Un approfondimento della Proposta Pstorale 06-07 rivolto a docenti della Scuola e della Formazione Professionale. Il monito del Rettor Maggiore suona forte e stimolante: “In una cultura di morte siamo chiamati dunque a prendere la vita come vangelo e riprendere il vangelo della vita, per celebrarlo e servirlo”.
del 12 settembre 20061.      Motivazioni e collegamenti con l’anno precedente
 
“Lasciamoci guidare dall’amore di Dio per la vita” ;il RM unisce amore e vita; amore e vita sono inseparabili, vanno compresi insieme…mai considerarli separatamente o peggio ancora giustapporli.. La riflessione sulla vita non è “biologia” e la riflessione sull’amore non è “psicologia”.
“Lasciamoci guidare dall’amore di Dio per la vita”: la vita proviene dall’amore e all’amore è destinata., la vita siccome proviene da un atto d’amore è subito legata ad un discorso etico.
“Lasciamoci guidare dall’amore di Dio per la vita” ha un ordine che non può esser invertito: dall’amore alla vita si interpreta correttamente la proposta del RM. È vero che la vita si presenta come una evidenza immediata, ma è anche vero che questa evidenza è attraversata subito da ragioni di senso, e da ragioni teologiche: Dio è amore.
La scelta del tema della Strenna, viene motivata dallo stesso Rettor Maggiore nel senso di una “riaffermazione precisa e ferma del valore della vita umana e della sua inviolabilità, ed insieme un appassionato appello rivolto a tutti e ciascuno, in nome di Dio: rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana! Solo su questa strada troverai giustizia, sviluppo, libertà vera, pace e felicita!”.
In questo senso la Proposta Pastorale e la Strenna si pongono in diretta continuità con quanto abbiamo riflettuto ed espresso pastoralmente nello scorso anno.
Il tema della comunione ha fatto da struttura portante in questi ultimi cinque anni di riflessione e opera pastorale; sembra venuto in questo 2006-2007 il momento di affrontare non solo la comunione in sé, ma anche i suoi frutti più maturi.
Il tema della comunità ha avuto il suo apice, dal punto di vista della riflessione educativo pastorale e della riflessione carismatica, nel tema della famiglia dello scorso anno. Il ricordo anniversario di Mamma Margherita è stato lo spunto per una precisazione importante alle riflessioni fatte negli anni precedenti: quando parliamo di comunità, la nostra comunità, il nostro amore reciproco, ha un suo luogo concreto e una sua concretizzazione primaria, che anche simbolicamente ci può aiutare nella riflessione e nella messa in pratica. Questo luogo è la famiglia. Essa è apice, in genere, del discorso e della riflessione sull’amore e sulla comunione dal punto di vista antropologico, ma anche dal punto di vista carismatico e salesiano. Lo spirito di famiglia è il condensato di ciò che don Bosco intende per il nostro modo di stare insieme e per il nostro modo di prenderci cura dei giovani.
A questo punto, il tema della comunione rischia di essere uno specchiarsi sterile in noi stessi, se non si apre a ciò che caratterizza in modo simbolico ed eminente la fecondità famigliare, cioè il dono della vita ad una terza persona, il figlio.
Ecco che allora viene spontaneo ricordarci che la cura delle nostre relazioni, su cui tanto abbiamo insistito in questi ultimi anni, non è per trovarci “belli” gli uni gli altri, per specchiarci in noi stessi in una sterile presa di coscienza della nostra qualità relazionale. La nostra relazione non ha senso, se non si apre a ciò che la può inverare e verificare: il fatto di avere dei figli da generare e di cui curarsi.
Ecco come, dunque, si inserisce il tema della vita nel cammino fatto in questi anni: essa è frutto della comunione e ciò che rende la comunione feconda, non solo per il fatto di una nascita nuova, ma anche per la cura che questa nascita richiede da parte della comunità genitrice, sia essa la comunità famigliare, la CEP/CE o la comunità-Chiesa.
Alle comunità educanti viene infatti richiesto di lasciarsi guidare nella propria programmazione pastorale non dalla riflessione sulla vita, ma dall’amore di Dio per essa. È l’amore, infatti, che può guidare il nostro cammino, ma l’amore è quello “di Dio”, ossia quello che in questi anni ci siamo sforzati di imparare, precisare, verificare nella nostra vita personale e comunitaria. Solo a partire da qui è possibile comprendere in modo esatto, ossia alla luce della Rivelazione e nei suoi significati più veri e profondi, che cosa intendiamo con il termine “vita”.
