La vita della Chiesa abbraccia un campo in cui essa rimane libera dallo scopo nel senso proprio della parola. Questo campo è la liturgia. La liturgia vuole formare, ma non attraverso un sistema di influssi educativi calcolato appositamente in vista del fine, bensì...
del 20 febbraio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
R. Guardini, Lo spirito della liturgia, Morcelliana, Brescia 1930
1. La preghiera liturgica
Il soggetto, l’io, della liturgia è piuttosto l’unione della comunità credente come tale, è un qualcosa che trascende la mera somma dei singoli credenti, è, insomma, la Chiesa [pag. 8].
La liturgia mostra innanzitutto che la vita di preghiera della comunità dev’essere sostenuta dal pensiero [pag. 12].
Pregare è certamente “un elevare il cuore a Dio”. Ma il cuore deve essere diretto, sostenuto, rischiarato dal pensiero [pag. 13].
E se il pensiero ha da essere messo in rilievo, ciò non deve avvenire fino all’eccesso di un freddo cerebralismo. Le forme della pietà richiedono al contrario d’essere (r)avvivate da una calda corrente di fervore [pag. 20].
2. La comunità liturgica
Sacrificio e contributo positivo da parte del singolo nei confronti della comunità orante [pag. 51]
3. Lo stile liturgico
Nella preghiera individuale noi ci eleviamo a Dio colle peculiarità del tutto singolari del nostro essere, ed usiamo le parole che proprio le nostre disposizioni e le nostre esperienze ci suggeriscono. Questo è un nostro legittimo diritto che la Chiesa è l’ultima a volerci contestare [pag. 83].
          Ma noi non siamo soltanto esseri individuali: facciamo parte anche di una comunità. Non siamo solo «Storia», bensì qualcosa di noi appartiene anche all’ordine eterno. È a quest’ultima esigenza che provvede la liturgia. In essa noi preghiamo come membri della Chiesa; in essa ci eleviamo all’ordine eterno che è al di sopra dei singoli e, perciò, a tutti accessibile: a tutti i temperamenti, a tutte le età, a tutti i paesi. Ma per quest’ordine di cose lo stile della liturgia, – obiettivo, limpido, accessibile a tutti –, è anche l’unico possibile. Ogni altra forma di preghiera che procedesse da una sensibilità speciale riuscirebbe di sicuro inaccessibile a che possedesse una sensibilità diversa. Soltanto uno stile della vita e del pensiero che sia veramente cattolico, vale a dire universale, obiettivo, può essere accolto da ognuno senza sospetti di violenza spirituale. Non è certo con ciò escluso ogni sacrificio: ognuno deve farsi violenza, deve superarsi. Ma in tal modo egli non si perde, bensì al contrario si fa più libero, più ricco, più versatile [pagg. 84-85].4. Il simbolismo liturgico
          Quel temperamento spirituale che abbiamo descritto per primo [lo «spiritualistico»] non sapeva raggiungere il simbolo, per la propria incapacità di cogliere l’intima relazione che stringe insieme lo spirituale e il materiale. Esso poteva, sì, distinguere, delimitare, ma lo faceva in misura troppo grande, al punto da lasciar perdere le relazioni.
          Il secondo tipo di sensibilità descritto possiede la capacità di questa relazione; giacché per esso l’interiore si traduce immediatamente nella forma esteriore. Gli manca, però, il senso della distinzione e della distanza.
Invece, relazione e distinzione sono ambedue necessarie a creare un simbolo.
          Un simbolo sorge quando qualcosa di interiore, di spirituale, trova la sua espressione nell’esteriore, nel corporeo; non quando [come fa l’allegoria] qualche realtà spirituale è arbitrariamente collegata dall’esteriore corrispondenza a qualcosa di materiale, come ad es. «la giustizia» alla figura della bilancia. Ciò ch’è interiore deve piuttosto tradursi nell’oggetto esteriore vitalmente, con intima necessità. Così il corpo è il simbolo naturale dell’anima, così un movimento spontaneo è simbolo di un fatto psichico.
          Inoltre il simbolo nella pienezza del suo significato richiede d’essere chiaramente definito, così che la sua forma espressiva non possa valere anche per qualcosa d’altro. Esso deve parlare un linguaggio limpido e ben determinato e perciò tale che, presupposte le condizioni normali, riesca a tutti comprensibile [pagg. 100-101].
A codesta creazione del simbolo hanno dunque parte ambedue i temperamenti considerati.
          L’uno, mediante il suo sentimento dell’affinità esistente tra spirituale e corporeo, offre, per così dire, la materia, quale prima condizione preliminare della creazione simbolica.
          L’altro vi contribuisce con la sua capacità di distinzione e la sua consapevolezza della distanza tra i due domini, assicurando chiarezza e determinazione formale.
