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Le ragioni della Carità

A proposito delle “ragioni” mi viene alla mente quanto si legge nella prima lettera di Pietro, là dove parla ai cristiani investiti dalla persecuzione: “Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi. Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi”


Le ragioni della Carità

da Teologo Borèl

del 12 ottobre 2008

Ho nei miei ricordi di Milano momenti di singolare intensità. Penso alla Lettera Pastorale “Farsi prossimo”. Penso al Convegno di Assago sullo stesso tema. Furono tempi nei quali partecipare o condurre un convegno dava la percezione che non si stesse semplicemente aderendo con buona volontà a una iniziativa. Molto di più, l’esperienza intima e vera era quella di vivere in tempo reale qualcosa di bello e di grande che veramente ci coinvolgeva, ci appassionava e poteva diventare un fattore di cambiamento nella mentalità e lo stile ecclesiale. Anche per questi ricordi, che rimangono vivi in me, partecipo con gioia a questo Convegno.

Guardando a voi mi sembra di vedere la Chiesa della carità. Credo che questo corrisponda al vero. Voi state esprimendo la carità evangelica. Voi sostenete l’educazione delle comunità cristiane a privilegiare questo tratto del loro volto. Ma ciò che mi avete chiesto di approfondire nella relazione di stamattina sta alla radice di tutto questo. Mi avete chiesto di parlare delle ragioni della carità.

 

Ragioni della speranza, ragioni della carità

 

A proposito delle “ragioni” mi viene alla mente quanto si legge nella prima lettera di Pietro, là dove parla ai cristiani investiti dalla persecuzione: “Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi. Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3,14-15).

Qual è questa ragione? Pietro la indica già in apertura della sua lettera: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Cristo, per una speranza viva” (1 Pt 1,3). Questo fondamento della speranza è talmente rilevante per cui le svariate prove a cui i credenti vengono sottoposti dalla persecuzione accresce la genuinità della fede, che è molto più preziosa dell’oro e che, attraverso le prove, viene come immersa nel crogiolo. Perciò si aggiunge: “Tutto questo torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo” (vv. 6-7).

Al fondamento della speranza - che è la fede - Benedetto XVI ha dedicato la sua seconda Enciclica. La Chiesa italiana sta pure tenendo in primo piano la speranza. Lo ha fatto nel Convegno di Verona del 2006. Io stesso lo sto facendo, nella Diocesi di Novara, per invitare soprattutto gli adulti ad essere “testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo”.

Ma voi tutti ricordate qual è stato l’accento che la Chiesa italiana ha posto in evidenza nello scorso decennio. Era indicato con questo titolo: “Evangelizzazione e testimonianza della carità” (1990). Si affermava in modo incisivo: “Sempre e per natura sua la carità sta al centro del Vangelo e costituisce il grande segno che induce a credere nel Vangelo” (n. 9). Stimolato da quel documento, io stesso ho scritto una Lettera Pastorale dal titolo: “Il grande segno”. Se guardo all’indice degli orientamenti dei Vescovi italiani, vedo che la prima parte è dedicata alla sorgente del Vangelo della carità e che, già dalla prima pagina, si fa riferimento alla croce di Cristo” (n. 12). Si va dunque subito al cuore della questione, come cercherò di fare anch’io. Non si manca poi di distendere la riflessione sulla vita della nostra Chiesa in relazione alla carità. Nel 2005 Benedetto XVI ha dedicato la sua seconda Enciclica alla carità. Il titolo dice già tutto con parole che costituiscono il vertice di tutta la rivelazione: “Deus caritas est”. Il testo affronta, nella prima parte, ciò che costituisce “il centro della fede cristiana: l’immagine cristiana di Dio”. Nella seconda si sofferma sull’esercizio dell’amore da parte della Chiesa quale comunità di amore. Mi sembra che in questo vostro Convegno si dia spazio a entrambi i sentieri ora ricordati. A me tocca considerare da vicino il primo sentiero.

