All'inizio dell'anno pastorale, una riflessione sul laicato offre nella chiesa. Non “sacerdoti” per modo di dire, i laici sono chiamati ad essere testimoni di speranza, dediti alla “contemplazione”, “collaboratori” della presenza dello Spirito, corresponsabili con i pastori, uomini e donne ricchi di una fede adulta e non “talebana”.
del 06 settembre 2006
Ogni volta che si riprende a parlare di laici, sono convinto che non guasta riportarsi, con un piccolo ripasso all’incandescenza anche di alcune osservazioni del Vaticano II che pure hanno avuto uno sviluppo ulteriore di approfondimento e di sistematizzazione.
Esiste,  tra il modo di pensare e di vivere la chiesa e il modo di essere dei laici in essa, una netta dipendenza:
 
– se pensiamo la chiesa come società, i laici sono destinatari di un’azione di governo che può assumere varie forme a seconda delle tradizioni culturali, ma restano sostanzialmente funzionali al buon governo di essa, con incarichi più o meno definiti e più o meno circoscritti. L’ideale può essere l’efficienza, ma anche una corretta proposta di vita cristiana, tutto dentro una distribuzione di incarichi e un affidamento alle proprie capacità organizzative;
 
– se pensiamo la chiesa come comunione, come sacramento dell’unione con Dio e della solidarietà tra fratelli, quindi nella sua dimensione sacramentale, di non riferimento a sé, ma a Dio, a Cristo e al mondo, nella sua dimensione di popolo, allora i laici sono una totalità organica nella diversità delle funzioni e nell’unità nella comunione; un popolo sacerdotale, profetico e regale, con spazi necessari di esperienze di corresponsabilità, dove nessuno è unicamente passivo e nessuno è unicamente attivo. Non c’è competitività, ma complementarietà e corresponsabilità. Non è solo espressione di vertice, ma di tutto il popolo di Dio e deve essere tradotta con livelli diversi di corresponsabilità in strutture adeguate;
 
– se pensiamo la chiesa come missione, si passa dalla contemplazione di un principio vitale quale l’accoglienza di un dono sempre più grande di ogni nostra realizzazione di esso, quale è  la comunione,  a incarnare la partecipazione al servizio che Gesù Cristo ha vissuto per il mondo. Comunione e missione sono una cosa sola, ma talora la chiesa non percepisce nella comunione la spinta dello Spirito. Infatti lo Spirito, mentre ci fa una cosa sola con Gesù, ci aiuta a vivere come lui i rapporti con il mondo. Si è in comunione con Cristo quando si diventa partecipi del servizio che Cristo rende al mondo per ricondurre il mondo nel progetto del Padre. Tutta l’attività missionaria, quindi, non è proselitismo, ma solo un vivere come Gesù i rapporti con il mondo; è vivere la comunione ancora più in profondità, togliendole qualsiasi significato intimista o introverso. Del resto, ci si fa missionari del dono della comunione e si vive la comunione come prima necessaria forma di missione.
 
Laici: non “sacerdoti per modo di dire”. Sulla linea di questo semplice “ripasso”, occorre cambiare la mentalità accomodante in cui spesso ancora ci troviamo. In termini un po’ “ecclesialesi” si dice: esiste un sacerdozio ministeriale, che è quello su cui poggia tutta la vita della chiesa e il futuro della proposta del vangelo nel mondo, e un sacerdozio comune, che è quello “metaforico”, di supporto necessario al primo per organizzare le attività di una comunità. In fondo, non si tratta solo di manovalanza, ma anche di posizione di grande rilievo sociale e culturale, ma sempre di supporto, quando non ad nutum del presbitero.
Non si è ancora convinti di dover fare una conversione: il vero sacerdozio è quello comune; è il più importante, è posseduto da tutti. Lo scopo del sacrificio di Cristo è stato quello di “inventare” e dare vita al sacerdozio comune.
Il sacerdozio comune, che è di tutti, preti compresi, religiosi e religiose compresi, è un sacerdozio reale, esistenziale, dà la capacità di fare della propria vita un’offerta a Dio; il sacerdozio ministeriale dei presbiteri è un sacerdozio sacramentale, di mediazione. È il segno della mediazione necessaria, ma unica di Gesù. È ontologicamente diverso, necessario, voluto da Gesù. È un sacerdozio che riempie di gioia chi lo accoglie come dono, chi lo vive soprattutto come servizio all’esplosione in santità del sacerdozio comune. In Italia ancora molti giovani seguono con generosità questa chiamata di Gesù a seguire le sue tracce di pastore e la sua chiamata a realizzarne la presenza.
Sono due realtà volute da Cristo, entrambe collegate; e, quanto più collaborano, tanto meglio si realizza la comunione e la crescita della chiesa, e quindi della parrocchia. Non è il predominio numerico o qualitativo dei preti sui laici che fa crescere la chiesa, ma è la comunione, l’essere insieme, il lavorare insieme e il mettere a disposizione gli uni i propri compiti che si hanno a favore dell’altro.
 
