Il processo di soggettivizzazione che i giovani vivono e che è figlio dei fenomeni culturali della sur-modernità, di cui si è ora brevissimamente accennato, si manifesta in vari aspetti della loro condizione esistenziale...
del 16 novembre 2005
Nella lingua e nella cultura odierna accanto alla più antica parola soggettivismo si tende ad utilizzare quella di soggettivizzazione che, in pratica, non è che il nome del processo che produce il soggettivismo.
Il soggettivismo secondo un comune dizionario filosofico contemporaneo non è nient’altro che un «sinonimo di relativismo, per tutte quelle posizioni che negano l’esistenza di criteri di verità e di valore in qualche modo indipendenti dal soggetto e tali da condizionarlo», tipico di chi segue una «posizione che riduce la realtà o l’essere al soggetto».
Questo significato non è che una modesta evoluzione di quello che a suo tempo il Tommaseo, riprendendolo dal Rosmini, riportava nel suo dizionario della lingua italiana: «il soggettivismo, o sistema soggettivista, è scettico di necessità nelle sue conseguenze, ancorché chi lo professa non se ne accorga. Si dice di quelli che derivano tutte le idee e cognizioni dal puro soggetto umano.[...] Dalla soggettività delle idee si trapassa alla soggettività del mondo universo; e il sognatore si fa creatore».
 
 
La soggettivizzazione nella sur-modernità
 
Ma perché oggi parlando della cultura sociale e, in particolare della sua espressione nel mondo giovanile, si afferma che essa tende verso il soggettivismo?
La risposta a questa domanda è da ricercare nell’intreccio di alcuni fenomeni culturali, sociali e psicologico-esistenziali che sono all’origine di questa particolare fase della modernità che qualcuno chiama sur-modernità.
Il primo di questi fenomeni è costituito dalla cosiddetta complessità sociale che attraverso il suo policentrismo di valori, di idee, di concezioni del mondo e della vita, oltre che di poteri, il suo relativismo e la sua posizione fragile verso il «reale», ha prodotto la frammentazione della cultura sociale in un arcipelago in cui non trovano posto né la verità né l’oggettività.
Il secondo fenomeno è costituito dalla crisi delle grandi narrazioni, ovvero dei grandi sistemi ideologici e di pensiero attraverso cui le persone interpretavano se stesse, la loro vita e il mondo facendo riferimento ad un punto di vista a loro esterno.
Il terzo fenomeno è costituito dalla perdita della capacità delle persone di interpretare il fluire del tempo lungo l’asse lineare della storia e, quindi, di dare alla propria vita la coerenza e l’unitarietà di un progetto capace di dare un senso al frammento di tempo i cui confini sono la nascita e la morte, all’interno del frammento di tempo più grande i cui confini sono, invece, l’inizio e la fine della storia umana.
L’intreccio di questi tre fenomeni culturali nella vita delle persone ha prodotto in gran parte la deriva del soggettivismo e la conseguente chiusura delle stesse persone in quell’orizzonte di senso costituito principalmente dai bisogni personali, dalle argomentazioni del desiderio, dai sentimenti, espressi o non, e dai sistemi simbolici interiorizzati.
Questa chiusura si attenua in micro-aperture disegnate dalla relazionalità primaria con le persone con cui si condivide, in un clima di solidarietà affettiva, il piccolo mondo vitale quotidiano.
Anche se spesso, in questi casi, più che di vere aperture si tratta di una reciproca accettazione, da parte delle persone in relazione, della propria soggettività.
 
 
segni della soggettivizzazione nel mondo giovanile
 
Il processo di soggettivizzazione che i giovani vivono e che è figlio dei fenomeni culturali della sur-modernità, di cui si è ora brevissimamente accennato, si manifesta in vari aspetti della loro condizione esistenziale.
I principali di questi aspetti sono rintracciabili nel relativismo etico, nella aprogettualità e nella prigionia del presente che si esprime anche nella reversibilità delle scelte, nella frammentazione dell’identità, nel loro abitare i non luoghi e in alcuni caratteri della loro esperienza religiosa.
 
