Le parole del Papa. Per restare umani dobbiamo dire un forte sì alla vita che na...

Dobbiamo essere ottimisti o pessimisti a proposito del nostro futuro?

Le parole del Papa. Per restare umani dobbiamo dire un forte sì alla vita che nasce


 

di Arnoldo Mosca Mondadori, avvenire.it

 

Dobbiamo essere ottimisti o pessimisti a proposito del nostro futuro? Dopo esserci ripetuti 'ne usciremo migliori' nei periodi più acuti della pandemia, quale valutazione possiamo dare oggi di noi stessi? Riprendiamo i sentieri del realismo: noi uomini siamo capaci di meraviglie, sia creative che morali, ma qualcosa di disumano, di irrazionale, di ostile, minaccia l’umano in noi. Quando questa forza cieca si manifesta, ci investe a volte come una deriva inarrestabile che non sappiamo nemmeno come nominare – ma che, paradossalmente, col tempo finisce per non suscitare né sorpresa né scandalo né riflessione. 

 

Questa forza si rende presente con evidenza quando ci occupiamo del dramma dell’aborto. Le parole profetiche di Papa Francesco su questo tema si levano quasi solitarie, come montagne le cui vette si staglino irraggiungibili, mentre invece ci ricordano, appunto, l’umano – il comune, universale, persino 'semplicemente' civile umano – nella sua essenza. Il Papa, infatti, dice che l’aborto è un tema pre-cristiano, cioè qualcosa che riguarda l’umano ancor prima che il 'religioso'. 

 

Oggi il senso della nostra appartenenza a un’unica famiglia non può accettare la pena di morte o il razzismo, perché in questi casi l’umano è diventato anche qualcosa che ha a che fare con la 'politeia'. Eppure, 'uccidere una vita per risolvere un problema' è un concetto che non è ancora uscito dalle nostre 'costituzioni politiche ottimali', proprio perché non ha ancora conquistato la comune autocoscienza. 

 

Quando si parla di questo argomento si crea uno strano silenzio. Lo si nomina addirittura con un certo fastidio, segno evidente di una rimozione. Il Papa lo fa, invece, con una semplicità disarmante, così come è semplice la verità che afferma: stiamo parlando di un omicidio. E finché l’uomo non prenderà coscienza di questa immane e orribile tragedia, per cui ogni giorno vengono uccise centinaia di vite, non potremo dire di essere diventati pienamente noi stessi. Siamo umani quando ci battiamo contro la pena di morte e la tortura e quando ci ricordiamo delle tragedie di ogni olocausto e genocidio per non ripeterle più. 

 

Siamo umani quando ci battiamo contro il commercio delle armi, contro i mercati della mafia – a partire da quelli della droga e della prostituzione –, contro il commercio di organi. Siamo umani quando lottiamo contro ogni forma di sfruttamento, contro la fame nel mondo, contro la povertà e per una società in cui ciascuna persona possa vivere nella piena dignità. Siamo disumani, invece, quando facciamo finta che questo problema non sia cruciale. Incombe quindi su di noi un grave rischio: diventare come i tedeschi, travolti nel clima di consenso al regime nazista oppure seriamente timorosi di perdere la vita, che facevano finta di non vedere le deportazioni, i campi di concentramento, i forni crematori. Eppure sapevano, se volevano saperlo, che la polvere che scendeva dai camini sulle città non era neve artificiale, ma era cenere di corpi cremati. Loro lo facevano per inganno propagandistico e soprattutto per paura: noi la facciamo per indifferenza. 

 

Una volta posto un termine agli orrori del nazismo, siamo diventati più umani. Come allora, non possiamo più tenere nascosto il problema. Saremmo come chi scopre una realtà terribile e non se ne cura, macchiandosi di omissione di soccorso. Vi è poi un altro atteggiamento che ha del disumano: la confusione per cui si giunge ad affermare che sia giusto scegliere di uccidere perché sarebbe un diritto. E si tratta di un argomento che sembra avere la caratteristica di una conquista, mentre non è che la certificazione di una sconfitta: di fronte a una vita che si annuncia, arrendersi alle condizioni – spesso anche gravi – che rendono difficile accoglierla. Una sconfitta che pesa sulle donne, che spesso scelgono, da madri, di rinunciare a una prospettiva d’amore perché in oggettiva difficoltà: una difficoltà in cui tutti noi le lasciamo sole. 

 

È tempo che su questo argomento il nostro atteggiamento cambi profondamente: rinunciamo alle certezze che diventano barriere tra noi e la realtà, rinunciamo alle ragioni che consideriamo ormai definite e non più degne di essere valutate e verificate: la vita umana è sacra fin dal suo concepimento e l’aborto è l’uccisione volontaria di un essere vivente innocente e indifeso. La scienza, non un’astratta dottrina, ci invita a riflettere da uomini su questo fatto. I suoi progressi sono costanti: a proposito degli studi sulle esperienze e l’apprendimento del feto, sulle sue reazioni, per non parlare del suo completo patrimonio genetico e della sua singolarità abbiamo oggi a che fare con nuove conoscenze e nuove evidenze. E la medicina fa miracoli anche nel campo dell’accompagnamento allo sviluppo di bambini che per diverse ragioni nascono molto prematuri. 

 

Il discorso che fece Madre Teresa di Calcutta quando ricevette il premio Nobel mise in imbarazzo i politici presenti. Disse che la piaga più grande del nostro tempo è l’aborto. Anche lei parlava con le parole della profezia, con le parole della verità. Anche lei non pensava di parlare a un pubblico di credenti e di devoti, ma al mondo, cioè a tutti. Possiamo vivere senza amare la vita fino in fondo? Possiamo vivere tradendo la nostra natura? 

 

Il Papa ci indica la via della gioia comune. Non vuole indottrinarci, non parla dell’aborto con le 'armi' di un cattolicesimo intriso di ortodossia e forte di un potere che appartiene, per fortuna, al passato, ma vuole dirci come essere pienamente felici insieme. E il suo discorso non ha nulla di utopistico: indica con la semplicità propria del Vangelo un dramma che è davanti ai nostri occhi e dichiara possibile porvi fine per il bene di tutti. 

 

Noi, credenti e non credenti, se non lo abbiamo ancora fatto, dobbiamo cominciare a interrogarci sulle sue parole. Solo da questa apertura, uscendo dalla diatriba tra credenti e non credenti, ma rimanendo nell’umano e nel suo interrogarsi, può cominciare ad aprirsi pienamente, così come sboccia un fiore alla luce, la nostra umanità. 

 

Allora ne sentiremo il pieno profumo. Allora verrà la vera pace.

 

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