 

Le ragioni della carità: una risposta attraverso il racconto

 

Mi pongo dunque la domanda: quali sono le ragioni della carità? Si potrebbero seguire diverse piste nel dare risposta a questo interrogativo. Io privilegio quella del racconto. Vorrei lasciare la parola a qualche testimone. Evidentemente questa scelta non permetterà di svolgere un discorso sistematico. Ma non è da sottovalutare l’eloquenza dei testimoni e dei santi. Essi hanno una singolare capacità di persuaderci e di motivarci interiormente, alimentando la passione o il gusto della carità mentre la esprimiamo con il dono di noi stessi. Intravedo almeno quattro ragioni della carità.

 

I poveri

Una prima ragione: le necessità degli altri. Proprio in questi giorni ho ricevuto in dono una biografia di don Luigi Guanella. C’è anche una dedica, espressa con le parole del santo: “Fermarsi non si può finché ci sono i poveri da servire”.

 

La crescita delle persone

Una seconda ragione: il dinamismo profondo che permette alla persona di crescere. Giovanni Paolo II la indicò alla Giornata Mondiale della Gioventù del 2000 a Roma sospingendo i giovani a liberarsi dalla prigione dell’individualismo e a scoprire che si cresce chinandosi sugli altri, come fece il samaritano.

“Cari amici – diceva ai giovani radunati nella veglia della Giornata Mondiale della Gioventù del 2000 – in voi vedo le sentinelle del mattino in quest’alba del terzo millennio. Nel corso del secolo che muore, giovani come voi venivano convocati in adunate oceaniche per imparare a odiare, venivano mandati a combattere gli uni contro gli altri. I diversi messianismi secolarizzati, che hanno tentato di sostituire la speranza cristiana si sono poi rivelati veri e propri inferni. Oggi siete qui convenuti per affermare che nel nuovo secolo non vi presterete a essere strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace, pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete a un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti”. Agli stessi giovani, nell’omelia del giorno dopo, citò una parola straordinaria di santa Caterina da Siena. Dice tutta la speranza e il sogno del Papa nei confronti dei giovani: “Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in tutto il mondo”.

 

Il volto del nostro Dio

Una terza ragione: il Dio nel quale noi crediamo. Mi viene alla mente san Vincenzo de’ Paoli. Egli si interpretava come un missionario del Vangelo presso coloro che non avevano mai potuto conoscerlo o che lo avevano dimenticato. Così nacquero le “missioni al popolo”. Ognuna era come una “nuova fondazione” del cristianesimo nei vari villaggi di Francia che egli andava visitando.

Ma in lui ardeva una scelta che accompagnava e qualificava questo primo impegno. “Per dare coronamento a tale iniziativa – scrive un suo biografo – i missionari proponevano la meta insostituibile di ogni vocazione cristiana: la carità. Le missioni terminavano invariabilmente con la fondazione della Confraternita della carità. Inizialmente erano concepite per canalizzare il fervore femminile; ben presto Vincenzo si rese conto che anche gli uomini potevano essere arruolati per quella promettente mobilitazione della carità”. Come si vede, qui sono esplicitamente connesse la fede e la carità; la dedizione agli altri e lo spirito apostolico che arde perché a tutti sia dato di conoscere il Signore, vero tesoro nascosto nel campo della vita umana. Veramente si potrebbe dire che san Vincenzo de’ Paoli aveva nel cuore l’evangelizzazione e la testimonianza della carità. La fede fondava la carità e la carità ne era la necessaria espressione.

 

Dare un valido sostegno ai non credenti

Una quarta ragione: dare sostegno anche ai non credenti (o che pensano di essere tali); anzi, a tutti gli uomini di buona volontà. Le ragioni profonde della carità, che il cristiano conosce, possono diventare un valido sostegno anche per loro.

A questo proposito, ricordo che una volta mi venne posta la domanda: “Nel mio gruppo di volontariato c’è anche qualche non credente. Quale differenza c’è tra noi e loro, se tutti siamo impegnati nell’amore del prossimo?”. Risposi dicendo di ringraziare Dio del fatto che anche i non credenti si aprono alla carità (e magari con una sollecitudine maggiore della nostra). Aggiunsi che c’è una profonda originalità nel cristiano. Non è dovuta semplicemente alla sua bravura, ma al Dio che ha incontrato. Per il cristiano c’è una ragione profondissima. Sta nella fede che Deus caritas est.

