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Le parole nella relazione

Troppe parole? Niente parole? Quali parole? Ci interroghiamo su questo, all'interno del complesso universo della relazione.


Le parole nella relazione

da Quaderni Cannibali

del 13 luglio 2007

Che la relazione sia un traffico di parole sembra un’assoluta ovvietà. Poi, se ci si ferma un poco a riflettere, nascono però subito dei problemi, a cominciare dalla percezione che non c’è necessariamente corrispondenza tra quantità di parole e intensità di relazione, fino, paradossalmente, al bisogno di silenzio che, stando ai giornali, sembra tornare prepotente in questi tempi di esasperato cicaleccio mediatico. Si aggiunga una denuncia che arriva sempre più spesso alla grande stampa: «Test, quiz e sms: i ragazzi non sanno più parlare» suona il titolo a piena pagina di un importante quotidiano nazionale del giorno in cui scrivo queste note. Troppe parole? Niente parole? Quali parole? Domande inevitabili, perché se non c’è relazione senza parole, e se, come è facile intuire, la profondità della relazione corrisponde alla serietà delle parole, bisognerà riflettere sul senso e sul peso che hanno le parole nel rapportarsi delle persone tra loro.

 

 

La parola: rischio ed opportunità

 

Il problema non è di oggi. Già le regole monastiche, che dirigendosi a un’esperienza di vita comune esprimono di necessità una pedagogia della relazione, mettono in guardia contro i rischi di un cattivo uso della parola. È scritto in quella di san Colombano: «A ragione saranno condannati coloro che, potendolo, non vollero dire cose giuste, ma preferirono parlare con garrula loquacità di cose cattive, sconvenienti, empie, vane, ingiuriose, non certe, false, polemiche, offensive, turpi, inventate, blasfeme, aspre e piene di raggiri» (Regola dei monaci, II). Una cascata di possibili usi malsani della parola, che sono insieme frutto e causa di atteggiamenti che mettono in serio pericolo una relazione: la superficialità, la falsità, la cattiveria d’animo. La visione è ampiamente pessimista, e del resto il ruvido abate irlandese inserisce queste osservazioni in un capitoletto che, come unico rimedio contro i rischi perversi della «loquacità», non trova di meglio che proporre il «silenzio». In realtà, andando ancora più indietro, e pescando nella ricca letteratura sapienziale della Bibbia, troviamo che la parola non è solo un rischio, ma anche una straordinaria potenzialità: «Una risposta dolce calma la collera, una parola pungente eccita l’ira. La lingua dei saggi fa gustare la scienza, la bocca degli stolti esprime sciocchezze» (Proverbi 15,1-2). La parola può dunque insieme ferire o guarire, ed è solo logico ripetere qui quanto si diceva della relazione: che, perché le parole possano guarire, occorre guarire le parole.

Questa affermazione non è così ovvia. A volte si cade nell’illusione che le parole navighino in un universo astratto, eterno e oggettivo, che si materializza nel dizionario. In realtà bisogna rendersi conto che le parole hanno sì una loro oggettività, ma sono spesso rivestite di pesanti croste emotive. La loro forza comunicativa è tale che può persino sfuggire al nostro controllo: una nostra parola può beneficare o ferire, suscitando in chi ascolta vibrazioni e reazioni che noi non siamo in grado né di conoscere né di prevedere. Non è per seminare disperazione relazionale né per invitare al mutismo che scrivo questo, ma perché almeno ci si renda conto di quanto sia importante tenere d’occhio le parole.

 

 

Il percorso verso la comunicazione interpersonale

 

C’è anche in questo un percorso da fare. Noi cominciamo a parlare ancora prima di sapere quello che le parole vogliono dire. Il bambino si diverte a ripetere suoni, a sentire la propria voce, arriva a usare termini di cui non conosce il senso, ma sa però che suscitano ilarità o sorpresa, per il puro piacere di entrare in relazione con chi gli sta attorno: impara la funzione «comunicativa» della parola ancora prima di apprenderne la funzione «informativa»; non sa quello che dice, ma capisce che ciò che dice crea una relazione. Poi dovrà imparare che le parole hanno un senso. Anche quello che si trova nel vocabolario.