 
2. Il tema della vita e la pastorale giovanile salesiana 
La parola “vita” nella pastorale giovanile salesiana non si può certo dire che sia una novità, anzi essa ne è da molti anni parola riassuntiva e asse portante.
L’importanza conferita all’evento dell’incarnazione di Cristo, la vita della Pasqua, all’interno del pensare la pastorale giovanile, ci ha spinti a riflettere ed elaborare una spiritualità ed una condotta educativo-pastorale che ha nel quotidiano il proprio ambiente naturale, e nella tensione a rendere il quotidiano “beato” il proprio fine ultimo. In tutto questo, uno slogan spesso utilizzato è la frase evangelica: “Sono venuto perchè abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10) e il binomio vita e speranza è diventato asse portante della riflessione teologica.
La pastorale giovanile salesiana è, dunque, una pastorale per la vita di tutti, al di là dei condizionamenti e delle difficoltà che ognuno può trovare, e vuole condurre tutti ad avere una vita piena in Cristo (importante questo, la mia vita si cristallizza nelle mie virtù), pur partendo da punti differenti di stato di grazia e di condizioni di libertà.
La beatitudine promessa nel vangelo, è quella vita che la nostra azione educativo-pastorale vuole testimoniare e donare a tutti i giovani, e non, che incontriamo.
Una parola così piena di significato ha però ancora una volta bisogno di essere verificata, ossia di essere guardata da vicino per farne emergere i propri punti di riferimento salienti.
L’attacco della cultura mondana a quella evangelica della vita non ci trova infatti come testimoni esterni e indifferenti, ma rischia di penetrare i nostri stessi modi di pensare e di programmare e ha, dunque, bisogno di essere compresa proprio nella direttrice indicata dal Rettor Maggiore: a partire dall’amore di Dio.
Il termine vita è infatti uno di quei termini che antropologicamente ed evangelicamente assumono una tale rilevanza che rischia di far perdere loro il vero significato. Ogni modo di pensare l’uomo e di pensare Dio ha probabilmente nel termine “vita” uno dei propri punti salienti, eppure, non ogni modo è “vita” in senso pieno. Il monito del Rettor Maggiore in questo senso suona forte e stimolante: “In una cultura di morte siamo chiamati dunque a prendere la vita come vangelo e riprendere il vangelo della vita, per celebrarlo e servirlo”.
 
 
3. Cosa vuol dire vita: dono di Dio? 
Partiamo da uno dei luoghi comuni più radicati: la vita è un dono. Luogo comune non perché sia di per sé una falsità, ma appunto perchè appartiene al novero di quelle frasi-verità che sono ripetute non perché riflettute e giustificate, ma semplicemente perché ormai entrate nell’uso corrente. Essa non è falsa, anzi, ma rischia di essere depotenziata, ossia di non dispiegare tutte le proprie possibilità veritative.
Un autore si esprime in questo modo: “Spesso, in modo un po’ enfatico, si ripete che “la vita è un dono”, o che “la vita è sacra”. Nel primo caso si tratta di una metafora da aprire e nell’altro di una parola da comprendere […] La vita è un’esperienza che ci precede e ci coinvolge. La vita è un’esperienza che rivela una promessa che interpella la coscienza a fidarsi di un senso che la anticipa. È necessario superare una riduzione biologica della vita, non per negarla, ma per assumerla».
Dire che la vita è un dono ha innanzitutto e per tutti questo significato fondamentale: la vita è oggetto che ci precede e che non si può afferrare. La vita non sottostà immediatamente ai nostri principi, essa è la possibilità della nostra esistenza, è condizione per le nostre regole, è luogo in cui ci troviamo, che non possiamo mai del tutto e immediatamente afferrare e comprendere.
Dire che è un dono vuol dire, dunque, che essa non è prodotto della nostra abilità, della nostra coscienza, del nostro volere, ma che essa stessa rende possibili abilità, coscienza e volere.
