...questa sorta di slogan deve renderci coscienti della pazienza richiesta per una vera educazione alla fede, deve aiutare i ragazzi e i giovani a capire che l'attaccamento alle scelte, ai cammini, alle fatiche di ogni giorno è la preparazione di quel terreno su cui il Signore può accendere lo splendore della sua chiamata.
del 02 settembre 2005
Quale rapporto tra la pastorale ordinaria e la pastorale vocazionale?
La crisi delle vocazioni sta sotto gli occhi di tutti. Il tema, allora, deve alimentare la preghiera di tutti i credenti e la responsabilità di ogni cristiano, ma deve interrogare anche la coscienza di ogni uomo e donna. Senza una visione vocazionale della vita l'esistenza umana diventerà un caleidoscopio di esperienze, senza mai costruire una storia. La questione delle vocazioni non può essere solo un intervento lasciato agli specialisti (pastorale vocazionale), ma deve interrogare la coscienza e l'azione di tutta la Chiesa (pastorale ordinaria). Ecco la questione: che rapporto c'è tra la pastorale ordinaria e la pastorale vocazionale nel promuovere le vocazioni?
 
Due difficoltà attuali
Credo che l'accompagnamento personale delle vocazioni oggi vada incontro a due grandi difficoltà: la difficoltà di far intuire che la vocazione abbia un certo indice di interpretazione e di scelta; la difficoltà di far capire che la vocazione realizza la vocazione cristiana alla fede nel segno storico di una scelta 'tipica' di vita.
La prima difficoltà è quella riscontrabile in ogni direzione spirituale e in ogni accompagnamento pastorale. Dinanzi ad un tessuto sociale molto attento alle sensazioni personali e ai riscontri soggettivi di ogni esperienza è difficile mostrare che la vocazione non sia un evento fatale, un'emozione dominante, un'esperienza travolgente che si impone sulle altre, esonerando la persona da una paziente comprensione del proprio vissuto e dalle scelte conseguenti. È vero che la vocazione si presenta con le caratteristiche di un evento originario, di un appello irresistibile, di una dedizione radicale (e questo succede in ogni stagione della vita, anche da ragazzi!), ma quando essa viene analizzata, e soprattutto quando si stabilizza come scelta di vita, essa appare come la risposta che dà un volto specifico alle molte risposte che giorno per giorno abbiamo realizzato.
La vocazione come evento sintetico sembra accendersi improvvisamente, ma questa sua irruzione non è altro che la scoperta del carattere originario della risposta all'appello del Signore, che è il frutto, e non la semplice somma, delle molte disponibilità e risposte che abbiamo dato lungo il nostro cammino. Di qui la saggezza pastorale di curare tutta la vita cristiana dei ragazzi e dei giovani in prospettiva vocazionale. Non sto a descrivere le condizioni e il tracciato di una tale pastorale giovanile orientata vocazionalmente, dico solo che è giunto il momento - ed è questo - in cui si deve dire con forza: un'educazione alla fede senza respiro vocazionale non è neppure un'educazione alla fede; e un accompagnamento vocazionale si alimenta dall'inizio alla fine all'educazione del credente.
Questa sorta di slogan deve renderci coscienti della pazienza richiesta per una vera educazione alla fede, deve aiutare i ragazzi e i giovani a capire che l'attaccamento alle scelte, ai cammini, alle fatiche di ogni giorno è la preparazione di quel terreno su cui il Signore può accendere lo splendore della sua chiamata. Un compito importante sarà soprattutto quello di interpretare le incertezze, i dubbi, le sensazioni di indeterminatezza non come una carenza, una povertà, ma come le condizioni - una volta assunte come sfida e cimento - di una vocazione reale e realistica. A condizione, appunto, che le si determini e si cammini coraggiosamente. In altre parole si tratta di costruire una vocazione che non crolli sotto i colpi delle fatiche e della routine della vita adulta.L'accompagnamento del vissuto di ogni giorno consente di prendere in mano anche la seconda difficoltà, sulla quale si sedimentano anche molti influssi culturali. La vocazione ci dice la necessità di dover scegliere o, meglio, che si può realizzare il senso della vita (umana e cristiana) solo mediante una scelta particolare, solo entro una determinata costellazione simbolica. Qui lo smarrimento della coscienza giovanile tocca forse il suo abisso. E sorgono domande che paralizzano ogni slancio: posso io scegliere questa o quella vocazione, perdendo ciò che di bello e di promettente è contenuto nelle altre? E non c'è in questa mia scelta un margine di congettura personale, di cui potrò pentirmi domani? Non è forse meglio mantenermi aperte tutte le possibilità? Non è forse questa la vera libertà, la possibilità cioè di ripartire sempre da capo?