 
Il relativismo etico
 
Anche se la credenza che mediamente i giovani oggi non abbiano valori è alquanto diffusa, essa è però falsa. Infatti quando si indaga sulla presenza dei valori nel mondo giovanile si ha la sorpresa di scoprire che la maggioranza dei giovani condivide molti di quei valori che il mondo adulto ritiene importanti per la realizzazione di una condizione umana evoluta e matura.
I problemi inerenti i valori dei giovani non sono perciò legati alla loro assenza, ma piuttosto al prevalere nella loro gerarchizzazione della dimensione personale e soggettiva.
Infatti i sistemi di valore che i giovani hanno interiorizzato vedono nelle posizioni centrali quei valori che sono funzionali alla realizzazione personale e alla relazionalità all’interno del mondo vitale quotidiano che essi abitano.
Non è un caso perciò che le ricerche mettano in evidenza che le tre cose più importanti per la maggioranza dei giovani oggi siano la famiglia, l’amore e l’amicizia.
Quella relazionale è indubbiamente la dimensione esistenziale centrale nell’orizzonte di senso della maggioranza dei giovani italiani come lo è, quasi certamente, per gli adulti.
La chiusura dell’orizzonte esistenziale di molti giovani nella dimensione della relazionalità primaria è anche sottolineata dall’importanza, assolutamente straordinaria, che il gruppo dei pari ha nella vita quotidiana dei giovani.
Questa importanza la si ha anche purtroppo in negativo, in quanto in alcuni casi il gruppo primario assume la funzione di stimolatore e facilitatore dei comportamenti trasgressivi e devianti.
Comunque il gruppo dei pari assume una sua rilevanza particolare non tanto per le attività che offre o le discussioni che consente, ma solo per le relazioni il cui scopo è quello di rassicurare ogni membro sul fatto di esistere e di essere accettato e riconosciuto dagli altri membri del gruppo: il gruppo dei pari dunque come luogo della relazione per la relazione.
L’importanza della dimensione relazionale è testimoniata poi anche dal fatto che nel rapporto amoroso di coppia ciò che viene ritenuto più importante dai giovani è il rispetto, la comprensione, la fedeltà e la capacità di comunicare. Si noti che l’intesa sessuale è ritenuta meno importante di questi aspetti relazionali immateriali.
Questa centralità dei valori legati al loro mondo vitale quotidiano i giovani la esprimono normalmente anche in un modo di vivere la responsabilità etica che, di fatto, è la negazione dell’esistenza di norme a carattere universale o comunque esterne al sentire del soggetto.
Infatti vi è solo una minoranza di giovani che accetta come fondamento del proprio agire un codice etico, religioso o laico, esterno alla loro esperienza personale.
Una parte consistente dei giovani, specialmente nel periodo dell’adolescenza, tende invece a porre come fondamento dell’agire etico o i propri bisogni e desideri, oppure la rivendicazione della centralità della propria coscienza.
Questa rivendicazione di libertà soggettiva nell’agire etico si manifesta soprattutto nella sfera della sessualità.
Infine vi è un’altra parte dei giovani, specialmente tra coloro che sono usciti dall’adolescenza, che riconosce come fondamento dell’agire etico una relazione dialogica tra la scoperta della propria finitudine e del proprio limite personale con quella della responsabilità verso l’altro con cui si ha una relazione primaria, verso la sua dignità, la sua libertà e i suoi diritti.
Questa parte dei giovani rivela la maturazione di una concezione di alterità che, pur essendo sempre di breve raggio relazionale, può favorire la scoperta di un fondamento etico più solido, ma che tuttavia non riesce ancora a farli uscire dalla gabbia dorata del mondo vitale quotidiano e dalle spire del relativismo.
Relativismo che, come accennato, è nella attuale cultura sociale della surmodernità uno dei prodotti del policentrismo, e che fa sì che per una gran parte di persone, giovani in particolare, sia spesso impossibile acquisire la certezza che i valori che gli sono proposti o che ha già scelto come fondamento del proprio agire siano veri, importanti e giusti, perché essi formano solo uno dei tanti sistemi valoriali presenti con pari dignità nella vita sociale.
Il relativismo prodotto dal policentrismo non si ferma a questo effetto ma va ben oltre, frammentando il tessuto culturale della società in un puzzle in cui ogni tessera pretende di contenere il disegno del tutto. In modo meno ermetico si può dire che il giovane nel corso del suo quotidiano vivere sperimenta luoghi differenti che sovente gli offrono valori, modelli di vita, codici e norme assai diversi tra di loro quando non addirittura antagonisti. Il passaggio quotidiano del giovane dalla famiglia alla scuola, al lavoro, al gruppo dei pari, alle associazioni, alle polisportive e ai mass media è l’esperienza di un cammino in una realtà sociale disomogenea e frammentata che lo invita a vivere in modo pragmatico e aprogettuale, e ad evitare scelte coerenti se vuole poter usufruire di tutte le promesse che ogni luogo che attraversa gli fa.
La centratura delle scelte etiche alla sfera della propria coscienza e delle relazioni di mondo vitale in questo quadro sociale è non solo congruente al relativismo etico presente nella cultura sociale, ma è anche un modo che consente al giovane di godere delle opportunità di appagamento dei suoi desideri e bisogni che la realtà sociale gli offre.
 
