dona se stesso sotto il velo del sacramento dell’Eucaristia e celebra come Sposo le sue nozze. Istituendo l’Eucaristia si impegna ad essere fedele all’amata, è Lui a promettere fedeltà e non la sposa. Il pane Eucaristico diventa il banchetto di Nozze che ha come culmine l’essere una sola carne con lo Sposo. Esso si presenta, dunque, come una sorta di “rapporto coniugale” tra Dio e l’umanità. L’ultima cena si apre con la lavanda dei piedi da parte di Gesù. È un gesto che richiama quello della donna di Betania che unge i piedi del Maestro con il nardo asciugandoli con i suoi capelli, o quello della sposa del Cantico che spezza il nardo profumato versandoglielo sul capo rendendolo re e sposo. Troviamo lo stesso gesto appassionato in Maria di Betania, sorella di Lazzaro, che si pone ai piedi di Gesù non come sottomissione ma come segno di passione amorosa verso il Maestro. Gesù, il Giovedì, si presenta come dono di sé verso l’umanità: si vede nel segno del tradimento di Giuda. Cristo sorpassa il tradimento di Giuda e l’abbandono dei suoi scendendo fino in fondo al tradimento dell’uomo per poter amare l’umanità anche in questo stato di grande fragilità e sofferenza. Cristo mostra all’uomo la naturadell’amore puro che riesce a travolgere e ad annientare il rifiuto dell’uomo. Il tradimento, allora, non scalfisce l’amore vero. Per le coppia questa vicenda è una provocazione: finché uno ama perché l’altro lo merita, allora deve avere il coraggio di dire che non ha mai amato. Si ama veramente quando si è disposti a curare, giustificare, medicare e sanare le ferite che potrebbe ricevere il Noi coniugale. Nella notte del Giovedì Cristo-sposo si ritira nel Getsemani, qui è sottoposto ad una dura lotta: tradito dagli amici, non riconosciuto dall’amata, tentato di abbandonare di fronte ai tradimenti della Sposa. Questa dura lotta lo porterà a sudare sangue: ribadisce il suo Sì libero alla Sposa, nonostante le innumerevoli mancanze di questa.
Il Cristo trafitto sulla croce ricorda l’Adamo dal cui fianco esce Eva sua sposa. Cristo dal costato genera la sua amata Sposa-Chiesa ed effonde lo Spirito Santo donandolo per prima all’amata affinché possa riconoscerlo ed amarlo. L’albero della croce e della morte, nel deserto della desolazione, si trasforma in albero della vita i cui frutti, da quel momento in poi, l’umanità tutta può mangiare perché offerti dallo Sposo gratuitamente per rendere la sua Sposa bella, giovane, senza macchia e né ruga.
Il Sabato è giorno di silenzio, per la totale assenza dell’amato, la suprema notte oscura. Tutto sembra essere in sospeso. Von Balthasar lo definisce “l’unico giorno ateo (assenza di Dio) della storia”. La domenica, invece, è il giorno della “donna” nel giardino alla ricerca dell’amato. È il giorno della Chiesa, della coppia. Maria piange presso il sepolcro. Ella non se ne separa anche se lì non può più incontrare l’amato. E’ tratteggiata come l’amata del Cantico che cerca il suo diletto (Cf. Ct 3,1-3). A differenza della sposa del Cantico che si rivolge alle guardie, sono gli Angeli che domandano a Maria il motivo del suo pianto. La donna non sa dove hanno posto il suo Signore. Occorre che cambi direzione perché finché lo cerca dalla parte del sepolcro, verso il luogo del passato non lo troverà mai: “Non è qui! È risorto!”. C’è bisogno di una “conversione” (cambiare direzione) per riconoscere Gesù. Come è potente questo episodio per gli sposi e per i genitori. Per riconoscere il marito, la moglie, i figli, non bisogna guardare verso il passato, ma verso il loro futuro di splendore. Le nostre vite hanno bisogno di una conversione: troppo spesso guardiamo il venerdì delle nostre sconfitte mentre il senso è nella certezza della Pasqua eterna che ci attende se solo ci giriamo, come coppia, verso Cristo risorto. Tutto ciò non basta, tuttavia. C’è bisogno che l’Amato la chiami (ci chiami) nuovamente: “Donna perché piangi? Chi cerchi?”. Gesù aggiunge all’interrogativo degli Angeli il “chi cerchi?”, lo stesso interrogativo che risuonò la notte del giovedì nel giardino del Getsemani rivolto a Giuda. Gli occhi della donna restano ancora chiusi scambiando il Signore per il giardiniere. Ma la Sua voce le tocca il cuore perché, involontariamente, lo chiama “Signore, se lo hai portato via tu dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. La donna attende la voce dello sposo: «Una voce! Il mio diletto!» (Ct 2, 8). Egli la chiama nuovamente e Maria si volge nuovamente ma, questa volta, non guarda più al passato restando attaccata al sepolcro delle fragilità, ma i suoi occhi sono solo del suo Signore.
La donna-Chiesa, quindi le famiglie, spesso si trovano nel luogo dell’assenza di Dio. Cercano spesso nella direzione sbagliata senza rispondere alla domanda fondamentale: “Chi cercate?”. Ecco la nostra Domenica delle Palme: chi cerchiamo? È vero, la settimana (la via delle nozze) sarà ricca di momenti belli ed esaltanti, ma anche di tradimenti. L’osanna del giorno delle nozze diventerà il crucifige di qualche parente amato. Verrà la croce. Si suderà sangue perché coloro che avrai amato e da cui ti sarai sentito/a amato/a, ti tradiranno. Amerai non capito. Scoprirai di non saper amare come sarebbe giusto. Ogni coppia farà i conti con i propri sogni infranti. Verrà il sabato vuoto degli anni senza senso di una storia che non riconosci più e che ti aspettavi diversa. Ma poi c’è la Pasqua. Le nozze di Cristo ci dicono con forza che le coppie che si affidano a lui vanno incontro ad un futuro di Gloria anche attraverso un presente di afflizioni. Cristo-sposo ci dice che sono proprio queste ad introdurci nella gloria. Non le amiamo, non ci piacciono, ma è attraverso di esse che si passa ad un livello superiore. È ancora la Sacra Scrittura che ce lo conferma. «Poi venne uno dei sette angeli che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli e mi parlò: «Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell’Agnello». L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio» (Ap 21, 9-10).
E poco più avanti: «Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». E chi ascolta ripeta: «Vieni!». Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita… Colui che attesta queste cose dice: «Sì, verrò presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù».
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