Queste domande, e molte altre simili, si affacciano alla mente di un giovane anche sinceramente cristiano. Conviene che noi le facciamo apertamente galleggiare nella coscienza di chi accostiamo. Si tratta di chiarirle con la riflessione e di sostenerle con l'esercizio della volontà e delle energie personali.
Con la riflessione per denunciare il carattere alienante di questa concezione della libertà. È libero veramente chi consegna tutto se stesso rispondendo ad una chiamata specifica, non chi si mantiene sempre le mani libere da ogni fatica, chi si riserva la possibilità di ricominciare da capo, sempre di nuovo, perché questi rimane sempre all'inizio. Si tratta di suggerire persuasivamente alla coscienza dei ragazzi e dei giovani questa figura della libertà, che è libera quando si consegna, quando si perde-per, quando arrischia non solo per un po' di tempo, ma si concentra attorno ad un progetto che dà volto a se stessi. Chi vuol rimanere libero da ogni rischio resterà sempre sulla linea di partenza, resterà un 'uomo senza qualità', che fa molte cose, ma a cui manca quell'unum necessarium che dà volto e figura ai suoi molti interessi. Più francamente bisognerebbe dire: un uomo senza 'personalità'.
Senza questa attenzione la pastorale giovanile non solo sarà carente di un momento - appunto quello vocazionale - che si pensa di poter proporre solo in situazioni particolarmente favorevoli, per così dire in seconda o in ultima battuta, ma sarà astratta, indeterminata, ripiegata sulle dinamiche di indecisione dei giovani. Senza attenzione vocazionale la pastorale giovanile è vuota, senza nerbo e inconcludente. Forse è per questo che essa manca della sua necessaria incidenza storica, perché presenta un'immagine di cristianesimo non praticata e praticabile. Di generici appelli si può vivere solo per un campo scuola, un campeggio, un ritiro spirituale, ma non per un'intera esistenza.
Si tratta di suggerirlo poi attraverso un esercizio personale e una molteplicità di figure e di esperienze che aprano agli spazi sconfinati delle vocazioni cristiane. Il ragazzo/adolescente/giovane si trova nella stessa condizione di chi fa zapping: questi salta da un canale all'altro, assaggia tutti i programmi, impara molti linguaggi, rimane affascinato e provocato da differenti immagini, ma vive un rapporto con la realtà fatto di spezzoni, di ritagli, di sperimentalismo. Egli non riesce mai a porsi nella condizione di aver seguito una storia unica con passione e partecipazione. Ha visto tutto, può intervenire su molto, ma non ha imparato nulla, se per imparare s'intende essere istruiti circa quel complesso di significati che decidono in modo sintetico della propria esistenza, cioè acquisire una 'sapienza della vita'. Così non solo ne fa le spese la prospettiva vocazionale, ma anche tutta quella trama di visioni, di conoscenze, di impegni, di servizi che costituiscono il terreno di coltura di una decisione definitiva. La vita non sa più rispondere alla 'vocazione' perché non vive quelle molteplici 'vocazioni' che sono disseminate sul tracciato dell'esistenza.
Avviene così che il ragazzo, e, rispettivamente, l'adolescente e il giovane, avanzi un alibi contro le scelte più definitive, con la scusa che esse non consentirebbero di vedere fino in fondo il cammino di fede e di vocazione. Forse coltiva anche qualche buona intenzione, è persino curiosamente interessato circa una prospettiva vocazionale, ma si sente che la domanda è come attratta in un buco nero. Detto in termini sbrigativi: se un giovane dai 14 ai 25/30 anni non ha mai fatto una seria esperienza di preghiera, di carità, di volontariato, di dedizione, di impegno nel tessuto concreto della storia, è difficile che la sua vita spirituale sia ricca e motivata. È inutile nasconderselo: la vita concreta esprime l'intensità del proprio cammino spirituale, ma anche, viceversa, un cammino spirituale s'invera in una vita ricca di dedizione.
