È più facile dire all'altro una parola di amore, che sentirla risuonare nella propria coscienza, valutarne il peso, giudicarne la consistenza e assumerne coerentemente il contenuto.
In altri tempi, si sarebbe forse potuto dire una pastorale dei «fidanzati», ma, com’è noto, il «fidanzamento» ha oggi un’identificazione pubblica pressoché inesistente e si presenta, di fatto, con dei tratti così vaghi e soggettivistici, da risultare a stento decifrabile e denominabile. Non supportata da un vero riconoscimento pubblico e non accompagnata da una ritualizzazione simbolica che ne espliciti il senso e ne favorisca l’effettuazione, la vita di due innamorati che non siano ancora sposi, di fatto, è ampiamente affidata all’improvvisazione della coppia. Il che significa, non di rado, una sorta di bricolage degli affetti, in cui i giovani, non orientati da un itinerario di crescita trasmesso in forma sapienziale, si trovano fondamentalmente soli a fare i conti con l’amore: come se fosse una cosa facile. E in molti casi, fatalmente, il cammino finisce per avere dei tratti discutibili, che prima di essere imputabili alle scelte dei singoli, sono la ricaduta di modelli educativi tanto preoccupati di fornire abilitazioni funzionali, quanto inadempienti nell’abilitare alla vita degli affetti. Non è dunque un caso che lo stesso vocabolario giovanile («avere il ragazzo/la ragazza») lasci trasparire abbastanza chiaramente una considerazione del rapporto segnata più dall’appagamento affettivo del presente, che da quell’impegno reciproco per il futuro espresso un tempo dalla parola fidanzamento: «promessa verbale di matrimonio» e «condizione che ne consegue», come lo definiscono i dizionari.
Ovviare a questo difetto del costume diffuso non è certo un’operazione semplice, che si possa risolvere sulla base di poche indicazioni strategiche. Ciò nonostante, vale la pena, dopo essersi lasciati istruire negli articoli precedenti sulle dinamiche dell’innamoramento, cercare di identificare più da vicino alcuni nodi problematici ricorrenti nel comportamento affettivo giovanile, per ricavarne opportune indicazioni pastorali, tanto nell’accompagnamento dei singoli e delle coppie, che nell’elaborazione di percorsi formativi di gruppo o nel dialogo con i genitori.
Un primo tratto che si può riscontrare con una certa frequenza nel comportamento affettivo dei giovani è quello della ricerca di una relazione fusionale, ovvero un modello di rapporto che si orienta più all’omologazione reciproca che alla comunione. Ciò a cui si tende è innanzitutto la piacevolezza dello stare insieme, il tepore dell’abbraccio, la morbidezza del coccolarsi, in cui ci si offre reciprocamente come rifugio e si cerca l’intesa soprattutto a livello di sensazioni ed esperienze condivise. Per contrasto rispetto all’incomprensione ricevuta dalla famiglia e da altre agenzie educative, ci si «tuffa» in un rapporto immediatamente appagante, perché impostato sul «sentire» insieme le stesse cose e «rispecchiarsi» nelle conferme che l’altro/a dà ai nostri pareri. Non di rado questo tipo di relazione tende così a configurarsi come una sorta di «fuga» comune dalle responsabilità quotidiane, alla ricerca di un appagamento immediato nel sentirsi fatto l’uno per l’altra.
In un certo senso, si tratta di una forma di rapporto tipicamente adolescenziale che, anziché aiutare le persone ad evolversi in direzione del dono di sé, le induce a confermarsi in una logica di autocentrazione. L’altro, infatti, non viene incontrato veramente nella sua diversità come compagno di un cammino da percorrere insieme verso un compimento che sta oltre entrambi, ma viene incontrato attraverso il «filtro» di un bisogno di appagamento, che porta a selezionare in lui/lei ciò che corrisponde alle proprie attese immediate. In questo senso si può dire che la relazione fusionale è l’incontro di due «bisogni», e non, come dovrebbe essere, l’incontro di due «desideri».
Di là della consapevolezza effettiva, l’altro è di fatto «usato» per colmare una carenza personale, che probabilmente riguarda livelli più profondi della persona, ma immediatamente si segnala sul piano emotivo, inducendo quella rincorsa di un «calore» affettivo, che facilmente viene confuso con la comunione. Vengono così a moltiplicarsi i tempi passati insieme, i «messaggini» con cui ci si cerca in continuazione, i gesti con cui s’insegue un’intimità a fior di pelle, ma non di rado tutto questo significa più una forma di «dipendenza» affettiva, che una vera apertura all’oblatività.