          Pure ambedue incontrano nella liturgia difficoltà che contrastano colla loro natura. Ma poiché ambedue hanno collaborato alla creazione dei simboli liturgici, essi possono anche superare queste difficoltà, appena che il credente si sia convinto della dignità preminente e perciò almeno obbligante della liturgia [pagg. 105-106].
5. La liturgia come gioco
          Certe nature gravi e serie, tutte rivolte alla ricerca e alla contemplazione della verità, che in ogni cosa vedono il compito morale e dovunque cercano il fine, incontrano facilmente nella liturgia una difficoltà singolare. La liturgia appare loro facilmente come qualcosa senza scopo, un cumulo superfluo di cose, una realtà inutilmente complicata, artificiosa.  Costoro si scandalizzano che la liturgia fissi con tanta minuziosità ciò che si deve compiere prima e ciò che deve avvenire dopo, se a destra o a sinistra, ad alta voce o piano.  A che scopo tutto ciò?  L’essenziale nella Santa Messa, l’offerta e la consumazione del cibo divino, può essere compiuto così semplicemente: perché tale grande spiegamento di un rituale levitico? Le necessarie consacrazioni potrebbero essere fatte così semplicemente con poche parole, i sacramenti essere amministrati senza complicazioni rituali: a che pro’ tutte quelle preghiere e cerimonie? La liturgia può avere per costoro un carattere di gioco e di teatralità.
          Questo problema si deve prendere sul serio. Esso non si presenta a tutti; ma non appena affiora, costituisce sempre la rivelazione di un temperamento spirituale inteso all’essenziale.
          Esso sembra aver stretta relazione con la questione dello scopo in assoluto. Scopo, in senso proprio, noi denominiamo quel principio d’ordine, per cui cose ed azioni si subordinano le une alle altre, in modo che l’una serva all’altra, l’una si presenti in funzione dell’altra. Ciò ch’è subordinato, il mezzo, ha significato solo in quanto è in grado di servire a ciò ch’è sopraordinato, allo scopo. Chi agisce non si indugia spiritualmente in esso, giacché per lui costituisce solo un passaggio ad altro, via che conduce allo scopo, dove propriamente stanno la mèta ed il riposo. Da questo punto di vista ogni mezzo deve saperci assicurare se e in che limiti è in grado di portarci allo scopo. Questo esame ha per intento di escludere tutto ciò che non appartiene alla cosa, ciò che è marginale, superfluo. Domina qui il principio economico di raggiungere il fine nel modo più perfetto possibile col minore impiego di forza, tempo e materia. Il corrispondente stato d’animo è caratterizzato da una certa febbrilità, da una tensione senza riguardo e da una rigida oggettività. 
          Questo atteggiamento spirituale è legittimo e necessario nella totalità della vita.  Le assicura serietà e salda direzione.  Corrisponde anche alla struttura della realtà nella misura in cui ogni cosa in certo modo cade sotto il punto di vista dello scopo. 
          Molti dati di fatto possono essere giustificati quasi totalmente dal punto di vista dello scopo, come ad es. la vita economica ed i processi della tecnica; tutti poi possono esserlo almeno in parte e per qualche riguardo.  Nessun fenomeno, però, cade esclusivamente sotto questo concetto; di molti, anzi, solo una piccola parte. Ovvero, per dir meglio: ciò che assicura alle cose, ai processi il diritto dell’esistenza e la giustificazione della loro peculiarità è, per talune, non solamente, per altre, non certo in prima linea, la loro attitudine ad uno scopo. Le foglie ed i fiori hanno uno scopo?  Certamente, giacché sono organi delle piante; ma a tale scopo essi non devono assumere proprio quella forma, quel colore, quel profumo determinato. A che scopo pertanto la prodigalità di forme, colori, profumi della natura?  A che pro’ la molteplicità della specie?  