Una tappa importante è dunque l’arricchimento lessicale. Lo si fa ascoltando e leggendo. Imparare una lingua significa infatti rendersi conto che le parole prendono senso dentro una cultura, dentro una tradizione principalmente letteraria. Il decadimento della lettura nel nostro mondo dell’immagine rischia di produrre uno scadimento relazionale. Se il discorso è ridotto a tronconi di frase, a mozziconi di parole, a un lessico di una indigenza abissale, la conseguenza è quella già più volte denunciata: quando il linguaggio è rozzo e ridotto, rozzi e ridotti rischiano presto di diventare anche i sentimenti che nel linguaggio trovano la loro espressione più naturale, creando così un circolo perverso di miseria comunicativa. Perfino l’uso ludico della parola, che è una delle gioie della relazione, finisce per estinguersi, o per ridursi a battute banali, ripetitive, insopportabilmente sceme. Anche per ridere davvero, come si sa, bisogna che chi fa ridere, e chi ride, possiedano in alto grado il dominio della parola.

 

 

La parola «in contesto» relazionale

 

Conquistare l’oggettività della parola, e costruire un deposito lessicale ricco e articolato, è però solo un momento del processo. Il secondo, e in un certo senso il più importante, è diventare sensibili alla parola «in contesto» relazionale. Questo aspetto del parlare costituisce il campo affascinante della moderna scienza linguistica che va sotto il nome di «pragmatica», lo studio cioè di quanto il contesto determini il senso di un’affermazione al di là del puro aspetto di trasmissione di informazioni. Mi spiego con un esempio banale. Quando, al termine di una riunione che va per le lunghe, dico: «Sarebbero le cinque», io non sto dando un’informazione sull’orario (l’ora è quella che è: il condizionale, dal punto di vista «informativo», è stupidaggine pura). La frase equivale a una maniera gentile per far capire all’uditorio o che sono stanco, o che ho altro da fare, e che insomma spero che la gente se ne vada senza che debba usare un brutale imperativo, tipo «andate a casa». Diventare sensibili al contesto è la prima regola per togliere alle parole il loro potenziale d’urto e offesa e cavarne invece la capacità virtuosa di trasmettere gentilezza e benevolenza.

Tra parola e relazione si stabilisce dunque una circolarità che può essere virtuosa o viziosa. Se il rapporto è brutto, o inconsistente, il pericolo di sbagliare è altissimo. D’altra parte, se non si fa attenzione alle parole per quello che significano in sé e per quello che possono significare per la persona che si ha davanti, si rischia di guastare o persino di far finire una relazione. Non si tratta solo di finezze linguistiche, che qualche praticone potrebbe anche percepire come futile civetteria. La posta in gioco in questa «cura delle parole» è molto più grande. Anche perché non è solo questione di farsi capire, ma di comunicare nella veracità e nella maggiore trasparenza possibile, che è quanto dire riconoscere la serietà etica della parola.

È un campo, quello della parola, in cui il nostro tempo sta correndo un pericolo grave. Lascio a Timothy Radcliffe di esprimere la diagnosi e la cura: «Ho l’impressione di una cultura in cui ci lanciamo l’un l’altro parole, riflettendo poco alle loro conseguenze, come bambini che giocano a cow-boy e indiani, senza accorgersi di usare fucili veri. È come se avessimo dimenticato che parlare è un atto morale, che richiede la massima responsabilità. […] Parte della nostra profonda crisi sociale nasce da questo fatto: non crediamo più che le parole rivelino veramente le cose come sono. […] Per costruire la comunione e sanare le ferite non serve mettere al bando le parole brutte; si devono invece usare parole capaci di creare comunione, di accogliere lo straniero, di annullare le distanze. […] Forse noi siamo chiamati a formare delle comunità dove si abbia venerazione per il linguaggio, per le parole sincere, per le parole che costruiscono la comunione. […] La responsabilità per le parole e verso le parole è un compito intrinsecamente etico» (Cantate un canto nuovo, pp. 19-22). Sarebbero stati d’accordo anche san Colombano e l’autore del libro dei Proverbi.

Domenico Pezzini

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