Eccoci qua cari amici, a riprendere il lavoro e, narcisisticamente, a desiderare di essere provocatori.Questa volta offriamo il primo capitolo di un libro di uno studioso che insegna Filosofia all'Università di Strasburgo, tale Mikkel Borch-Jacobsen... un libretto semplice e godibile che però, esaurita la prima edizione, non è stato più ristampato.Probabilmente perchè non interessava a nessuno o forse perchè, pur nella sua brevità, andava a toccare tanti luoghi comuni su psicoanalisi e psicoterapia...
del 10 novembre 2004
 
Eccoci qua cari amici, a riprendere il lavoro e, narcisisticamente, a desiderare di essere provocatori.
Questa volta offriamo il primo capitolo di un libro di uno studioso che insegna Filosofia all’Unievrsità di Strasburgo, tale Mikkel Borch-Jacobsen... un libretto semplice e godibile che però, esaurita la prima edizione, non è stato più ristampato.
Probabilmente perchè non interessava a nessuno o forse perchè, pur nella sua brevità, andava a toccare tanti luoghi comuni su psicoanalisi e psicoterapia.
In parole ancora più semplici, il buon Jacobsen ha fatto (o iniziato a fare) quello che dall’Illuminismo in avanti han tentato di fare con la fede cristiana, e cioè ridurla a semplice mito, minando alla base il Vangelo, tacciandolo di non storicità, di invenzione, di rimaneggiamento e quant’altro.
Quanto meno interessante incontrarsi con uno scritto che fa le pulci a quella che è “la” fede moderna, una fede che ha attecchito anche da noi e che, puntualmente, trova udienza soprattutto per quanto riguarda la conoscenza e la cura del cuore umano.
Quanto meno interessante vedere una scienza un po’ in difficoltà proprio nelle proprie pretese scientifiche; e interessante per noi il poterci cogliere abituati a tanti luoghi comuni, a certezze date per assodate e, soprattutto, ovvie.
Probabilmente polemici, speriamo non ovvi.
 
            So long!
 
 
 
 
Da: Mikkel Borch-Jacobsen, Ricordi di Anna. La prima bugia della psicoanalisi,
Garzanti 1996, pp. 9-18.
 