Mi sembra bello evocare qui un altro testimone della carità: don Zeno Saltini, fondatore di Nomadelfia. Egli parla della Chiesa e della vocazione che è stata donata a coloro che “non da volere della carne, né da volere dell’uomo, ma da Dio sono nati” (Gv 1,13). Si rivolge a coloro che intendono obbedire al nuovo comandamento evangelico: “Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi” (Gv 13,34). E propone, come caratteristica fondamentale che “devono possedere i collaboratori di Cristo in Cristo a fondare la Nuova Civiltà, quella di vivere individualmente, familialmente, socialmente, politicamente il rapporto umano secondo la preghiera sacerdotale di Cristo: «Padre, tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie» (Gv 17,10); «Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità (consummati in unum) e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» (Gv 17,23)”.

***

Come si vede, le ragioni che ho indicato, senza pretesa di completezza, sono distinte ma non separate. È alla ragione teologica che io ora mi dedicherò. E come fin qui ho citato diversi uomini di Dio, così farò anche per quanto ora aggiungerò. Vorrei lasciar parlare un uomo che ha sondato e vissuto con singolare intensità le ragioni della carità. Mi riferisco ad Antonio Rosmini, beatificato lo scorso novembre 2007 a Novara. Era un filosofo. Era un teologo. Ed era un santo. Al cuore di tutto, persino della sua filosofia, sta l’amore.

 

Riflessione e testimonianza di Antonio Rosmini

 

Di Rosmini mi limito a ricordare due date e due testi. Le date sono 1828 e 1851. Unico è il luogo nel quale, a distanza di molti anni, vennero scritti i due testi: Domodossola (Sacro monte Calvario). Il primo si trova nelle Costituzioni dell’Istituto fondato da Rosmini. Il secondo in un discorso da lui rivolto ai novizi.

 

“Societas a Caritate”

Siamo nel 1928. Rosmini ha 31 anni. È già famoso nel mondo civile ed ecclesiastico per la sua straordinaria intelligenza. Da Rovereto, dove era nato, si era recato a Milano due anni prima. L’intento era quello di fare conoscenza e stringere amicizia con uomini di cultura della città e continuare i suoi studi. Così nacque l’amicizia con Manzoni e anche con Mellerio, nativo di Domodossola, che già era stato governatore della città di Milano. Era lontanissima da Rosmini l’idea di fare carriera: cosa che pur poteva facilmente realizzarsi per lui. Nel 1823 era stato invitato dal patriarca di Venezia ad accompagnarlo a Roma. Venne presentato al Papa Pio VII. Conobbe il futuro Pio VIII. Avrebbe potuto rimanere a Roma. Ma lo escluse. La sua mente e il suo cuore erano altrove. Era concentrato sulla cura della vita spirituale e sullo studio della filosofia. Già quando era adolescente e aveva preso la decisione di diventare sacerdote, suo papà, di famiglia alto borghese, gli disse che avrebbe accettato tale scelta solo se fosse andato a Roma e avesse preso la strada della carriera ecclesiastica. Ma già a quell’età Rosmini disse di no. Voleva essere prete e basta. E così, con stupore e anche scandalo degli amici di Milano, il 18 febbraio 1828 parte da Milano alla volta di Domodossola. Viaggia tutto il giorno su una carrozza del servizio pubblico (postale). Il cielo era nuvoloso. Cadevano fiocchi di neve. L’indomani salì al colle detto Calvario. Due giorni dopo era il mercoledì delle ceneri. Iniziava la Quaresima. La volle vivere nel digiuno, nella preghiera e tra privazioni di ogni genere. In quelle settimane diede inizio al suo nuovo Istituto. Lavorò per tutta la Quaresima a stendere le Costituzioni della nuova famiglia religiosa. Terminò il lavoro dopo Pasqua, il 22 aprile.