Se in certe forme più plateali questo tipo di relazione può essere localizzato fondamentalmente nei primi anni dell’adolescenza, non bisogna però essere troppo sbrigativi nell’escluderlo anche da età e tappe più avanzate della crescita. Non è raro, così, vedere coppie di diciottenni che passano ogni giorno ore e ore insieme, senza che nessuno li aiuti a riconoscere l’eccesso fusionale del loro rapporto, che va a danno dei rapporti con la famiglia, dell’impegno nello studio e in altri interessi, della coltivazione di altre amicizie. Così pure, non è infrequente anche nei gruppi parrocchiali o negli stessi gruppi degli animatori imbattersi in coppie che sono diventate così «simbiotiche» che neppure in un momento di riunione o in una giornata di ritiro riescono a «scollarsi» un pochino, per trovare personalmente spazi di interiorità, di preghiera, di dialogo con altri, senza che tutto si riversi subito all’interno del filtro emotivo di coppia.
Poiché questo tipo di comportamento corrisponde a modelli dominanti nella nostra cultura, diventa proporzionalmente più difficile per l’educatore trovare le risorse sapienziali che lo aiutino a riconoscerne ed esplicitarne la problematicità, eludendo la trappola insita nell’obiezione: «Che male c’è? Ci vogliamo bene!». Ma proprio per questo, una sapiente ed incisiva azione educativa, che non si limiti a formule moralistiche o alla contrapposizione di norme e divieti, diventa un dono tanto prezioso quanto necessario.
Cammino di coppia e cammino personale
Un primo elemento che deve essere riguadagnato al consenso educativo è che la vita di coppia non deve «sostituire» il cammino personale. Può sembrare un’acquisizione minimale, ma di fatto è un significativo punto di partenza, per valutare se la logica del rapporto è quella del dono reciproco o quella della «fusione» appagante. Le fatiche interiori della crescita, l’impegno ad onorare i propri doveri, l’apertura sincera ad una molteplicità di rapporti, la partecipazione cordiale alla vita della propria famiglia non possono in alcun modo essere elusi in nome di una relazione a due, che diventa una sorta di «mondo alternativo» e di «rifugio consolatorio».
Sotto questo profilo va recuperato il fatto che la comunione è possibile solo quando si è capaci di «stare da soli», il dialogo esiste solo quando si è capaci di «fare silenzio», il gesto di tenerezza è tale solo quando si è capaci di «dominio di sé». È dunque necessario far riscoprire ai giovani non soltanto il senso dell’incontrarsi, ma anche quello di «attendere» l’incontro e di «prepararlo» perché non sia banale; non solo la capacità del dialogo, ma anche il saper custodire nel cuore una parola senza trasformarla subito in un «messaggio». «Prima» e «per» incontrare l’altro/a, bisogna davvero aver qualcosa da portare all’incontro: qualcosa che non è solo il «sentimento» reciproco, ma un desiderio di confronto che nasce dalla fatica dello scavo interiore nella propria esperienza. È più facile, infatti, dire all’altro una parola di amore, che sentirla risuonare nella propria coscienza, valutarne il peso, giudicarne la consistenza e assumerne coerentemente il contenuto.
In un certo senso, quanto stiamo dicendo può essere ricondotto a ciò che il libro della Genesi suggerisce a proposito dell’Adam, prima della creazione della donna. Quel tempo preparatorio, tutt’altro che essere inutile, rivela infatti all’Adam, nella molteplice esperienza del contatto con il reale, l’effettiva qualità dei suoi desideri e la reale destinazione della sua libertà alla relazione con la donna. Ma proprio perché il loro rapporto è superiore alle altre esperienze mondane e, come ben presto apparirà, è esposto a molte insidie, esso non può venir offerto prima che la libertà si sia messa alla prova del mondo e si sia interrogata sull’effettiva consistenza del proprio volere.