 
Il nostro mito
 
Ogni società ha i suoi miti terapeutici, atti a spiegare perché ci si ammala e come si guarisce: la nostra non costituisce un’eccezione. Certo non pensiamo più che i nostri mali siano causati da spiriti maligni o da una cattiva stella, nè crediamo al potere curativo dell’imposizione delle mani o alle formule magiche. Ma continuiamo volentieri a credere che certe turbe dette “psicologiche” o “psicosomatiche” siano dovute a eventi traumatici occorsi nella nostra storia personale, e che raccontandoli al medico se ne possa guarire. Riteniamo di dover nominare, narrare, far parlare il male per eliminarlo. L’idea non è nuova (tutt’altro: proviene dalla pratica della confessione e dell’esorcismo cristiani, passando attraverso la “cura d’anima” protestante), ma è divenuta, dopo la “medicalizzazione della confessione” operata da Freud, una delle idee più accettate nella nostra fine di secolo. Chi dunque, oggi, dubita ancora che il nostro passato sia la chiave del nostro presente, e che portandolo alla parola, verbalizzandolo a uso del terapeuta potremo affrancarci di tale peso? Il ricordo libera, il narrare guarisce, la storia redime: l’idea ci pare costitutiva di ciò che chiamiamo “psicoterapia” (nel senso più estensivo del vocabolo), al punto da farci dimenticare che gli immediati predecessori di Freud intendevano con questo termine una terapia fondata sulla “suggestione” della parola del medico e non di quella del malato. E ci sembra così naturale, che l’applichiamo generosamente ai miti terapeutici delle altre società, vedendo in esse forme barbare o rozze di psicoterapia - e così non ci domandiamo neppure per un istante in cosa mai la nostra teoria domestica sia così superiore alle altre.
Infatti, dopo tutto, perché sarebbe meglio raccontare la propria vita piuttosto che farsi estrarre un oggetto dal corpo dallo sciamano? Perché i miei demoni dovrebbero essere per forza dei ricordi e delle ossessioni interne, invece che entità incorporee esterne? Perché la causa dei miei sintomi sarebbe da ricercarsi nel mio passato, piuttosto che magari nel malocchio? E perché nel mio, e non in quello della mia famiglia, del mio clan, di una mitica stirpe? Il fatto è che noi ci poniamo raramente simili domande. E quando lo facciamo, ci rispondiamo per lo più alla stessa stregua di un qualsiasi informatore indigeno, con un racconto che dovrebbe giustificare l’insieme delle nostre credenze. Tale racconto può variare all’infinito nei dettagli, ma la sua forma-madre è sempre la medesima: “Un giorno x ha raccontato y a z, ed ecco, la sua sintomatologia è scomparsa per sempre”. Certo avrete riconosciuto il racconto fatto da Josef Breuer sulla spettacolare guarigione della sua paziente, Anna O.: “Quando, per la prima volta, in seguito  a un suo discorso casuale non provocato, nell’ipnosi serale, scomparve un disturbo che durava già da lungo tempo, fui molto sorpreso. Eravamo in estate, e la paziente aveva sofferto parecchio per la sete; infatti, senza che sapesse indicare un motivo, bere le era diventato tutto a un tratto impossibile. Prendeva in mano il bicchiere di acqua agognato, ma non appena lo avvicinava alle labbra lo respingeva come un’idrofoba (...) Questo durava da circa sei settimane, quando avvenne che una volta, in ipnosi, ragionasse della sua dama di compagnia inglese, che non amava, e raccontò allora, visibilmente inorridita, che una volta era entrata nella sua stanza e aveva visto il suo cagnolino, quella bestia ripugnante, bere da un bicchiere. Non aveva detto niente perché voleva essere gentile. Dopo avere poi sfogato energicamente la rabbia che le era rimasta dentro, chiese da bere, bevve senza inibizione una grande quantità d’acqua, e si svegliò dall’ipnosi col bicchiere alle labbra. Il disturbo con ciò era scomparso per sempre” (J. Breuer, Fraulein Anna O., in Studi sull’isteria).
Certo siamo ancora ben lontani dai racconti di “seduzione” infantile che Freud otterrà dai suoi pazienti negli anni 1896-1897, e più ancora dalle sensazionali confessioni d’incesto e di “abuso satanico rituale” divenute di recente un topos presso i terapeuti americani. Eppure è già qui, nel racconto quasi anodino di Anna O., che nasce l’idea che “l’isterico soffra soprattutto di reminiscenze”, come affermano Breuer e Freud nei loro Studi sull’isteria, e che tali ricordi traumatici possono risultare purificatori sotto ipnosi. Questa incrollabile teoria subirà in seguito parecchie trasformazioni: il “trauma” indeterminato di cui parlava Breuer sarà concepito da Freud come un’aggressione sessuale reale, subita nella prima infanzia, poi come una fantasia connessa con la sessualità perversa infantile, infine come un fantasma di matrice edipica. In quanto all’ipnosi catartica, sarà abbandonata in favore del metodo delle “libere associazioni”, esso stesso progressivamente ricentrato attorno all’analisi delle resistenze e del transfert. Eppure nessuno di questi rimaneggiamenti rimetterà mai in discussione l’idea fondamentale, seminale: ricordarsi è guarire. Guarire da che cosa? Dall’amnesia che “dissocia” lo psichismo, dalla dimenticanza che rompe il continuum della mia storia, impedendomi così di essere me stesso. Dopo la miracolosa guarigione di Anna O., e a causa di essa, la dimenticanza ha cessato d’essere una semplice lacuna della memoria per diventare, sotto i diversi nomi di “psichismo dissociato”, “inconscio” e “rimosso”, la forma suprema del ricordo, nonché la stessa chiave della nostra identità di soggetti.
