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La storia della Chiesa lo insegna: mai confondere l'involucro con la perla

Perché ricordare queste cose? Ma perché la serenità di Benedetto XVI nasce dalla consapevolezza che, sin dagli esordi ‚Äì proprio alla Pentecoste - l'istituzione ecclesiale è stata di rado all'altezza dell'ideale. L'imperfezione è la norma, ovunque ci siano uomini.


La storia della Chiesa lo insegna: mai confondere l'involucro con la perla

da Attualità

del 29 maggio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

          E’ il riflesso condizionato della professione. Comprensibile, forse doveroso, ma che talvolta pare un po’ abusivo. Parlo del setaccio cui i giornali sottopongono i testi papali per trovarvi qualche allusione agli eventi dell’attualità ecclesiale. Al proposito, ho letto con attenzione il testo completo dell’omelia pronunciata da Benedetto XVI alla messa di Pentecoste. Dicono che l’abbia scritta tutta di suo pugno, a differenza di molte altre cose in cui si limita a rivedere quanto preparatogli secondo le sue istruzioni, orali o scritte. Vi ho trovato una pagina di alta spiritualità, un pressante appello non solo ai fedeli ma all’umanità intera a ritrovare comprensione e comunione, abbandonando tanti contrasti, risolti magari con la violenza. Anche il confronto tra Pentecoste, segno di unione, e Babele, segno di disunione, è un classico dell’arte omiletica. Vi fece ricorso pure il maestro inarrivabile del genere, il mitico Bossuet, predicatore alla corte del Re Sole. Ma – e se sarò smentito non me ne lagnerò – non mi è parso di trovarvi qualche aggancio all’attuale cronaca nera ecclesiale. E dico nera in modo intenzionale, perché mi sembra di ricordare che sia una delle pochissime volte, dalla fine del potere temporale, che si parla di qualcuno, per giunta un laico, rinchiuso dai “preti” in un loro carcere. Non sono le Segrete del palazzo del Sant’Uffizio, dove il cardinal Ratzinger ha lavorato per un quarto di secolo, ma, insomma, la cosa ha fatto impressione.

          La cella del cameriere personale, tra l’altro, ci ricorda una realtà spesso dimenticata: il Vaticano, nonostante lo scarso mezzo chilometro quadrato di superficie, è uno Stato tra gli Stati, siede all’Onu, ha una bandiera, un blasone, un inno, ha un quotidiano e una gazzetta ufficiale, ha ambasciate, polizia, forze armate, tribunali, una radio, una stazione ferroviaria. Ha anche la chiacchierata banca centrale; e, per l’appunto, ha una prigione. Importante, dico, non dimenticarlo, perché (come è stato osservato anche di recente) si continua a far confusione tra Città del Vaticano e Chiesa, mentre non sono la stessa cosa. Così, ad esempio, le questioni dello IOR o dell’Osservatore romano o delle ambasciate nel mondo, le nunziature, concernono lo Stato, non la Chiesa. Anche l’episodio clamoroso dell’arresto di questi giorni e la fuga di documenti che l’ha preceduta, non hanno alcuna rilevanza religiosa, riguardano la polizia e i magistrati vaticani, dunque lo Stato, non certo la Chiesa.

          Ma, per tornare all’omelia di ieri di Benedetto XVI. Probabilmente era stata scritta tempo fa ma, anche se la sua stesura fosse stata recentissima, era ben improbabile trovarvi cenni alla cronaca. Anche perché, lo ribadiamo, non si tratta di eventi che riguardino l’insegnamento di quel Custode della fede e della morale che è il successore di Pietro.