Laici, testimoni di speranza. Essere testimoni di speranza è il compito che viene richiesto oggi con decisione. Gli apostoli, dopo lo sbandamento del Calvario, si mettono di nuovo in cammino, accolgono il Risorto che prepotentemente entra nella loro vita, spariglia i loro piccoli o grandi calcoli e li lancia sulle strade del mondo. Ce n’è voluta di “cura di risurrezione” per aiutarli a capire che da quel momento la loro vita non poteva più tornare ad essere come prima.
Gesù risorto non poteva assolutamente essere ritenuto una consolazione per le loro paure, doveva diventare il nuovo annuncio da fare, il vero e unico annuncio. Se pensavano che fare gli apostoli consistesse nell’andare in giro a fare i predicatori di una buona e generosa visione della vita, si sbagliavano di grosso; non dovevano andare per il mondo a dire quanto era stato commovente il Natale, che bel discorso aveva fatto Gesù sulla montagna, come era bello tradurre la Torah con le sue parabole, facili, taglienti e comprensibili.
Non dovevano andare per il mondo a dire che bei miracoli aveva fatto Gesù. Egli voleva che andassero a mostrare nelle loro nuove vite che significa credere in un Crocifisso risorto. Questo è l’annuncio, non consolatorio, impegnativo, profondo e quindi capace di cambiare il modo di pensare e di essere. Questa è la testimonianza necessaria nel mondo di oggi che si interroga con più forza sulla dimensione religiosa della vita.  
 
Il laico è un contemplativo. È la prima condizione necessaria. Il Risorto ti deve cambiare gli occhi, la bocca, il cuore da tanto tempo passi a contemplarlo, a pregarlo, ad ascoltare le sue parole. È un mistero cui bisogna esporsi come al sole, come all’aria per vivere. Nel suo volto di Crocifisso occorre leggere l’amore fino all’ultima goccia che lo ha travolto, nelle sue piaghe occorre entrare per capire l’abisso dei nostri peccati, il male che ammorba il mondo. Nella sua luce radiosa di nuovo vivente, di figlio abbandonato nelle braccia del Padre, occorre trovare le ragioni della sua tenacia, il segreto della sua vita.
Laici che contemplano il volto di Gesù dicono prima di tutto a se stessi che il centro dell’essere credenti è la sua persona e la sua vita. I laici cristiani che ci hanno preceduto si sono posti di fronte al mistero di quel “volto” e hanno provato a dire il loro stupore, la loro pietà, il loro amore e la loro fede. Oggi occorre ancora che ci siano laici che sanno immergere lo sguardo nel suo, per lasciarsi salvare dalla dolcezza della sua misericordia; per lasciarsi illuminare e orientare dalla sua Parola; per entrare nell’intimità dei suoi colloqui con il Padre.
L’incrocio di questi sguardi è spesso quello di Pietro, traditore pentito, e Gesù, quello dolcissimo di Maria e Gesù, quello dell’innamorato Giovanni e Gesù, quello della Maddalena assetata di risurrezione e Gesù. In questi sguardi il pensiero sulla vita ha acquistato quella pienezza che il giovane ricco desiderava e che ha rifiutato. Entro questa contemplazione si costruisce tutto il bagaglio di conoscenze fondamentali del credere cristiano. Non saranno verità astratte, ma saranno esperienze di dialogo con Gesù. È proprio vero che non sarà una formula che salverà il mondo.
 
Il laico è collaboratore della presenza interiore dello Spirito. Nella vita di ogni uomo e donna si sviluppano domande, ricerche, aspirazioni, cambiamenti. In ognuno di essi abita lo Spirito Santo. È lo Spirito che delinea nella vita degli uomini  i tratti dell'umanità di Gesù e il laico che vuol essere testimone di speranza ne è il collaboratore. Lo Spirito attende nella vita delle persone che si aprano all’annuncio di gioia della risurrezione, ma spesso nessuno aiuta questa apertura, anzi la mentalità moderna spesso ne allontana. Gli uomini vengono lasciati a se stessi.
Assomigliamo agli apostoli dei primissimi giorni dopo la risurrezione, magari contenti e soddisfatti, ma chiusi tra di loro. Nel cuore degli uomini c’è una silenziosa parola di Dio che interpreta, corregge, sostiene e inventa per ciascuno il proprio singolare percorso esistenziale. Ciascuno ha dentro di sé lo Spirito che lo istruisce sul modo in cui la crescita nella fede si può profilare entro gli eventi lieti e drammatici della condizione umana. Il laico che è chiamato a fare il testimone di speranza vive una sorta di complicità con i gemiti incompresi e incomprensibili dello Spirito. Egli sa di poter contare sulla sua forza e sulla sua presenza e lo va a svelare nella coscienza degli uomini e delle donne del nostro tempo.
 