 
L’aprogettualità e la prigionia del presente
 
Uno degli effetti della radicale trasformazione della temporalità che è attualmente in corso nella cultura sociale sul percorso di crescita umana e personale dei giovani è visibile in particolare dal loro porsi in modo incerto, e a volte angoscioso, nei confronti del futuro, dalla debolezza delle loro radici nella memoria culturale, dal come vivano debolmente, nella maggioranza dei casi, le relazioni intergenerazionali con gli adulti, dalla sperimentazione, molto diffusa, dell’assenza dei padri dalla funzione di trasmissione dei valori e delle norme che costituiscono il canone culturale e dal come, al contrario, essi vivano in modo fortemente significativo la relazionalità con i pari età nel loro percorso di crescita personale.
Questa trasformazione della temporalità è prodotta dall’indebolimento dell’asse storico verticale del tempo e dal contemporaneo straordinario rafforzamento dell’asse orizzontale dello stesso tempo. Quest’ultimo asse, detto anche del tempo sociale, è quello su cui si declina il coordinamento nel presente dell’agire sociale degli individui e si esprime per mezzo delle relazioni comunicative che connettono gli individui e che formano quelle che, solitamente, vengono definite come le reti sociali.
Le moderne tecnologie della comunicazione e della telematica (computer, tv satellitare, fax, modem, telefoni cellulari, ecc.) stanno creando delle reti di comunicazione che in tempi sempre pi√π ravvicinati consentono agli individui di entrare in relazione tra di loro anche se sono fisicamente dislocati in luoghi molto lontani tra di loro. Internet e la posta elettronica sono un buon esempio di questa rete.
Allo stesso modo la tv via satellite, e prossimamente via cavo, consente alle persone di partecipare come spettatori in tempo reale ad avvenimenti che accadono in luoghi remoti.
Mentre questa rivoluzione tecnologica e culturale interrela sempre di più le persone all’interno di uno spazio sociale sempre più grande, accade che le stesse persone tendano a perdere, o perlomeno a indebolire, le loro relazioni comunicative con gli esseri umani che hanno abitato prima e che abiteranno dopo di loro lo spazio e il tempo. In altre parole le persone tendono a perdere «memoria», intesa anche come la capacità di percepire la loro vita quale figlia e madre di una storia, ovvero il legame di responsabilità che le lega alle generazioni precedenti e a quelle future.
Ma non solo. In questa trasformazione della temporalità le generazioni tendono sempre di più ad isolarsi all’interno del loro segmento temporale indebolendo il legame della solidarietà intergenerazionale nel presente. La contemporanea indifferenza del mondo degli adulti per quello degli anziani e dei giovani non è che un segno di questa trasformazione.
Trasformazione che oltre a investire i rapporti temporali delle persone con quelle delle altre generazioni che le hanno precedute e che le seguiranno, riguarda anche il loro attuale tempo di vita e si manifesta nell’incapacità di percepire la propria esistenza come una storia dotata di senso. Vita in cui solo il tempo presente sembra avere un valore e un senso e che, quindi, appare più come un susseguirsi di presenti che come un racconto dotato di un inizio e di una fine legati da un intreccio che ne svela il significato.