          L’occasione liturgica, poi, era quella della Pentecoste che, lo ha ricordato il Papa stesso, è come il “battesimo“ della Chiesa, nata pochi giorni prima, cioè dopo l’Ascensione al Cielo di Gesù. Il professor Ratzinger era, ed è, grande esperto di teologia dogmatica ed aveva –ed ha– un’ottima preparazione in esegesi biblica, come ha confermato anche nei due volumi sinora usciti sul Gesù storico. Non è specialista in storia ecclesiastica, ma è anche questa una disciplina in cui si muove con disinvoltura. Dunque, sa bene che è in gran parte abusivo quel mito della Chiesa primitiva, composta tutta di santi, coltivato anche oggi da chi contesta la Santa Sede attuale, invocando il ritorno alle origini. Il mito nasce da alcuni versetti degli Atti degli Apostoli che descrivono l’idillica comunità primitiva di Gerusalemme, dove tutti si amano e mettono ogni bene in comune. Purtroppo, durò poco, perché le comunità iniziali, composte da ebrei, si dilaniarono subito al loro interno tra “ellenisti“ e “giudaizzanti“, senza esclusione di colpi. Tanto che ci fu subito uno scisma, quello dei giudeo-cristiani. Le lettere di Paolo ci danno un quadro inaspettato e un po’ avvilente: le chiese, spesso da lui stesso fondate, dunque appena nate, non erano solo già divise sul piano dottrinale ma spesso non brillavano neppure per moralità e l’Apostolo deve rimproverare, esortare, stigmatizzare comportamenti peccaminosi.

          Facendo un salto temporale, non si dimentichi che in molte città dell’Africa settentrionale, dove il cristianesimo si era subito impiantato, furono spesso dei cristiani ad aprire le porte ai musulmani, acclamandoli al loro ingresso. Meglio loro, dicevano, dei bizantini che spadroneggiavano su quelle terre; e meglio anche delle continue lotte, assai spesso sanguinose, e della immoralità, delle infinite sette e fazioni che si affrontavano all’interno della Chiesa. Vengano dunque, gridavano i battezzati stanchi di quelle violenze, vengano i discepoli di Muhammad a mettere un po’ d’ordine tra quei sedicenti seguaci del vangelo e carichi invece di ogni peccato.

          Perché ricordare queste cose? Ma perché la serenità di Benedetto XVI nasce dalla consapevolezza che, sin dagli esordi – proprio alla Pentecoste - l’istituzione ecclesiale è stata di rado all’altezza dell’ideale. L'imperfezione è la norma, ovunque ci siano uomini. Qualcuno è giunto al punto di parlare di una sorta di sua apatia davanti ai recenti, gravi episodi che non toccano, certo, la teologia ma che feriscono la macchina istituzionale, con pericolo di scandalo per i fedeli e di perdita di credibilità dell'intero cattolicesimo. C'è addirittura chi, dicendo di parlare da amico del Papa e per il bene della Chiesa, si è augurato delle dimissioni che lo portino a riprendere, finalmente, la sua vocazione vera: quella dello studioso, ritirato in un eremo, solo con i suoi libri. Lasciando a qualcun altro, più attivo e attento alla vita concreta della Chiesa, la gestione delle cose. Ma questi amici di Joseph Ratzinger e della cui buona fede non vogliamo dubitare, non si rendono conto che, in questo modo, fanno proprio il gioco dei suoi antagonosti, se davvero lo vogliono indurre ad andarsene con vicende come la fuga dei documenti privati. Quanto all'apatia, chi ne parla ignora che Benedetto XVI non ama il clamore ma il lavoro paziente, meditato, rispettoso delle persone e che quanto ha fatto, e fa, sfugge spesso ai media ma non è affatto irrilevante. E presto, si dice, se ne avrà una prova che sorprenderà chi lo accusa di distanza dai fatti.

          Resta comunque il fatto che un teologo come lui è del tutto consapevole che la Chiesa è stata, è, e sarà sempre, come dicevano i Padri, “immaculata ex maculatis“: senza macchia nel suo Mistero, che è Cristo stesso, e troppo spesso sudicia nel suo involucro istituzionale, composto da uomini che i sacramenti non hanno reso tutti santi. Sa bene, il Papa, che la Persona della Chiesa non va confusa con il suo personale. Addolorato, certo e lo ha detto senza esitare davanti alla pederastia di troppo clero e davanti ad altri fatti penosi. Ma è un dolore che non scalfisce in alcun modo la sua convinzione che, per quanto facciano gli uomini di Chiesa, per quanto pecchino gli uomini dell’istituzione, mai riusciranno a scalfire ciò che conta. La fede, cioè, nell’Innocente per antonomasia che proprio il giorno di Pentecoste ha iniziato la sua marcia missionaria nel mondo intero. Ciò che conta, ha detto una volta, è la perla, non lo sgraziato involucro.

Vittorio Messori

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