Freud stesso lo riaffermerà senza mezzi termini nel 1917: “La scoperta di Breuer è ancor oggi la base della terapia psicoanalitica. L’ipotesi che i sintomi scompaiono quando si sono rese coscienti le loro determinanti inconsce è stata confermata da tutte le ulteriori ricerche, benchè quando si intraprende il tentativo di applicare questa teoria nella pratica si incontrino le complicazioni più sorprendenti e inattese” (S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi). E siamo forse più avanti oggi, un secolo dopo la pubblicazione degli Studi sull’isteria? Non sembra proprio, a giudicare almeno dallo spettacolare come-back dell’eziologia traumatico-dissociativa delle nevrosi negli Stati Uniti, col suo corteggio di “ricordi traumatici” abreati sotto ipnosi. Anche se i teorici del recovered memory movement si riferiscono più volentieri a Janet che a Freud o a Breuer; è chiaro che la loro assoluta fiducia nella rievocazione e nel suo potere “reintegrativo” ci riconduce direttamente alla talking cure di Anna O., piuttosto che alla manipolazione dei ricordi praticata dall’autore dell’Automatismo psicologico. Se ne potrà avere conferma leggendo la seguente descrizione del trauma work contenuta nell’ultimo libro di Judith Herman: “Durante la seconda fase del processo di guarigione, il superstite racconta la storia del trauma. Questo lavoro di ricostruzione trasforma di fatto il ricordo traumatico, in modo tale da poter essere reintegrato nella biografia del superstite. A partire dai frammenti di immaginario e di sensazione congelata, il paziente e il terapeuta ricompongono lentamente un racconto strutturato, dettagliato, orientato nel tempo e situato in un contesto storico. L’obiettivo finale è quello di verbalizzare la storia, immaginario compreso” (J. L. Herman, Trauma and Recovery).
E la situazione muta passando all’altra estremità dello spettro freudiano, quella dei lacaniani o dei narrativisti americani (Shafer, Spence)? Consapevoli del carattere ricostruttore ed “ermeneutico” della memoria (e istruiti dagli insuccessi di Freud in tal senso), essi non credono più alla “verità storica” dei ricorsi ottenuti sul lettino. Lacan lo diceva sin dal 1953, giustamente a proposito della talking cure di Anna O. e della “scoperta dell’evento patogeno detto traumatico”: “Se tale evento fu riconosciuto quale causa dei sintomi, è perché la verbalizzazione dell’uno (nelle “storie” della malata) determinava la rimozione dell’altra. Resta il fatto che nello stato ipnotico essa (la verbalizzazione) è scissa dalla presa di coscienza, e ciò sarebbe sufficiente per una revisione di questa concezione dei suoi effetti. Ma come i sostenitori dell’Aufheburg comportamentalista non danno qui l’esempio per dire che a loro non pertiene sapere se il soggetto si sia rammentato di qualsivoglia cosa? Ha soltanto raccontato, l’ha fatto passare nelle parole o, per maggior precisione, nell’epos al quale attualmente egli rapporta le origini della sua persona. Siamo categorici: non si tratta, nell’anamnesi psicoanalitica, di realtà, ma di verità, poiché è l’effetto di una parola piena il riordinare le contingenze passate dando loro il senso delle necessità future” (J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti).
In altri termini, importa poco la reale esattezza (riproduttrice, constatativa) del ricordo, importa soltanto la “verità narrativa” (produttrice, performativa) del racconto mediante il quale il soggetto costruisce la sua storia ad usum dello psicoanalista. Come scrive anche Donald Spence: “La verità del racconto risiede più nel presente e nel futuro che nel passato. Ci interessa in primo luogo l’effetto che produce, più che le sue caratteristiche passate. Via via che le associazioni e le interpretazioni sono inserite nel racconto che si va sviluppando, divengono vere facendosi familiari, e danno un senso alle parti slegate della biografia del paziente di considerare la propria vita come una storia continua, coerente e che a ciò ha dato un senso”.
Resta il fatto che Lacan, come del resto i suoi attuali omologhi narrativisti, continua a far dipendere quel che nel 1953 chiamava “l’integrità della guarigione” da una parola narrativa, cioè - e che lo si voglia o no - da una storicizzazione e memorizzazione. Concepite sui modi di una ricostruzione dialettica e “intersoggettiva” piuttosto che come semplice riproduzione fotografica del trauma, anche in Lacan e nei narrativisti l’anamnesi e la rievocazione restano i fondamenti e la “molla del progresso terapeutico”: “Ciò che insegnamo al soggetto a riconoscere come il suo inconscio, è la sua storia - cioè lo aiutiamo a perfezionare la storicizzazione attuale dei fatti che già hanno determinato nella sua esistenza un certo numero si svolte storiche” (J. Lacan, Scritti). E ancora: “Sta esattamente in questa assunzione da parte del soggetto della propria storia, che si costruisce mediante la parola rivolta all’altro, il fondamento del nuovo metodo a cui Freud dà il nome di psicoanalisi nel 1895” (J. Lacan, Scritti).