L’identità debole e frammentata, l’impossibilità di pensare alla propria vita come un progetto seppur aperto, l’incoerenza con i suoi corollari del pragmatismo e dell’opportunismo, l’angoscia vestita di depressione o di fuga nell’evasione della ricerca di gratificazioni attraverso il consumo ossessivo che sembra segnare la vita di molti giovani, affondano le loro radici in questa crisi del tempo della storia, detto dagli studiosi della temporalità umana «tempo noetico».
I giovani emergendo alla vita si sono trovati immersi in questa nuova temporalità costruita dall’ipertrofia delle relazioni orizzontali e dall’ipotrofia di quelle verticali.
E questo è, comunque, il loro tempo in cui debbono, volenti o nolenti, costruire la loro vita.
Tuttavia questa trasformazione non è ancora compiuta ed esistono alcuni spiragli che indicano che il nuovo tempo della vita può essere diverso da quello che i segni di questa cultura sociale lasciano presagire.
Uno di questi spiragli è costituito dal rapporto dei giovani con l’evento della morte, che è uno degli elementi costitutivi del tempo noetico. Infatti, come sostiene Fraser,[1] uno dei più profondi studiosi del tempo, il tempo degli esseri umani è caratterizzato dal fatto che essi «sono capaci di comprendere il mondo nei termini di un futuro e di un passato distanti, e non solo nei termini delle impressioni sensoriali del presente»,[2] e che le loro azioni nel presente sono influenzate dalla consapevolezza della morte, che appare come «un ingrediente essenziale del tempo dell’uomo maturo, i cui orizzonti si estendono senza limiti nel futuro e nel passato».[3]
Ora le storie di vita degli adolescenti e dei giovani raccolte nella ricerca sull’esperienza religiosa dimostrano come molti di essi non abbiano rimosso dal loro orizzonte esistenziale, come invece spesso hanno fatto gli adulti, l’evento della morte.
Questa mancata rimozione della morte da parte dei giovani indica che il discorso sulla possibilità di costruire un nuovo modo di vivere il tempo, che pur accentuandone l’estensione orizzontale non ne vanifichi quella verticale, è ancora aperto. Questa apertura sfida la responsabilità educativa degli adulti e della loro capacità di dare anima e vita, accogliendo con fiducia e amore la costruzione di sé di ogni giovane con cui entrano in relazione.
Tuttavia per ora questo rimane un semplice spiraglio su cui agire educativamente perché nella realtà attuale i giovani non vivono il tempo noetico e, quindi, la loro vita si declina in un susseguirsi di presenti che riescono solo debolmente ad assumere il volto di una storia dotata di senso e di coerenza.
Questo ha comportato e comporta una profonda crisi della progettualità, ovvero della capacità del giovane di vivere il presente in coerenza con il suo passato personale e storico-culturale e, soprattutto, con il suo sogno di futuro.
Questo comporta il fatto che il giovane viva la sua vita in una sorta di frammentazione centrata sul presente, in cui le scelte sono prodotte dalla utilità e dai sistemi di valore delle situazioni in cui è inserito invece che dall’esigenza di unitarietà e coerenza di un progetto esistenziale. A questo modo di vivere che può essere definito come aprogettuale, che tra l’altro è tipico della complessità sociale della surmodernità, appartiene anche la tendenza, rilevata da ricerche recenti, da parte dei giovani di vivere le scelte come reversibili, tra cui anche quelle legate a comportamenti rischiosi o distruttivi.
 