Ciò su cui mi soffermo, in questo momento, è un punto solo e assolutamente qualificante: il nome dato al nuovo Istituto, Istituto della Carità. Per capirne bene il senso occorre guardare al testo originale, che è in latino: “Societas a Caritate”. Non dice “societas caritatis”, bensì, “a Caritate”. Certo, Rosmini non mancherà di dare spazio a illustrare in quali forme l’Istituto dovrà esprimere la carità, e parlerà di tre sentieri: la carità intellettuale, la carità spirituale, la carità temporale. Ma quello che anzitutto gli sta a cuore è di mettere in evidenza ciò costituisce il fondamento, la ragione di tutte quelle forme espressive della carità. Ha ben scritto G. Cristaldi, studioso di Rosmini e docente per molti anni all’Università Cattolica di Milano: “Occorre anzitutto riflettere sul titolo, così come suona in latino: Societas a Caritate. Non è solo della carità o per la carità, ma ancor prima dalla Carità. Il principio genetico della famiglia rosminiana non è semplicemente quella realtà giuridica e canonica che si chiama Istituto, ma qualcosa di soggiacente: la carità divina, dell’amore di Dio, del fatto che Dio è amore e che Gesù Cristo è l’incarnazione e la manifestazione di questo amore, soprattutto nella croce (cfr. G. Cristaldi, Temi rosminiani, p. 101).

 

Le quattro dimensioni della carità

A questo testo ne aggiungo un altro, di grande ricchezza teologica e spirituale: è il Discorso sulla carità. Rosmini ne parla il 10 ottobre 1951 nella chiesa del Sacro Monte Calvario di Domodossola ai novizi perché pongano al centro della loro vita ciò che sta al centro di tutta la rivelazione cristiana. La trattazione del tema è molto ampia. Io mi limito a porre in evidenza le ultime pagine. Vi si trova il commento a un testo dell’apostolo Paolo: Ef. 3,17-19. Si tratta di una formula di preghiera che viene formulata dall’apostolo dopo che egli ha illustrato il significato profondo del suo ministero: quello di manifestare il disegno di Dio, nascosto nei secoli e svelato nella persona di Gesù Cristo.

Ecco il testo: “Per questo io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la larghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”.

Rosmini commenta il testo paolino avvalendosi anche di quanto scrisse san Tommaso d’Aquino, con la sua caratteristica stringatezza, nelle lezioni da lui svolte sulla lettera agli Efesini. Il luogo nel quale Rosmini svolse questo “discorso sulla carità”, e cioè la chiesa del Sacro Monte Calvario di Domodossola, dice già da solo quanto lo sguardo al Crocifisso potesse suggerire ai novizi dell’Istituto l’atteggiamento interiore più idoneo per ben affrontare il cammino che stavano intraprendendo.

Scrive dunque Rosmini che l’apostolo Paolo prega perché i cristiani della comunità di Efeso comprendano la grandezza dell’amore di Dio e di Cristo. La larghezza di tale amore è simbolo della carità di Dio che abbraccia tutti gli uomini. La lunghezza è “simbolo della carità di Dio che dura in eterno”. L’altezza è “simbolo della carità di Dio che tende ad innalzare la creatura intelligente al sommo bene ed all’ultima perfezione”. La profondità è “simbolo della carità di Dio che, con disegni di inarrivabile sapienza e con misteri nascosti nei secoli - come fu quello della croce - compie l’opera che si è proposta” (in A. Rosmini,  Dio è amore, p. 110).

Riprendo brevemente queste affermazioni, ampliandole un poco. Ma osservo, anzitutto, che parlare delle quattro dimensioni dell’amore di Cristo non significa ridurre la teologia a geometria. In verità, come fanno notare alcuni commentatori, questa immagine sta a dire che dell’amore di Cristo noi comprendiamo solo qualche cosa, e mai interamente perché “sorpassa ogni conoscenza”. Paolo lo scriverà anche nella lettera ai Romani: “O profondità della ricchezza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rm 11,33). Osservo inoltre che, nella pagina della lettera agli Efesini, l’apostolo Paolo, e Rosmini con lui, non parlano immediatamente del nostro amore verso Dio, ma di quello di Dio e di Cristo verso di noi. Certamente tocca a noi lasciarcene permeare e visibilizzarlo, ma il discorso non incomincia da noi.