Ogni tipo di manipolazione e di appropriazione possibile che l’uomo può compiere nei confronti della vita propria e altrui, deve fare i conti con questa radicale indisponibilità della vita stessa. Essa non è a nostra disposizione, perché, in primo luogo, essa resta non un nostro prodotto.
Il libro della Genesi, nel racconto della creazione, la riflessione teologica posteriore con l’affermazione di una creazione dal nulla, il dono del creato all’uomo come custode, restano un monito insopprimibile per l’uomo di tutti i tempi e di tutte le religioni. La creazione non è Dio, ma, dall’altro lato, non è semplicemente nelle mani dell’uomo come suo prodotto o possesso. Essa è a sua disposizione come ciò che gli è stato donato, non come ciò che gli è proprio. Il concetto di dono applicato alla vita, va allora direttamente contro l’idea di un subordinamento indiscriminato di ogni forma di vita alle possibilità scientifiche, razionali, culturali dell’uomo.
In secondo luogo, il concetto di dono all’interno della cultura cristiana, qualifica in modo eminente l’azione di Dio per l’uomo. Affermare che la vita è un dono vuol dire allora far luce e rendere ragione del donatore e motivare, anche dal punto di vista antropologico, la sacralità della vita stessa, al di là delle eventuali manipolazioni scientifiche e fisiciste che l’uomo ha la possibilità di operare.
In terzo luogo il concetto di dono comprende l’idea del legame e della relazione. In questo senso è allora ancora più evidente il fatto che è a partire dall’amore che va compresa la vita, anzi, a partire dall’Amore che è Dio, ossia la relazione in persona. Proseguendo nella riflessione possiamo allora affermare che non soltanto la vita è un dono, ma in questo senso essa vive dell’essere-per-la-donazione di sé e ad altri. La vita in senso umano e cristiano più vero, è una vita che sa riconoscersi debitrice nei confronti del donatore, ma sa a sua volta farsi dono nei confronti di chi attende da noi la testimonianza che la promessa di una vita vissuta in pienezza non è vuota illusione, ma reale speranza e possibilità di beatitudine.
Infine, Il fatto che la vita sia un dono, non significa affatto che essa sia data a qualcuno a scapito di altri. Il concetto di dono non porta con sé per forza quello di esclusione.
 Allo stesso modo, detto per inciso, l’affermazione che, come la vita, anche la fede sia dono, non legittima affatto frasi discolpanti del tipo: “Io la fede non ce l’ho perché è un dono che a me non è stato fatto”. La buona novella del vangelo e il comportamento di Cristo nei confronti di ogni persona che a lui si rivolge stanno a significare proprio il fatto che il dono di Dio è dono per tutti, e se esso deve avere una preferenza, essa è accordata ai più poveri e bisognosi. Inoltre l’essere dono gratuito non significa essere indifferente alla risposta. La gratuità del dono non solo esprime, ma istituisce una relazione di per sé impegnante e impegnativa. Lo stato di legame che il dono istituisce, se rifugge dall’essere utilitaristico e ricattatorio, non può non essere considerato in qualche modo obbligante e esigente. Il mistero trascendente del dono della vita diventa così fondamento della responsabilità personale a corrispondere a tale dono col riconoscersi in debito di sé nei confronti di altri e in dovere di essere-dono a propria volta verso il prossimo.
In questa chiave è inoltre possibile comprendere come l’affermazione della vita in quanto dono esiga il compito educativo, come compito di testimonianza e accompagnamento verso la verità del proprio farsi dono per gli altri.
 
4. Il dono e la legge 
Prima di proseguire nel discorso, proviamo a fare due approfondimenti su due concetti che nella moderna “cultura di morte”, come la chiama don Chavez, rischiano di essere troppo spesso passati sotto silenzio. Il fatto che la vita sia compresa innanzitutto come dono dell’Amore che è Dio e che essa preceda e fondi la nostra esistenza e la nostra beatitudine e responsabilità, non può non collegarsi al tema della legge e al tema della vocazione.
Che la vita sia innanzitutto un fatto che ci precede e non una nostra produzione riflessa, non significa che essa debba svilupparsi secondo un modello spontaneistico o utilitaristico. La vita infatti, così come il dono e così come l’amore, non può vivere senza una legge che ne custodisca il vero e il bene.