Meglio litigare che avere la pace del cimitero. Laici così non nascono dalla partecipazione affrettata e occasionale alla messa o dalle processioni tradizionali o da appuntamenti religiosi sporadici. Una messa domenicale preparata, ben vissuta e attuata nella vita sarebbe già una forte spinta a una vita di santità. Nemmeno hanno bisogno solo di scuole, pur sempre necessarie per una competenza anche sui contenuti della fede.
Essi hanno assoluta necessità di un’esperienza continuativa di riflessione e di partecipazione; hanno da sperimentare la disciplina di un confronto comunitario, devono essere attivati a guardare alla realtà dall’angolatura di ideali ispiratori, dall’esperienza di comunione semplice tra amici, in un’associazione o in un movimento, per esempio. Il primo compito è la rigenerazione della propria fede, non l’assegnazione – bontà nostra o costretti da necessità – di qualche incarico ecclesiale, che rischia di far fare cose e di svuotare dall’interno.
Purtroppo è ancora in atto nella pastorale delle comunità cristiane un azzeramento di ogni aggregazione laicale. La scusante può essere la mancanza di comunione che talvolta rasenta la litigiosità e la contrapposizione tra modi diversi di impostare la vita cristiana; spesso è presente la tentazione di dire che “tutto comincia ora e prima di noi non c’è mai stata fede”; talora è ancora condensazione su spazi intraecclesiali da primogenitura.
Per un pastore poco avveduto, avere davanti un insieme di persone fatte con lo stampino, che stanno dentro un’organizzazione pure capillare, senza avere voce e confronto, ma solo devozione e accondiscendenza può sembrare il massimo, ma spesso la comunità si impoverisce e muore. Sono solito dire che “è meglio litigare, se di questo si teme, che avere la pace del cimitero”.
La preparazione di questi mesi al convegno di Verona ha messo in evidenza alcuni spazi di vita ecclesiale che hanno bisogno non solo di una presenza generosa e di una dedizione specifica del mondo dei laici, ma anche della loro rete organizzativa e dei loro impianti pedagogici, sociali e politici:
• l’affettività che deve andare oltre la precarietà per scoprire la ricchezza della sua sorgente;
• il lavoro che deve tornare ad essere dignità e solidarietà, capace di iscrivervi la festa come sapore;
• la cura delle fragilità come spazio della solidarietà;
• il patrimonio di significati e di valori che si deve offrire alle giovani generazioni per aiutarle attraverso la riscoperta delle radici a progettare il futuro;
• la cittadinanza come luogo di esercizio concreto di diritti e di doveri, di convivenza con tutti e di cultura della pace.
 
 
 
La corresponsabilità dei laici nella chiesa non è fatta da specialisti, ma da un popolo credente. È la fede della gente che viene meno. Ci si accorge lentamente che la gente non passa più dalla comunità cristiana: il riferimento alla parrocchia diventa sempre più labile, il pensiero della chiesa sui fatti della vita è messo tra parentesi e nella comunità cristiana, mentre crescono le specializzazioni, diminuiscono i cristiani adulti nella fede, diminuiscono le famiglie radicate sul vangelo.
Per questo diventa necessario avere cura del laicato “popolare”. La ricchezza di una parrocchia non è data dall’insieme delle iniziative che essa organizza, e nemmeno forse della quantità di operatori pastorali, ma dalla fede dei suoi figli che nella vita quotidiana sanno spendersi per il vangelo.
 
Non abbiamo bisogno di “talebani”, ma di autentici laici credenti. Nuovo prezioso spazio politico del laicato: l’espansione della religione come fattore di identità. Sta scoppiando nel nostro mondo la questione religiosa. Chi pensava di aver sepolto la religione come fenomeno di nicchia, destinato a scomparire nel giro di qualche lustro deve ricredersi. Sta emergendo una forte espansione del bisogno religioso e delle risposte necessarie per aiutarlo a esprimersi in termini dignitosi.
Le derive di questo fenomeno sono sotto gli occhi di tutti. Si arriva a dire che è meglio non credere in niente, così non si rischia di fare guerre di religione, dando alla ricerca di Dio la responsabilità di guerre che hanno motivazioni molto meno nobili, cui serve appunto la religione per avere plausibilità e consenso popolare. Nel mondo dei media, e forse anche della cultura colta, il fenomeno è affrontato con troppa leggerezza. Lo si liquida con autosufficienza, come appendice folkloristica delle espressioni popolari. Lo si priva così della necessaria opera dell’intelligenza e della ricerca umana.
Questo nuovo mondo non ha bisogno di “talebani”, ma di credenti che assumono la secolarità come valore e scrivono nella vita quotidiana personale e sociale la forza di una fede, l’intelligenza di essa e la novità di un’applicazione onesta intellettualmente e sensata umanamente. È ancora più importante che il laicato faccia suo questo compito proprio per affrontare gli scontri di civiltà, che nascono e si consumano negli interessi politici tra le nazioni, come anche nella vita delle famiglie, nell’educazione dei figli, nella tradizioni di vita popolare e nei tessuti di relazione parentali.
Un laicato che si impegna politicamente a costruire ponti di pace nel mondo di oggi deve avere una conoscenza della religione che va oltre gli studi comparativi e che si radica dentro un’appartenenza intelligente e matura. I laici cristiani devono poter offrire, a questo riguardo, riflessioni più vere e profonde anche negli spazi della politica e della diplomazia, come anche nelle sedi dei trattati di pace o anche solo di “cessate il fuoco”.
mons. Domenico Sigalini
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