 

La larghezza

“La larghezza dell’amore di Cristo è quella che gli ha fatto dire dalla croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno»”. Scrive Rosmini: “Chi potrà indicare un termine alla larghezza della carità? Nessuno sfugge alle immense braccia della carità, se non fossero quelli che da se stessi si sono divisi per sempre da essa. Che se ci potesse essere ragione di escludere qualcuno dalla nostra carità, ascoltando le sole voci della natura, dovrebbero essere i nostri nemici. Ma ai nostri orecchi risuona una voce ben nota e dolcissima: «Io poi vi dico: amate i vostri nemici e fate del bene a quelli che vi odiano, e pregate per quelli che vi perseguitano e calunniano, affinché siate figli del Padre vostro, il quale fa sorgere il suo sole sui buoni e i cattivi. Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro»” (Mt 5,44ss; cfr l.c., pag. 134).

Molti ostacoli si oppongono, dentro di noi, a sperimentare questa larghezza dell’amore. Talvolta basta poco perché le nostre braccia non rimangano aperte e inchiodate, ma tendano a chiudersi, persino per banali motivi. La grazia da chiedere è quella della magnanimità che sa riconoscere il bene da chiunque venga compiuto, che affronta l’odio con l’amore, che vince con il bene il male.

 

La lunghezza

Scrive Rosmini: “Che cosa significa la lunghezza della carità? Riconoscere in essa la perseveranza senza confini, e quella tempra così forte che da nulla può essere vinta”. Rosmini ricorda ampiamente la pagina dell’apostolo Paolo che si trova in 1 Cor 13,8ss ed è un inno alla carità: “Con questa costanza ci amò il Signore Gesù Cristo. Egli non si lasciò vincere dall’incomprensione e dal rifiuto degli uomini. Anzi, si vestì, come di un abito, dei peccati del mondo, giunse a versare il suo sangue, mostrando così l’amore vittorioso persino sulla morte”. In Cristo la perseveranza nell’amore fu piena, manifestando così l’amore di Dio, che è eterno (cfr l.c., 138-139).

Ai suoi discepoli, nel giorno in cui emettevano i voti religiosi, Rosmini diceva: “Voi promettete di non cessare mai di amare, di non stancarvi mai di fare del bene, di non levare mai la mano dalle opere buone che avete incominciato, di non permettere che si estingua il fuoco sacro nel vostro cuore e vi rimanga solamente la tiepida o la fredda cenere”.

La lunghezza è dunque l’amore perseverante, quello che dura nel tempo e non è fuggevole come la nuvoletta del mattino, che ben presto svanisce. So bene che oggi tutto congiura contro l’amore perseverante. Basti pensare all’amore degli sposi. Si può giungere persino a vergognarsi di dire che, come sposi, si vive un amore fedele. Questa parola sembra vecchia, per nulla moderna. Ma il sentiero sul quale Dio ci invita ad inoltrarci è l’amore di Gesù, nel quale il Padre mantiene le sue promesse. È quello dell’amore che sfida il tempo, che prende la forma della responsabilità, che ci sollecita a farci carico di noi stessi e degli altri, che non si riduce a qualche emozione e diventa invece coinvolgimento della mente e del cuore, dei pensieri e delle scelte concrete.

 

L’altezza

Aggiunge Rosmini: “Ma non finisce qui la grandezza della carità”. Essa si manifesta anche in una terza dimensione, che è quella dell’altezza. Se la larghezza della carità e la sua lunghezza ci fanno pensare al suo esprimersi nello spazio e nel tempo, l’altezza della carità è un’immagine che ci invita a contemplare “la sublimità del suo fine. Noi non ameremmo noi stessi dell’amore di carità, se questo amore non ci conducesse, come a suo termine, alla carità sfolgorante in cielo, dove essa stessa è beatitudine. Noi non ameremmo dell’amore di carità i nostri simili, se i nostri affetti e i nostri sforzi a loro vantaggio non avessero parimenti ad ultimo scopo la loro eterna salvezza. Questo è ‘l’unum’ necessario di cui parlò Gesù a Marta, nel quale si concentrano i raggi della carità” (l.c., 139s). Il Verbo di Dio “discese personalmente in terra e si fece carne, insegnò, patì, morì, risorse, ascese al cielo e mandò lo Spirito Santo dell’amore per salvare il genere umano, aggregare gli uomini attorno a suo Padre, affinché lo amino e lodino in eterno” (l.c., 140), così che Dio «sia tutto in tutti» (1 Cor 15,24).