Il tema dei comandamenti nell’antico Testamento, così come la riaffermazione evangelica dell’amore come comandamento, tengono fermo il fatto che la promessa dischiusa dal dono ha un carattere temporale che suscita un cammino, il quale non può essere sottoposto alle spinte dello spontaneismo, del sentimentalismo o dell’esaltazione dell’istinto.
L’affermazione della morale cristiana di una legge che possa preservare la vita, non è dunque la limitazione estrinseca e opinabile di una libertà che in se stessa avrebbe diritto di svilupparsi in ogni direzione possibile. La legge della vita, corrisponde alla legge del dono, degli affetti e dell’amore. La legge è strumento e pedagogo, in una situazione storica e peccatrice, di un buono e di un vero che proprio perché dono non sono sottoposti all’arbitrio personale e spesso a tale arbitrio non sono evidenti. Là dove il costume comune, ossia l’etica e il sentire, la coscienza e la razionalità, non riescono a rendere ragione di questo bello, buono e vero del dono, il carattere negativo e assoluto della legge si colloca esattamente in riferimento alla possibile trasgressione da parte della libertà del proprio vero, bello e buono.
 
5. Chiamata, missione e santità 
Il tema del dono, nel suo legame con la responsabilità, ci spinge a riflettere sul tema dell’elezione e della chiamata.
Ricevere da Dio il dono della vita vuol dire al tempo stesso ricevere una elezione, ossia una scelta personale. Il dono non è mai, dicevamo prima, causalità indifferente; la sua gratuità non significa indifferenza rispetto al ricevitore. Venire alla vita significa allora l’eterna scelta del vivente nella grazia di Dio. Questa scelta non è poi senza una chiamata e un invio, “poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati” (1Cor 8,29-30). Elezione alla vita allora significa anche l’efficacia da parte della grazia della chiamata sulla libertà del chiamato. Tutti coloro che compaiono sulla scena del mondo, per il fatto di essere ricevitori del dono della vita, vengono chiamati, da Dio, in Cristo Gesù, e nessuno viene chiamato senza essere anche inviato, perché nessuno diventa se stesso senza essere mandato. Identità, persona, elezione, missione, non esistono se non l’una con le altre.
L’aver ricevuto il dono della vita, allora, comporta l’essere stati eletti per una chiamata e per una missione che non mi viene dall’esterno in seconda battuta rispetto all’essere me stesso, ma fondano il mio stesso vivere e lo rendono “beato”. In questo modo il chiamato, ogni uomo e donna, diventa se stesso nel servizio della causa di Gesù, ossia diventando egli stesso dono-persona, così come Cristo si è fatto a noi dono a partire dal dono della vita stessa.
Questo conferimento di grazia, elezione e missione, non è soltanto regalo che riceviamo passivamente, ma sostegno per un compito da eseguire, compito che però deve essere eseguito dalla nostra personale libertà e nell’assunzione delle proprie personali storie e responsabilità, pur nello spazio che il dono ci ha aperto.
Questo cammino di beatitudine e realizzazione personale della propria chiamata-missione, è il proprio cammino di vocazione e santità, cammino che trova la sua libera e massima realizzazione proprio nell’obbedienza ad una elezione che abbiamo ricevuto e che ci dischiude la possibilità stessa di essere e di essere liberi. Questa è la divina obbedienza del Figlio e dei figli, massima povertà nell’amore, purezza nella fecondità, ricchezza nella povertà.
Allora il compimento perfetto di sé viene compreso proprio volgendo lo sguardo a colui che ci ha dischiuso questo percorso: il Figlio di Dio fatto uomo. Essere beati significa allora conoscere e guardare se stessi sotto nessun altro punto di vista che quello di un dono-elezione che diventa missione-vocazione, e così trovare nel servizio il perfetto compimento di sé.
Non è dunque senza senso, o aggiunta indebita, il fatto che il compito educativo pastorale porti in sé contemporaneamente la testimonianza e l’accompagnamento alla perfetta imitazione di Cristo e alla scoperta della propria e personale vocazione in lui.
 
6. La vita vera: io sono la vita 
La rivelazione cristiana propone un radicale passo avanti nel modo di pensare il dono della vita da parte di Dio. Essa infatti non è soltanto frutto di creazione, ma è frutto del dono di sé di Dio stesso agli uomini.