 
La reversibilità delle scelte e il rischio
 
La categoria dell’aprogettualità e della perdita del senso della vita come storia disegnata dal passato e proiettata verso il futuro attraverso il presente, trova una conferma indiretta anche in alcuni dati inquietanti che emergono dall’ultima inchiesta dello IARD.
Questi dati sono quelli che riguardano la propensione al rischio e il consumo di droga e di alcool.
Infatti una quota molto consistente di giovani dichiara di essersi assunto dei rischi nel presente che potevano avere dei riflessi negativi sulla loro vita futura. Rischi che vanno da quelli relativi alla salute a quelli inerenti la guida dell’auto o della moto in stato di ubriachezza.
C’è da notare che l’assunzione dei rischi da parte dei giovani avviene all’interno di una cultura sociale fortemente segnata dalla competitività che dà un valore positivo al rischio come fattore di successo e di realizzazione personale.
Tuttavia la spiegazione della propensione dei giovani al rischio non può essere ridotta solo a questo fattore culturale, perché nell’attuale cultura sociale, forse a causa della perdita del senso lineare e monodirezionale del tempo della storia di cui si parlava prima, c’è la presenza della concezione che il tempo è reversibile. Questa concezione si manifesta nel fatto che molti giovani ritengono che da ogni loro scelta, per impegnativa o rischiosa che sia, si può sempre, o quasi, tornare indietro e ripartire in un’altra direzione.
Se questo dato, da un lato, è positivo perché indica la presenza di quella flessibilità necessaria all’abitare una società complessa, dall’altro lato è negativo perché indica la presenza nei giovani di un atteggiamento aprogettuale nei confronti della costruzione della loro vita.
Atteggiamento aprogettuale che, tra l’altro, consente ai giovani che lo vivono di non negarsi nulla, anche di ciò che è ritenuto trasgressivo, perché tanto si tratta di una scelta da cui ritengono sia possibile tornare indietro.
Purtroppo, invece, in molte situazioni esistenziali la reversibilità è solo parziale e relativa o, perlomeno, molto difficile. È questo il caso, ad esempio, del consumo di sostanze stupefacenti o psicotrope che vede molti giovani imprigionati nella distruttività della dipendenza e che vi erano entrati con l’illusione di poterne uscire quando volevano. L’ideologia della reversibilità delle scelte è perciò da considerarsi molto pericolosa, vista la forte esposizione che i giovani in questa fase storica hanno all’abuso dell’alcool e delle droghe e la maturazione in una quota significativa di essi della concezione dell’ammissibilità del consumo di droghe cosiddette leggere che, molto spesso, non sono affatto leggere o che comunque svolgono la funzione di iniziazione al consumo di droghe pesanti.
 
 
La frammentazione dell’identità
 
Questo concetto indica un’esperienza del vissuto personale da parte dei giovani divisa in tanti frammenti, tra loro isolati, che non riescono a dar vita ad una esperienza esistenziale unitaria. In conseguenza di questo ogni esperienza che il giovane vive assume un significato relativo che si esaurisce all’interno dell’esperienza stessa, non riuscendo a collegarsi alle altre esperienze esistenziali e quindi ad un senso più generale. Questo comporta, tra l’altro, una forte difficoltà da parte del giovane a dare coerenza ai suoi atteggiamenti e comportamenti che manifesta lungo l’asse del suo tempo quotidiano.
Questa difficoltà crea una sorta di labirinto della complessità sociale che per poter essere percorso senza troppi problemi e frustrazioni richiede al giovane di non avere una identità stabile, coerente e unitaria. Il modello di identità necessario a navigare nella complessità della modernità è, infatti, quello di una identità frammentata, composita, in continua evoluzione, ambivalente, contraddittoria e mai compiutamente raggiunta.
Questo tipo di identità è teorizzato sia a livello filosofico che sociologico e continuamente riproposto dalla comunicazione di massa al giovane.
Nel rapporto poi con la realtà esterna si tenta di accreditare, in coerenza con questo concetto di identità debole, l’impossibilità di comprendere e di dominare efficacemente la realtà. L’unico modo possibile per l’abitante delle società complesse di porsi nei confronti della realtà è quello di chi tace e, se formula una domanda, non pretende risposta.
 