I miti hanno la pelle dura, e ne abbiamo qui un esempio convincente. Infatti, se è vero che la cura di Anna O. consisteva (in parte) nel raccontare dei “ricordi” a Breuer, è semplicemente falso che tale trattamento l’abbia liberata dalla sua sintomatologia. La cosa è ben nota, da quando Ernest Jones l’ha rivelata al pubblico nel primo volume della sua biografia di Freud, apparsa nel 1953, per poi essere in seguito ampiamente confortata dalle minuziose ricerche storiche di Henri Hellenberg, Albrecht Hirschmuller, Ellen Jensen e Peter Swales. Nessuno può oggi ignorare che il trattamento di Anna O. (il cui vero nome era Bertha Pappenheim) fu ben diverso da come ce l’hanno riportato Breuer e Freud - tanto diverso, anzi, che ci si può legittimamente domandare che cosa rimanga del caso fondatore della psicoanalisi moderna, dopo essere stato metodicamente contestato dagli storici della psicoanalisi. Questo ultimo fatto, peraltro, non ha impedito a quella storia e alle sue varie propaggini di perpetuarsi e di proliferare nel discorso psicoterapeutico (e oltre: nella cultura, nella maniera in cui concepiamo il nostro rapporto col passato e la storia, nei comportamenti che adottiamo di fronte agli eventi “traumatici” della nostra esistenza). Paradossalmente, la storia sulla quale si fonda la nostra moderna fiducia nella virtù redentrice del rammentare e del raccontare ha caparbiamente resistito alla sua contestualizzazione. Tutto il mondo, ormai “sa bene” che la guarigione di Anna O. è un mito, ma tutti si affrettano a dimenticarsene qualora si tratta di trarre delle conclusioni teoriche, pratiche, istituzionali e medico-legali.
I miti - è assodato - sono impermeabili alla storia, poiché il loro modo di affermarsi non ha niente a che vedere con la critica storica. Non hanno alcun bisogno di essere garantiti da documenti o testimonianze, basta loro (proprio come le dicerie) di essere ripetuti, ribattuti, re-citati. Non è certo un fatto contingente che in tal senso Freud parlasse, a proposito dei grandi “casi” fondatori della psicoanalisi, di “paradigma”, di “modello” o ancora di “campione”. Le storie di tali casi sono più modelli da imitare, sia per gli psicoanalisti sia per i pazienti, che resoconti su trattamenti (peraltro inverificabili, in quanto protetti dal segreto professionale dei medici). In altre parole, la loro funzione non è storico-scientifica, ma assertiva ed emulatrice: ogni nuova versione del modello lo conferma e lo giustifica retroattivamente. Poiché ogni possibilità di verifica e di controllo sperimentale è esclusa a priori, è chiaro come sia solo la reiterazione a catena del modello a renderlo valido. Ciò vale per tutti i grandi casi paradigmatici di Freud e, evidentemente, ancora di più per quel protoparadigma rappresentato da Anna O. Dopo tutto, è stata l’imitazione, da parte di Freud e dei suoi pazienti, del trattamento di Bertha Pappenheim ad aver retroattivamente “provato” la validità di questa cura, e ad aver convinto Breuer a pubblicare la sua storia del caso! Il protoparadigma, come qualsiasi altro mito delle origini, è fuori dal tempo, dalla memoria e dalla storia, perché non ha mai avuto luogo prima della sua ripetizione. La storia della psicoanalisi è una Imitiazione di Anna O., come si dice Imitazione di Cristo.
A qual fine, diranno allora i difensori della fede, preoccuparsi della storia di Bertha Pappenheim, dato che è stata la Storia di Anna O. ad aver innescato il processo di emulazione da cui è uscita la psicoanalisi? Questa astuta argomentazione viene spesso evocata dai cortigiani della psicoanalisi, e torna semplicemente a chiederci di diventare a nostra volta dei fedeli, dei re-citatori del mito: “Mito non significa qui (nella storia di Anna O., come spesso accade quando si oppone il mito alla storia, un’illusione, la maschera calcolata di una verità intenzionalmente dissimulata. Mito sta qui a significare la struttura che permette di raccontare la storia delle origini, della nascita della psicoanalisi” (L. Appignanesi - J. Forrester, Freud’s women). Non si potrebbero usare parole più adatte, per dimostrare quanto ciò che solo importi, per il fedele, sia la re-citazione del mito. Ma si noterà altresì come gli importi, e molto, che tale mito sia primigenio, fondatore: a Freud non piace che la storia di Anna O. sia in sè l’imitazione di un’altra storia! La recitazione mitica si basa su una lacuna di memoria, nella misura in cui presuppone un inizio e una nascita assoluti, prima dei quali non v’era nulla. In tal senso la peggiore offesa che si possa arrecare al narratore non è quella di fargli notare che la sua storia di creazione è un mito, casa a lui in fondo risaputa (i credenti non sono meno cinici dei preti); il vero crimine di leso mito è dimostrare che tale racconto ne ripete altri, i quali a loro volta ne ripetono altri ancora, e così via.
 
 
 
 
Redazione Cannibali
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