L’altezza dell’amore di Dio e di Cristo per noi sta nel disegno divino della salvezza dell’uomo. Sta nella vocazione divina che ci è data. Sta nel nome nuovo che in Cristo riceviamo. Come scriveva Paolo agli efesini, Dio “ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi fin dalla prima creazione del mondo”. Scoprendo questa intenzione di Dio su di noi, noi diventiamo persone abitate dalla speranza. Con tale luce e gioia interiore possiamo affrontare tutte le circostanze della vita, anche le più difficili.

Chi scopre l’altezza dell’amore di Dio è posto in condizione – dice Rosmini – di poter affrontare le molteplici contraddizioni di cui è segnata la storia (l.c., 141s). In essa si compie un parto doloroso, ma alla fine gioioso. Come Gesù diceva ai suoi discepoli: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più delle afflizioni per la gioia che è venuto al mondo un uomo” (Gv 18,21; l.c., 143). “Quando la meta finale della nostra vita diventa l’ispirazione del nostro cammino, questo riferimento semplicissimo trova applicazione nelle più svariate forme della carità: quella temporale, quella intellettuale, quella morale e soprannaturale” (l.c., 145).

 

La profondità

Scrive Rosmini: che cos’è questa profondità, “se non umiliarsi senza alcun limite? La superbia, o fratelli, ignora la carità” (l.c., 146). Cristo ce ne ha dato testimonianza, come scrive l’apostolo Paolo ai Filippesi: “Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini, facendosi obbediente fino alla morte di croce”. Aggiunge Paolo: “Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2,6-9).

Così si vede come, in Cristo, la sublime altezza della carità domandi la profondità smisurata del dono di sé fino al sacrificio. Come dice l’evangelista Giovanni nella prima lettera: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,18; l.c., 146). “Ma da dove trae la natura della carità questa tempra, del vivere per così dire nel fuoco e sfavillare più bella nella profondità del dolore? Non da altro che da quella sua incommensurabile altezza, di cui vi ho parlato poco fa, o fratelli. L’altezza produce la profondità della carità” (l.c., 147).

 

La croce

Le quattro dimensioni dell’amore di Cristo fin qui evocate sono espresse dal segno della croce: il legno trasversale dice la larghezza, quello verticale la lunghezza, la parte alta, a cui si appoggia il capo di Cristo, l’altezza; e infine, quella parte della croce che resta nascosta nella terra, ma sostiene tutto il peso, è la profondità. Così ne parla Rosmini e, con lui, già secoli prima, Tommaso d’Aquino.

La rappresentazione di Gesù crocifisso non era per Rosmini uno fra i tanti temi religiosi su cui si poteva fermare la sua attenzione. Era molto di più. La croce era la cattedra suprema della rivelazione di Dio; Gesù crocifisso era il luogo di sintesi della sua fede, della sua condotta, della sua azione, e anche del suo lavoro intellettuale perché il segreto profondo dell’essere e il suo nome più vero è – come ha scritto l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera – Amore.

Ne Crocifisso stanno dunque, in suprema sintesi, le ragioni della carità. Rosmini conclude il suo discorso con questa esortazione: “Possa questo augusto segno (della croce) rimanere sempre impresso nelle menti dei tutti noi, quasi una breve formula che compendia in se stessa tutta la dottrina sublime della carità” (l.c., 150s).

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H.U. von Balthasar ha scritto, nel 1966, un’opera intitolata “Solo l’amore è credibile”. Nella presentazione della traduzione francese leggo: “Il motivo della credibilità del cristianesimo, ciò che rende veramente il cristiano «degno di fede», è l’amore divino stesso che viene attestato nella parole, nella vita e nella morte del Cristo. La fede è la risposta dell’uomo all’amore divino. Questa risposta è pura adorazione, pura azione di grazie. Essa deve informare tutta l’esistenza dell’uomo e tutta la sua attività sul piano religioso come sul piano profano”.

 

Chiesa dalla carità

Triuggio, 13 settembre 2008

mons. Renato Corti

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