          Le cose potrebbero andare anche con maggior semplicità. L’intera natura potrebbe essere piena di esseri, la cui riproduzione potrebbe essere ottenuta in una maniera assai più rapida e «funzionale». La indiscriminata applicazione del finalismo alla natura non rimane per nulla immune da contestazioni. E per approfondire maggiormente il problema:quale scopo deve avere in genere l’esistenza di questa o quella pianta, di questo o quell’ animale? Forse quello di servir da nutrimento ad altri? Certo no! Se noi applichiamo soltanto il criterio dell’esteriore funzionalità, troviamo che molte cose della natura sono funzionari solo in parte, e nessuna è utile in tutto e per tutto.  Molte cose anzi, alla luce di questo criterio, appaiono senza scopo.  In una creazione della tecnica, sia una macchina od un ponte, tutto risponde ad uno scopo: altrettanto in una impresa commerciale, nella burocrazia d’uno Stato; eppure neanche per queste cose il concetto della finalità basta a risolvere tutti i problemi relativi al loro diritto di esistere. Se, pertanto, vogliamo renderci pieno conto della cosa, dobbiamo assumere un angolo visuale più ampio.  Il concetto di scopo pone il centro di gravità d’una cosa al di fuori ed al di là di essa; tale concetto la considera quale tramite per un movimento che va oltre e precisamente si dirige alla mèta. ogni cosa, pertanto, è anche - e taluna lo è quasi del tutto - un quid a sé stante, uno scopo a sé, nella misura in cui si può applicare ancora questo concetto in tale più ampia significazione, cui si adatta meglio il concetto di senso.  Tali cose non hanno scopo nella stretta accezione della parola; hanno però un senso.  E questo senso è mostrato, non dal fatto ch’esse producono fuori di sé un effetto ovvero contribuiscono alla costituzione o alla modificazione di qualcosa d’altro, bensì il loro significato consiste nel loro essere quello che sono.  Nella rigorosa accezione dei vocaboli, esse sono senza scopo, ma piene di senso.
          Scopo e senso sono i due modi di presentarsi del fatto che una cosa esistente ha motivo e diritto al proprio essere.  Dal punto di vista dello scopo, una cosa si inserisce in un ordine che va oltre di essa; nei riguardi del senso, essa riposa in se stessa.
          Qual è ora il senso di ciò che è? D’esistere e d’essere un riflesso del Dio infinito.  E qual è il senso di ciò che vive? Di vivere, esplicare l’intima essenza propria, di fiorire quale rivelazione naturale del Dio vivente.
          Questo non vale solo per la natura, ma anche per vita dello spirito.  La scienza ha forse uno scopo nel senso proprio della parola?  No. Il pragmatismo vuoi attribuirgliene uno: quello di incitar gli uomini a migliorarsi moralmente.  Ma questo significa misconoscere la dignità sovrana della conoscenza.  Essa non ha alcuno scopo, ha però un senso, che riposa in se stesso: la verità.
          L’attività legislativa di un parlamento ad es. ha uno scopo; essa intende far valere nella vita statale una direttiva nettamente determinata.  La scienza del diritto invece non ne ha. mirando solo a conoscere la verità nelle questioni giuridiche.
          E così è di ogni autentica scienza, che è, in base alla sua essenza, conoscenza della verità, servizio della verità.
          Neppur l’arte ha uno scopo. Si dovrebbe altrimenti pensare che la sua ragione d’essere sia la necessità dell’artista di procurarsi con essa di che nutrirsi e di che vestirsi. Oppure, come pensava l’illuminismo, che l’arte sia destinata ad offrire esempi intuitivi della verità di ragione ed a insegnare la virtù.  L’opera d’arte non ha scopo, bensì ha un senso, e precisamente quello ut sit, d’essere concretamente, e che in essa l’essenza delle cose, la vita interiore dell’uomo artista ottenga un’espressione sincera e pura.  L’opera d’arte deve essere soltanto splendor veritatís. 
          Quando la vita si sottrae al rigoroso ordine dei fini, allora diventa un gioco di dilettanti.  Muore, però, anche quando la si vuoi costringere nella rigida armatura di una dottrina puramente utilitaria. I due elementi si integrano reciprocamente.  Lo scopo è il fine dello sforzo, dei lavoro, dell’ordine; il senso è il contenuto dell’esistenza, della vita che fiorisce e matura.  I due poli dell’essere pertanto sono: scopo e senso, sforzo e crescita, lavoro e produzione, ordinamento e creazione.
Anche l’ampia vita della Chiesa universale si svolge tra queste due direzioni.
          Ecco la possente struttura degli scopi nel diritto canonico, nella costituzione e nell’amministrazione della Chiesa.  Qui tutto è mezzo ordinato ad un unico scopo, quello di mantenere in efficienza la grande macchina della amministrazione ecclesiastica.  Decisivo qui è il criterio, se la istituzione o l’ordinanza considerata risponda alla finalità generale, se essa la raggiunga col minor impegno di forze e tempo. Lo spirito della praticità deve costituire la forza determinante in questa ampia organizzazione del lavoro. La Chiesa, però, ha pure un altro aspetto.  La sua vita abbraccia un campo in cui essa rimane libera dallo scopo nel senso proprio della parola.  Questo campo è la liturgia. Anche questa certo include un complesso di scopi, i quali costituiscono, per così dire, l’armatura che la sostiene; così i Sacramenti hanno il compito di comunicare determinati doni di grazia. Ma questa comunicazione, presupposte le condizioni richieste, può anche aver luogo in forma assai semplificata. L’amministrazione d’urgenza dei Sacramenti offre l’esempio di una azione liturgica rigidamente limitata al mero suo scopo.