La frase riportata nel vangelo secondo Giovanni per cui Gesù afferma di sé di essere “via, verità e vita” (cfr. Gv 14,6), ci mette di fronte al fatto che il dono della vita che all’uomo è conferito, con tutto quello che ne consegue, non è dono di un oggetto a Dio estraneo, ma dono della sua stessa persona. Dio infatti è la vita, vita che si fa partecipazione e grazia per gli uomini. Per questo motivo abbiamo più sopra accennato al fatto che intendere la vita come dono ha come sua diretta conseguenza l’evidenziazione del carattere sacrale e non puramente naturale o biologico, della vita stessa.
Il dono di sé che Dio ci fa, donandoci la sua vita, è finalizzata alla comunione con sé, ossia ad una elezione e missione che è possibile riassumere nella partecipazione alla stessa vita di Dio.
La vita umana (frutto della creazione) è in realtà diretta conseguenza e continuità con la volontà d’amore del Padre (alleanza) realizzata dal Figlio nella Pasqua (redenzione).
In Dio amore e vita (amore che è vita e amore che dà la vita) coincidono perfettamente. Nella Trinità, l’unità è relazione e la relazione è dedizione e dono. Il dono della vita teologale all’uomo, fonda la struttura della libertà e della vita umana nel senso del dono e della dedizione e sotto la garanzia di una santità che ci avvolge e che ci si pone come obiettivo del cammino e realizzazione personale.
Nella Rivelazione del Nuovo Testamento, Gesù si pone come garante di una volontà divina verso la vita umana che ha come unico suo obiettivo la beatitudine della santità, ossia della piena condivisione, da parte dei figli, della vita di Dio. Questo anche di fronte allo scacco del peccato, della sofferenza, della malattia, della morte.
Gesù nelle sue parole e nei suoi comportamenti si pone come unico interprete della volontà originaria di Dio, quella volontà che la promessa indica e che la legge preserva.
Egli, inoltre, non si pone come portatore di ciò che è a lui esterno, come fosse solo portatore di un messaggio estrinseco al proprio latore. Gesù, annunciando in sé la presenza del Regno, ossia della volontà del Padre realizzata per gli uomini, offre finalmente all’uomo la causa per cui decidersi, in modo assoluto, chiamando alla decisione di sé. Il senso della vita di ogni uomo dalla Pasqua in poi, si decide nella fede in Gesù, fino a proclamare con chiarezza e durezza che solo la vita persa in lui è una vita ritrovata, perché è vita che si fa dono nel dono di Dio.
Così la vita proclamata vittoriosa nella risurrezione dai morti è oggetto di speranza di un futuro escatologico al quale fin d’ora i cristiani partecipano, mediante il battesimo, ossia mediante la propria piena partecipazione comunitaria alla vita di Cristo e del Padre nello Spirito. La vita è promessa salvifica, spirituale, escatologica, anticipata, anche se non ancora definitivamente compiuta: essa è un dono anticipato grazie alla fede che spera in essa il compimento della sua attesa. Ad essa si accede, nel presente, credendo, attraverso le scelte quotidiane nelle quali l’uomo dispone di sé. Il dono della vita è già dato sotto la forma di un’esperienza iniziale di comunione con Dio e attende un compimento che non delude. Ma il rischio, la lotta e la fatica della decisione rimangono: non si può dimostrare a priori la sensatezza di questa speranza, se non affidandosi ad essa.
Insomma, la vita umana è salva unicamente a prezzo di credere. Solo una vita vissuta nella fede mantiene le sue promesse: ma essa deve attraversare la notte, il buio, la prova radicale, appunto credendo. Il comandamento fondamentale della vita è scritto in essa e richiede di credere senza condizioni, come in un dono buono. La vita dell’uomo è, come il deserto dell’Antico Testamento, un tempo di prova e di decisioni, un tempo nel quale l’uomo può perdersi oppure può ritrovarsi, ma solo a patto di aderire a un bene che gli si propone in maniera incondizionata. L’agire del credente è l’attuazione pratica che testimonia il dono ricevuto mediante la fede e grazie al Battesimo che lo ha generato a nuova vita.
Per questo ogni discepolo può proclamare e testimoniare: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68).
don Stefano Martoglio
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