 
La responsabilità della Chiesa
Ma c'è un secondo lato della questione: esso concerne l'immagine di Chiesa, che noi presentiamo mediante il discorso e la prassi sulle vocazioni. Non è pensabile un discorso sulle vocazioni senza una coraggiosa trasformazione dell'immagine di Chiesa. Anche qui faccio un appello per l'ora presente. È giunto il momento - ed è questo - di uscire dalla retorica dei carismi e dei ministeri per entrare in una corale visione e in una pratica coraggiosa della Chiesa come sinfonia delle vocazioni. Purtroppo questo è oggi anche inevitabile di fronte al clamoroso calo delle vocazioni di speciale consacrazione al ministero ordinato e alla vita consacrata: è un rito penitenziale quasi provvidenziale! Ma non bisogna fare per necessità ciò che si può e si deve promuovere per una scelta che corrisponde all'intima natura della Chiesa.
Riscoprire la figura e il volto di una Chiesa dei carismi e delle vocazioni, dei ministeri e delle missioni è forse maggiormente possibile oggi, quando abbiamo superato l'ubriacatura del discorso sulla partecipazione e sulla corresponsabilità. Ormai è divenuto chiaro che non si può risolvere la questione della promozione dei laici, della maturazione della loro coscienza ecclesiale, la riscoperta di nuove figure vocazionali mediante un generico appello alla partecipazione, soprattutto quando esso fa leva prevalentemente sui modi della partecipazione civile e democratica.
L'interesse alla missione della Chiesa non può nascere solo per contare di più, per trovare un ruolo nella comunità cristiana o per fare un po' di bene agli altri. Questa è condizione necessaria, ma assolutamente insufficiente a determinare la dedizione di un'esistenza intera.
Tutto ciò impone allora a coloro che guidano la comunità di avere una viva coscienza ecclesiale dell'importanza essenziale della pluralità delle vocazioni/carismi cristiani. Non bisogna aspettare che ciò sia imposto dalla necessità. Una comunità cristiana fisiologicamente sana deve prevedere una cura sinfonica delle vocazioni, deve rappresentarle il più possibile nel momento sacramentale e liturgico, deve far spazio ad una pluralità di figure vocazionali nel servizio fraterno e nella dedizione della carità. Il superamento del clericalismo (come a dire quella concezione che concentra nel ministero ordinato tutte le funzioni ecclesiali, o al massimo le delega) è questione di vita e di morte per le vocazioni. Questo sia detto per i sacerdoti.
Ma credo che bisogna superare anche una mentalità molto diffusa nel postconcilio, che si esprime nella ricerca spasmodica della specificità delle vocazioni. Quasi che si possa isolare un carattere specifico di una vocazione da contrapporre alle altre! La retorica della 'specificità', dell'originalità del carisma originario ha fatto molta strada in questi anni del postconcilio. Ognuno, come Diogene, era alla ricerca della propria specificità...
La ricerca della specificità, come di una caratteristica che altri non hanno, corrisponde ancora ad una teologia essenzialista, che deve ricercare l''essenza' di una cosa per comprenderne il 'che cos'è?'. E una realtà non può avere contemporaneamente più essenze. Ora, se il discorso delle vocazioni mette in luce la complementarità e la reciprocità delle vocazioni, nessuna vocazione può essere definita senza rapporto con le altre. Nell'unità di vocazione cristiana, le molte vocazioni personali operano una concentrazione simbolica dei due elementi essenziali della vocazione (della dedizione al Signore, in una comunità fraterna), connotandoli diversamente a partire da una data situazione storica e umana. Ma ogni costellazione 'tipica' non è mai alternativa all'altra, anzi contiene in misura diversa anche taluni elementi dell'altra. In parole più semplici ogni vocazione impara dalle altre ciò che manca a se stessa o, meglio, vede nell'altra la possibilità di concentrarsi sinteticamente attorno ad un elemento altrettanto essenziale del mistero di Gesù. A meno che una vocazione pensi di esaurire l'intera ricchezza del mistero di Cristo (neppure quella del Vescovo o del Papa può pensare di esaurirlo), ogni carisma ha bisogno dell'altro, perché tutti rinviano all'unico Signore e alla possibilità di accoglierlo nello spazio della propria libertà. Ognuno può e deve riconoscere sul volto dell'altro ciò che manca alla propria vocazione. La pastorale delle nostre parrocchie trasmette questa immagine di Chiesa? A ciascuno la sua risposta.
don Franco Giulio Brambilla
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