La sfida educativa: una sfida epocale

La prima mossa della libertà di chi ci sta di fronte avviene per un fascino, per una attrattiva, non per l'introduzione di nuove regole o di una maggiore severità. Il pericolo dell'abitudine, della scontatezza, della noia è sempre in agguato.

 

 

del 20 settembre 2012  

 

 Di cosa ha bisogno la scuola oggi? Di adulti che accettano questa sfida, che colgono la provocazione dei ragazzi che si trovano davanti come una sfida per sé ad “andare più in là”. Se io insegnante non mi lascio provocare da ciò che mi circonda, da ciò che accade, che domanda posso avere sulla realtà? E se non ho domande come posso sorprendermi della risposta?

          Scriveva profeticamente Chesterton nel 1932: “L’età moderna è una età anti-educativa. E’ una età in cui per la prima volta viene stabilito il diritto dello stato di educare i figli dei suoi cittadini. Ed è anche l’età in cui per la prima volta viene negato il diritto del padre di famiglia di educare i suoi figli. E’ l’epoca in cui gli sperimentatori desiderano insegnare a tutti i costi ogni cosa ad un piccolo e allegro teppistello, dalla criminologia all’equilibrio cosmico, al sistema Maya del ritmo decorativo. Ma è anche l’epoca in cui volonterosi filosofi mettono in dubbio se sia giusto insegnare alcunché a qualcuno: persino di evitare di avvelenarsi, o di cadere dai precipizi”.

          Chesterton in queste parole afferma chiaramente quella che io considero la più grande sfida epocale: la sfida educativa. Con una metafora la esprimerei così: “Se il seme piantato non lo si alimenta e non cresce, muore”. Mi riferisco alle decine di ragazzi che ogni giorno un educatore si trova di fronte, che hanno una grandissima “sete” di significato, un grandissimo desiderio di corrispondenza alle attese del loro cuore.

          Scrive, al proposito, una mia alunna: “Un giorno mi ritrovo per caso ad ascoltare una canzone, propone uno di quei ritornelli che presto si imprimono nella mente e che ti viene voglia di cantare di continuo. Quel giorno come al solito ero immersa nei miei pensieri e riflettevo su quale fosse il valore e il significato della vita. Me lo domando ogni giorno, mi sveglio al mattino e davanti allo specchio mi chiedo: “Troverò in questa giornata una ragione di vita?”. Con malavoglia esco di casa, con l’idea che forse quel nuovo giorno non riuscirà a dirmi tanto di più rispetto al giorno prima. Nonostante la prima impressione non mi perdo d’animo, mantengo viva in me la speranza dell’esistenza di una risposta, ma inevitabilmente mi perdo via in pensieri futili e nella routine. Ecco che allora comincio a sentirmi come l’Orlando dell’Ariosto che tutto intento nella ricerca della sua amata Angelica, perde di vista il suo obiettivo principale, distratto dagli oggetti che trova sul suo percorso. Così perde la strada e si ritrova sempre al punto di partenza. Anch’io come lui mi ritrovo sempre al punto di partenza, perché mi ripeto di continuo le stesse domande senza trovare una risposta adeguata. Mi sento persa, mi sembra di “non vivere” e anche se fuori c’è il sole nulla mi appare chiaro, e dentro di me c’è solo un insieme confuso di pensieri e sensazioni. In quel momento mi giungono all’orecchio le parole di quella canzone che dice: “Meraviglioso…ma come non ti accorgi di quanto il mondo sia meraviglioso?”; poi ancora: “Ma guarda intorno a te che doni ti hanno fatto, ti hanno inventato il mare…Tu dici non ho niente: ti sembra niente il sole, la vita, l’amore?”. Ricomincio a pensare e inizio a rendermi conto che forse è la vita di tutti i giorni, l’abitudine che ci imprigiona e ci separa dal significato. Abbiamo gli occhi coperti perché ciò che ci viene offerto ogni giorno lo riteniamo scontato. E’ tutto lì davanti a noi, ma noi non lo vediamo. Quando la canzone parla del mare mi viene in mente la sua immagine, quanto sia immenso, infinito, proprio come le innumerevoli domande che mi pongo e che fanno parte dell’uomo. Forse basterebbe guardare, contemplare la bellezza e la vastità del mare per capire quanto sia grande la ragione per cui esistiamo; forse basterebbe non tenere gli occhi chiusi di fronte a tutto ciò che è intorno a noi e ci viene donato. Capisco allora che tutto è meraviglioso, perché meraviglioso è lo stupore che proviamo, ogni volta che osserviamo con attenzione ciò che prima osservavamo con superficialità. Ogni cosa ci lancia un messaggio, per questo non bisogna distogliere lo sguardo”.

          E’ attraverso l’impatto con la realtà, la provocazione della realtà che un giovane scopre la sua umanità, ma è come se si levasse un grido da chi incontriamo ogni giorno: “Ho gli occhi, ma non riesco a vedere la luce! I miei occhi sono chiusi, sono coperti, aiutami a guardare, aiutami ad afferrare il senso di quello che mi sta di fronte, che mi accade”. Ricordando Montale è come se dicesse: “Aiutami ad andare più in là del già conosciuto, di ciò che è scontato, abitudinario, ripetitivo, di ciò che non mi soddisfa perché il mio cuore urge una risposta esauriente”.

          Di cosa ha bisogno la scuola oggi? Di adulti che accettano questa sfida, che colgono la provocazione dei ragazzi che si trovano davanti come una sfida per sé ad “andare più in là”. Se io insegnante non mi lascio provocare da ciò che mi circonda, da ciò che accade, che domanda posso avere sulla realtà? E se non ho domande come posso sorprendermi della risposta? Il pericolo dell’abitudine, della scontatezza, della noia è sempre in agguato. Ci troviamo di fronte a una generazione di giovani che chiede di vedere, di guardare a fondo, di giudicare, perché si rende conto del limite del proprio sguardo. E’ in gioco dunque la sanità esistenziale dell’IO, la salvaguardia della propria umanità, la salvezza della ragione, la possibilità di vivere pienamente da uomini, di riconoscere il senso e il valore della realtà, per questo ho parlato di sfida educativa epocale. La strada non è quella di proporre dei valori astratti, ma di implicarsi in un rapporto coi giovani, di vivere insieme un’esperienza: l’avventura della scoperta della propria umanità, l’avventura esaltante della conoscenza.

          La prima mossa della libertà di chi ci sta di fronte avviene per un fascino, per una attrattiva, non per l’introduzione di nuove regole o di una maggiore severità, avviene per l’offerta di una ipotesi e di un cammino alla scoperta di ciò che ci corrisponde. La scuola della separazione fra ragione e interesse/passione per la vita è una scuola morta, inutile. Qualsiasi lezione di qualsiasi materia deve sempre partire da questo interesse che è dell’alunno, come dell’insegnante. Solo adulti così possono ridare vita a una scuola che sembra ogni giorno agonizzare nella routine del già visto, dello scontato, del non senso o delle riforme, dei regolamenti, delle circolari che non sembrano mai voler affrontare il problema di fondo.

Franco Bruschi

http://www.culturacattolica.it

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