LA STANZA DEL FIGLIO

La cosa che più impressiona è la rappresentazione della quotidianità, vista nella naturalezza dei piccoli avvenimenti, dei tic privati, delle complicità familiari, nel fluire calmo dei ritmi casalinghi (quanti risvegli, quante colazioni, quanti pranzi si vedono nel film), ma poi anche nella sua spaventosa, irrimediabile fragilità...

LA STANZA DEL FIGLIO

da Quaderni Cannibali

del 28 novembre 2005

 

Regia: Nanni Moretti

Interpreti: Nanni Moretti, Laura Morante, Giuseppe Sanfelice, Jasmine Trinca

Origine: Italia 2001

Durata: 99’

 

Una famiglia, oggi: Giovanni il padre, psicoanalista; Paola, la madre, impiegata in una casa editrice; i due figli adolescenti Andrea, 17 anni, Irene, 14. Giovanni é molto legato ad Andrea e cerca di creare frequenti occasioni per stare il più possibile con lui. Quando dal laboratorio della scuola scompare un fossile, Andrea é tra gli studenti sospettati, ma si proclama innocente e il padre gli crede. Giovanni osserva il figlio giocare a tennis con poca grinta e lo esorta ad essere un po’ più cattivo, a giocare per vincere. In un momento in cui sono soli, Andrea rivela alla madre di aver in effetti preso con altri compagni il fossile, che poi si é rotto: ma tutto era stato un gioco. È domenica mattina. Giovanni ha appena convinto il figlio ad andare a correre insieme, quando arriva una telefonata. Oscar, uno dei suoi pazienti, dice che ha urgente bisogno di vederlo e lo prega di raggiungerlo a casa. Giovanni si fa convincere, liberando così il figlio dall’impegno. Quando nel pomeriggio torna a casa, vede confusione sulla strada e volti angosciati che lo guardano. Arriva la verità: uscito in mare per le consuete immersioni da appassionato subacqueo, Andrea ha avuto un incidente e, colto da embolia, ha perso la vita. Giovanni e Paola cercano di recuperare un po’ di equilibrio ma il dolore è troppo forte e prevarica ogni altra loro azione. Le crisi di pianto intervengono a ricordare la realtà della situazione e a creare tra i coniugi e verso Irene momenti di grande attrito. Un giorno arriva una lettera indirizzata ad Andrea da una coetanea conosciuta in campeggio. La ragazza, Arianna, gli dice di averlo trovato molto simpatico e di essere stata molto bene con lui. Paola telefona ad Arianna e le chiede un incontro. Giovanni capisce che non può più proseguire il lavoro e a poco a poco congeda i pazienti. I due vivono in stanze separate. Arriva Arianna e, dopo altri attimi di commozione, al momento del congedo dice che lei e il suo fidanzatino sono in viaggio in autostop verso la Francia. Giovanni, Paola e Irene decidono di accompagnarli per un pezzo di strada.

 

 

Hanno detto del film

La cosa che più impressiona è la rappresentazione della quotidianità, vista nella naturalezza dei piccoli avvenimenti, dei tic privati, delle complicità familiari, nel fluire calmo dei ritmi casalinghi (quanti risvegli, quante colazioni, quanti pranzi si vedono nel film), ma poi anche nella sua spaventosa, irrimediabile fragilità. Una calma piatta, quasi sonnambolica, vissuta sull’orlo del precipizio e interrotta da un contraccolpo improvviso, dall’irruzione di un dolore personale e insieme metafisico, da un evento come la morte che tutto sconvolge e mette in discussione.La quotidianità diventa allora uno spazio vuoto da riempire, la normalità ingiustificabile, la bella casa piena di libri non offre più nessuna pace, le crepe (anche quella di una tazzina) cominciano ad essere insopportabili, e pure il lavoro appare inutile, addirittura dannoso, per sé e per gli altri.

                                                                                                   (Piero Spila, www.sncci.it)

 

Se prendiamo, in un raptus di delirio esegetico, la locandina del film e la sua composizione, vediamo a sinistra il figlio, vestito di rosso e sguardo in macchina, a destra il padre, vestito di blu e sguardo sfuggente, verso l’alto. Rosso, passione, franchezza nello sguardo, sono riversati sul figlio, oggetto d’amore.

                                                                        (Andrea Marzulli - www.cinemastudio.com)

 

Una vicenda oggetto di decine di film, narrata da Moretti con grande coraggio e realismo, senza mai scivolare nel patetico, raggiungendo anzi vertici di drammatica crudeltà; sembra che il regista ci voglia dire non solo che al dolore non si può sfuggire, ma che l’unica cosa giusta da fare in questi casi sia lasciare che ci avvolga e ci annienti. E allora seguiamo questa famiglia nelle tappe che ognuno di noi ha percorso quando ha perso una persona cara: l’annuncio, i riti dolorosi ma inevitabili (bellissima la sequenza della chiusura della bara di Andrea, la fiamma ossidrica, le viti che a una ad una senza pietà chiudono per sempre un capitolo della vita di tutti), il ritorno ad una “normalità” che di normale non ha proprio nulla...

                                                                                                                (www.cinefile.biz)

 

Semplice, commovente e bello, il film racconta l’irrompere del dolore in una famiglia che vive serena in una piccola città. La morte del figlio in un incidente, la sofferenza che accompagna quella scomparsa e assenza, non unisce i famigliari ma li separa nella solitudine.

                                                                     (Lietta Tornabuoni - La Stampa, 09/03/2001)

 

Per quanto scaviamo nella memoria, non riusciamo a trovare un film che racconti l’elaborazione di un lutto con una densità paragonabile a “La stanza del figlio”. La stessa struttura drammaturgica è articolata in due parti distinte e reciprocamente necessarie: la prima ci mostra la quotidianità di una vita familiare forse non perfetta, ma unita, piena di calore e di progetti; dopo la cesura della morte di Andrea, i superstiti scivolano nella dimensione del nonsenso, prostrati da un evento tanto più atroce nella sua ingiustificabile «normalità».

                                                                     (Roberto Nepoti - la Repubblica 10/03/2001)

 

Nel suo film di gran lunga più profondo e maturo, Moretti assume con coraggio il rischio d’illuminare un luogo buio dell’anima, nel quale ogni esperienza perde se stessa. La morte d’un figlio è il modo più atroce di conoscere la morte: allo stesso tempo morti e vivi, morti nel figlio e assurdamente vivi in se stessi. Che cosa più contano immediatezza, trasparenza morale, tranquilla felicità interiore, nel vuoto e nell’assenza lasciati dalla morte d’un figlio? L’artificiosità, pur grande, dell’immagine che ci si è costruiti di sé, si mostra di colpo fragile, corrotta segretamente “aggiustata”, e se ne va in frantumi come gli oggetti di casa che Giovanni non sopporta più d’avere attorno.

                                                                      (Roberto Escobar, IlSole24 Ore 18/03/2001)

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