 
L’abitare i non luoghi
 
Nelle culture sociali precedenti a quelle attuali l’universo sociale era articolato in una molteplicità di luoghi distinti che richiedevano alle persone di mettere in atto all’interno di essi dei comportamenti particolari.
Questo avveniva perché, di fatto, il luogo era il fondamento di quella che può essere definita una situazione sociale, in quanto questa era considerata nient’altro che un determinato comportamento in un particolare luogo fisico.
La separazione delle situazioni era prodotta dal fatto che i luoghi erano portatori di una identità particolare e di richieste alle persone della messa in atto di comportamenti differenziati al loro interno. Occorre infatti tenere presente che un luogo antropologico è identitario, relazionale e storico. Questo significa che il luogo, oltre a fondare l’identità storico culturale delle persone che lo abitano, offre alle stesse un insieme di possibilità, interdetti e prescrizioni che regolano le loro relazioni mentre le colloca all’interno di una storia.[4]
La comunicazione di massa elettronica, spingendo dal punto di vista informativo i cittadini verso un unico luogo, ha rotto questo tradizionale legame tra luogo e situazione sociale, e li ha condotti a confondere di conseguenza le identità connesse ai vari luoghi.
Questo ha consentito alle persone che abitano i singoli luoghi di sfuggire alle richieste comportamentali delle particolari situazioni sociali che essi contengono e, nello stesso tempo, ha consentito agli estranei di invadere i luoghi senza neppure entrarci.
Il risultato di tutto questo è l’omogeneizzazione dei luoghi dal punto di vista comportamentale. La perdita di sacralità di molti luoghi come quelli della chiesa o, ad un livello diverso, della scuola e l’evaporazione del connesso rigore comportamentale che al loro interno era richiesto, sono in molte realtà urbane il segno di questa omogeneizzazione spazio-temporale che produce i non luoghi. Il non luogo è uno spazio che non può definirsi né come identitario, né come relazionale, né come storico ed è quello che in misura ragguardevole sperimentiamo quando viaggiamo in autostrada, quando acquistiamo una bevanda al distributore automatico o preleviamo denaro al bancomat, quando facciamo la spesa al supermercato o stiamo aspettando all’aeroporto un volo.
Questi citati, insieme ad altri, sono i non luoghi reali della surmodernità.
 Lo spazio che il giovane abita è in gran parte costituito da non luoghi: esso non gli offre alcuna identità e non gli pone particolari richieste situazionali, ma solo prescrizioni astratte e impersonali, che non sono in grado di connetterlo ad uno spazio oggettivo e lo lasciano in balia della sua soggettività e di quelle a lui più prossime.
 
