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La vita come una partita. Non però una partitina

Non si vive senza speranza di una vittoria. La vita la cerca sempre, per quanto confusamente. Una vittoria sul limite, una vittoria sulla morte. Non c'è male più grande che diffondere un'idea della vita dove non ci siano vittorie possibili...


La vita come una partita. Non però una partitina

da Quaderni Cannibali

del 12 luglio 2006

Dov’è la vittoria? Così dice l’inno che cantiamo. Così dicevano i volti dei nostri giocatori e di tutti noi che guardavamo. Dov’è la vittoria? Non c’è vita che non la speri. Che non la cerchi. Nella baraonda del dopo partita qual era il motivo dei caroselli, degli abbracci, delle urla? L’orgoglio patrio? Certo, e per fortuna. Ma quello viene dopo. Che cosa risveglia quell’amore, quella pietà ferita e pure orgogliosa d’essere italiani, concittadini di Michelangelo, oltre che di Gattuso, e di Dante, oltre che di Grosso?

Il senso della vittoria. La Nike (in greco, vittoria), che prima d’esser una marca di abbigliamento, è una bella statua, detta di Samotracia, e sta al Louvre. Ma che ieri notte è apparsa nel cielo d’Italia. E lei, statua senza volto, ha avuto i volti dei ragazzi che ci hanno fatto vincere, e poi per ognuno ha avuto il volto amato. Per Materazzi, ad esempio, goleador e matador di ex campioni modello, ha avuto il volto della madre a cui dopo il gol ha indirizzato una dedica al cielo, dove lui è sicuro che lei sia. Perché se così non fosse, che vittoria sarebbe. E lui infatti ha puntato le dita, certo che la vittoria è là nell’eternità in cui non ha perso sua madre.

La vittoria non può restare senza volto. Dov’è quel suo viso? Gli italiani la cercano, ogni uomo la cerca. Non si vive senza speranza di una vittoria. La vita la cerca sempre, per quanto confusamente. Una vittoria sul limite, una vittoria sulla morte. L’uomo è fatto così. Per questo non c’è male più grande che diffondere un’idea della vita dove non ci siano vittorie possibili. Una vita come una partita finta, truccata fin dall’inizio. Come dicono i nichilisti, o i dispensatori della loro propria disperazione. Come se la vittoria fosse solo apparente. Come se tutta la gioia dell’altra sera fosse solo un teatro dell’assurdo. Se la vita è tessuta di nulla, se in fondo non vale nulla, ci sono solo vittorie banali, senza vera ultima soddisfazione: vittorie d’un momento, già rese amare dalla gene rale, continua e definitiva sconfitta.

La vita è una partita. Lo dice la saggezza popolare. Ma molta della cultura dominante ha tradito questo senso elementare, semplice, e profondo. E ha ridotto la vita: non una grande partita, ma tante piccole partitine: puoi vincerne o perdere tante (che so: ti va bene il lavoro, e però perdi nell’amore, o viceversa). Invece la vita è una grande partita, è la nostra finale quotidiana. Per questo ogni vita è una partita che vale la pena d’esser giocata: sin dal suo concepimento, e fino all’ultimo atto in cui è vita. Nulla come il cristianesimo esalta la vita come grande, avventurosa partita. Ognuna degna d’esser giocata: quella del megapresidente come quella dell’ultimo sofferente. Poiché per ognuna c’è una vittoria possibile. La vittoria più grande. Che non è, si badi, un posto in paradiso. Certo, sperèm, come dicono a Milano. Ma è prima che la vittoria di una promozione futura: si tratta di una vittoria ora e qui. Il centuplo quaggiù.

Il cristianesimo appare per molti una cosa fuori moda, lontana. Poiché per molti non c’entra più con la partita della vita. Troppo spesso hanno fatto passare Gesù Cristo come se fosse l’arbitro, e un arbitro severo. Invece no, Lui è il premio, è il volto della vittoria. Nelle nostre chiese, nelle strade siamo pieni di effigi di uomini vittoriosi. No, non dico i Garibaldi e i monumenti equestri. È sorprendente vedere come i volti dei santi siano di vittoriosi. L’amicizia con Gesù, uno che è un Grande Mediano, e uno che si è sacrificato per la squadra, è la vittoria. Quella che sempre cerchiamo. E che non finisce domani.

Davide Rondoni

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