Detto in termini educativi, si tratta, insomma, di aiutare i giovani ad avere un’economia di tempi e di interessi, che mantenga giuste proporzioni tra vicinanza e distanza, tra il gusto dello stare insieme e la capacità di fare da soli, tra assunzione di atteggiamenti comuni e rispettosa accettazione della diversità. Questo, ovviamente, non in vista di un accostamento sospettoso e diffidente, ma in vista di una comunione che non sia né dipendenza né uniformità. In questo senso, sarebbe molto utile che, negli incontri formativi o nei cammini personali, le giovani coppie fossero aiutate non soltanto a parlare della loro relazione, in cui per lo più vedono tutto «rose e fiori», ma anche e soprattutto a verificarsi «insieme» su ciò che fanno «da soli», per valutarne la qualità.
Un secondo elemento che può correggere la deriva fusionale dei rapporti è quella che potremmo definire una riscoperta della «simbolica degli affetti», che torni ad educare con più saggio discernimento sulle manifestazioni reciproche della simpatia, dell’amicizia e dell’amore. Uno degli aspetti più evidenti di un certo modo di stare insieme immaturo, infatti, è la tendenza alla moltiplicazione di gesti «affettuosi» che creano nella coppia, ma spesso anche nel gruppo, un clima «caldo» tanto immediato, quanto superficiale.
In più di un caso, di là dell’effettiva consapevolezza personale, c’è sotto questo comportamento un bisogno di rassicurazione affettiva, che spinge a ritrovare nel contatto fisico con l’altro quell’integrazione e quell’appartenenza che la coppia o il gruppo non vivono a sufficienza ad altri livelli: il dialogo, l’attenzione effettiva al vissuto dell’altro, l’impegno di servizio verso terzi.
Con il rischio che si sia tanto vicini a livello di gesti, quanto lontani, e magari anche estranei, a livello di comunicazione profonda.
La relazione, infatti, non può essere confusa semplicemente con i gesti di tenerezza che la mediano e con le parole che la dichiarano, perché essa si nutre di disposizioni profonde della libertà che non si producono con la stessa facilità di un abbraccio. Per questo, e non per un moralismo di vecchio stampo, è importante tornare ad educare i giovani ad un modo di manifestare l’affetto che riconosca meglio le differenze dei gesti e dei legami, e sia capace anche di riserbo e di pudore.
Un bacio, ad esempio, non è semplicemente «un» saluto, ma è il modo di esprimere una vicinanza molto intensa: quella tra una mamma e un figlio o quella tra marito e moglie. E non è solo questione di usi culturali, perché posare le proprie labbra sul corpo dell’altro è instaurare un legame molto più coinvolgente di quello che si realizza in una stretta di mano. Le labbra, infatti, non sono l’apertura fisica della bocca, ma anche l’apertura simbolica di ciò che «entra» nell’uomo, a livello di appetiti e di desideri. Così che il bacio di due innamorati può essere descritto, con il grande poeta Rilke, come un desiderio così ardente che si fa sete dell’altro: «Quando l’uno all’altro / date le labbra e vi bevete…». Sulle labbra dell’uomo, inoltre, fiorisce ordinariamente la parola e la comunicazione, e il bacio subentra quando le labbra non possono più dirsi a parole tutto ciò che vorrebbero comunicare, e danno se stesse.
Ciò che in maniera esemplificativa diciamo del bacio, potrebbe e dovrebbe essere esteso alle altre manifestazioni umane dell’affetto e della relazione, recuperando un’attenzione alla portata simbolica del corporeo che rischia di essere facilmente disattesa. Solo apparentemente, infatti, la cultura postmoderna esalta il corpo, le sue forme e i suoi «segnali», perché in realtà si limita ad «osservarlo» e «curarlo» come oggetto di piacere, rimuovendone il profilo antropologico più autentico, ovvero il fatto che il corpo non è solo luogo di sensazioni, ma luogo dei propri legami.
È molto importante, dunque, che di tutto questo si parli con i giovani, ma ancora di più che nella pratica effettiva ci si educhi a saper distinguere momenti e opportunità, ruoli e livelli di relazione, senza appiattire tutte le differenze all’insegna di una gestualità calda e fusionale, per cui tutti si abbracciano e si baciano, solo per dirsi «ciao». Non necessariamente un gruppo molto «caldo», infatti, è un gruppo molto «unito», e non necessariamente una coppia molto «incollata» si ama più profondamente.
L’esperienza dice piuttosto il contrario, suggerendo il valore di un’educazione ai gesti affettivi, fatta con motivazioni profonde e con paziente serenità.
di Andrea Bozzolo
tratto da notedipastoralegiovanile.i
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