 
nell’esperienza religiosa dei giovani
 
Sia le ricerche quantitative sia quelle fondate sulle storie di vita [5] indicano che per una buona parte dei giovani, in più della metà di quelli che dichiarano di credere in Dio, la credenza in Dio rimane circoscritta alla sfera personale, privata e non conduce a forme di pratica religiosa condivise con altri.
Il rapporto personale, non condiviso con altri, disegna una religiosità tutta centrata sulla percezione dei propri vissuti come unico fondamento veritativo della propria esperienza religiosa.
Coerentemente con questa concezione religiosa i giovani che la vivono esprimono una immagine di Dio percepito come un amico, che comprende ed è vicino nei momenti di difficoltà.
Infatti per molti di essi la presenza divina è vissuta come una risposta ai loro bisogni interiori di sicurezza e di pienezza di sé.
Questo fa nascere il sospetto che Dio in alcuni casi possa essere confuso da alcuni giovani con i propri processi psichici. Questa ipotesi è, tra l’altro, in continuità con la constatazione della difficoltà da parte di molti giovani di percepire l’alterità di Dio.
Questa immagine indica, perciò, oltre che la fiducia e l’affidamento alla bontà di Dio da parte di questi giovani, anche la presenza in essi di una sorta di soggettivizzazione dell’immagine di Dio, prodotta dal loro bisogno di rassicurazione e dall’attenuazione, nella coscienza della maggioranza di essi, della percezione delle conseguenze della libertà che Dio dona all’uomo.
Libertà che richiede che l’uomo sappia assumersi la responsabilità intorno alle conseguenze delle proprie azioni. Se da un lato, quindi, questa immagine è oltremodo positiva, protettiva, rassicurante e vicina, dall’altro essa rivela, come già detto, la difficoltà da parte di questi giovani di percepire Dio come Totalmente Altro e, al contrario, la loro tendenza a ritagliarsi una immagine di Dio secondo le prospettive molto umane dei loro bisogni e dei loro desideri. Tra questi bisogni quelli prevalenti sembrano essere quelli della protezione e del perdono. Si potrebbe forse collegare questa immagine di Dio da parte dei giovani con l’esperienza della maternalizzazione dell’educazione.
Non è un caso che il rapporto prevalente con Dio, concepito in questo modo, sia quello di un rapporto personale, di dialogo che avviene nel segreto della propria camera o di altri luoghi che assicurano il carattere duale del rapporto.
Sempre a conferma della dimensione fortemente soggettiva dell’esperienza religiosa vi è la constatazione che per molti giovani la presenza di Dio è sentita come la risposta ad una loro invocazione. Tuttavia molto spesso questa risposta è vissuta dal giovane unicamente all’interno della propria soggettività con tutte le deformazioni che spesso questa percezione produce, tra cui, come già detto, la confusione di Dio con i propri processi psichici o perlomeno la sua sovrapposizione con essi.
Vi è poi, preoccupante, la constatazione che un numero consistente di giovani non colloca, almeno esplicitamente, Gesù all’interno della propria esperienza della presenza di Dio. Infatti in alcuni casi è presente solo il Dio di Gesù, mentre in altri è presente un dio astratto o rassicurante che assomiglia di più al dio dei filosofi o degli psicoanalisti che al Dio ebraico e cristiano.
La tendenza alla soggettivizzazione della presenza di Dio è confermata anche dal rapporto dei giovani con la Parola rivelata attraverso le scritture. Non è infatti casuale che il rapporto con le scritture riguardi solo una esigua minoranza di giovani. Così come appare rilevante la constatazione che vi sono molti praticanti che non leggono mai né il nuovo né l’antico testamento e che l’unico rapporto che hanno con le Scritture è legato ai testi delle Scritture presenti nella celebrazione eucaristica domenicale. Per i non praticanti poi il rapporto con le Scritture è del tutto insignificante.
 
 
Conclusione
 
Questa esplorazione, un po’ frettolosa, all’interno della soggettivizzazione giovanile ha posto in luce chiaramente due fatti.
Il primo è che essa è figlia del suo tempo, ovvero che la soggettivizzazione è il prodotto della cultura elaborata dagli adulti e che con un’espressione breve è stata definita come surmodernità.
Il secondo è che la vera sfida educativa non risiede tanto nel soggettivismo giovanile, quanto nei segni attraverso cui ne è stata svelata la presenza nella vita dei giovani. Segni che possono essere assunti come gli indicatori delle strade che il lavoro educativo deve seguire per sottrarre il giovane dai rischi della palude del soggettivismo.
Lavorare sulle strade dell’alterità per ridurre il relativismo etico, sulla memoria e sulla storia per sottrarre il giovane alla aprogettualità e alla prigionia del presente, sull’identità fondata sulla ri-creazione dei luoghi antropologici e, infine, sull’incontro dei giovani con il volto di Gesù attraverso un annuncio che faccia loro sperimentare che Egli li ama e ama la loro vita.
Questo lavoro educativo e pastorale è la condizione perché i giovani facciano della surmodernità un luogo umano e non un inferno cyberpunk.
 
 
 Articolo tratto da: NOTE DI PASTORALE GIOVANILE. Proposte per la maturazione umana e cristiana dei ragazzi e dei giovani, a cura del Centro Salesiano Pastorale Giovanile - Roma.
[1] Fraser J.T., Il tempo: una presenza sconosciuta, Feltrinelli, Milano 1993.
[2] Fraser J.T., op.cit., p. 17.
[3] Fraser J.T., op.cit., p. 22.
[4] Augè M., Non luoghi, Elèuthera, Milano 1993.
[5] Pollo M. L’esperienza religiosa dei giovani, voll. I e II, Elle Di Ci, Leumann 1996.
Mario Pollo
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