          Si può anche affermare che la liturgia, ogni sua azione ed ogni sua preghiera, ha lo scopo di educare religiosamente. E questo è pur vero.  Però essa non ha un piano d’educazione preordinato e voluto di proposito. Per comprendere la differenza, si confronti il decorso di una settimana dell’anno ecclesiastico con gli esercizi di S. Ignazio.  In questi ultimi tutto è consapevolmente pesato, tutto organizzato allo scopo di raggiungere un determinato effetto pedagogico sulla vita spirituale; ogni esercizio, ogni preghiera, anzi le stesse ore di riposo sono indirizzate allo scopo fondamentale di determinare la conversione della volontà.  Non così avviene nella liturgia: è già abbastanza significativo che la liturgia non abbia posto alcuno negli esercizi. Anch’essa vuole formare, ma non attraverso un sistema di influssi educativi calcolato appositamente in vista del fine, bensì creando semplicemente una perfetta atmosfera religiosa in cui l’anima si dispieghi religiosamente. Vi è una differenza simile a quella che passa tra una palestra ginnastica, dove ogni attrezzo, ogni esercizio è calcolato, e l’aperta campagna o la foresta. Là tutto è sviluppo consapevole delle forze, qui tutto è vita naturale, crescita delle intime energie nella natura e con la natura. La liturgia crea un ampio mondo esuberante di intensa vita spirituale e fa sì che l’anima vi si muova e vi si sviluppi. Questa ricchezza di preghiere, pensieri, azioni; questo intero ordinamento di tempi rimane incomprensibile, se lo si commisura all’unità lineare della funzionalità rigorosamente oggettiva.
          La liturgia non ha «scopo», o almeno non può essere ridotta soltanto sotto l’angolo visuale della sola finalità pratica. Essa non è un mezzo impiegato per raggiungere un determinato effetto, bensì - almeno in una certa misura - fine a sé.  Essa, secondo le vedute della Chiesa, non è una tappa sulla via che conduce ad una mèta che sta fuori di essa, bensì un mondo di realtà viventi che riposa in se stesso. Questo è l’importante: se lo si trascura, ci si sforza di trovare nella liturgia intenti pedagogici d’ogni specie, che possono in qualche modo esservi introdotti, ma che non vi occupano però un posto essenziale. 
          La liturgia non può avere «scopo» alcuno anche per questo motivo: perché essa, presa in senso proprio, ha la sua ragione d’essere non nell’uomo, ma in Dio.  Nella liturgia l’uomo non guarda a sé, bensì a Dio; verso di Lui è diretto lo sguardo.  In essa l’uomo non deve tanto educarsi, quanto contemplare la gloria di Dio.  Il senso della liturgia è pertanto questo: che l’anima stia dinanzi a Dio, si effonda dinanzi a Lui, si inserisca nella Sua vita, nel mondo santo delle realtà, verità, misteri, segni divini, e cosi si assicuri la vera e reale vita sua propria. Ci sono due passi molto profondi nella Sacra Scrittura che avviano alla soluzione definitiva di questo problema, per non dire che pronunziano la parola liberatrice.  L’uno sta nella visione d’Ezechiele.  Questi fiammeggianti Cherubini «andavano dritti dove il vento li spingeva..., né si voltavano nell’andare..., andavano e venivano come la vampa della folgore.... andavano... e stavano... e si alzavano dal suolo ... ; il fruscio delle loro ali assomigliava al murmure di molt’acqua.... e quando si fermavano abbassavano nuovamente le ali ... ». Come sono «senza scopo» codeste creature!  Come sono addirittura sconfortanti per uno zelatore della funzionalità raziocinata!  Essi sono «soltanto» mero movimento possente e maestoso che si dispiega come lo spirito lo sollecita; che null’altro vuole se non esprimere l’intimo essere dello spirito, rivelarne esteriormente l’intimo fervore e l’impetuosa forza; ecco una viva immagine della liturgia!
          E in un altro passo parla l’Eterna Sapienza e dice: «Io stavo presso di Lui intenta ad ordinare le cose tutte, ed ero tutta compiacenza giorno per giorno, ricreandomi (ludens) in sua presenza ogni momento, ricreandomi sul globo terrestre ... ». Questa è la parola decisiva!  
          Il Padre eterno si compiace che la Sapienza, il Figlio, la Pienezza assoluta d’ogni verità, dispieghi dinanzi a Lui in una inesprimibile bellezza questo contenuto infinito senza alcuna «mira» - a che dovrebbe Egli «mirare»? -; ma nella pienezza più definitiva del senso, in mera e schietta gioiosità di vita: Egli «gioca» dinanzi a lui.
          E questa è la vita degli esseri più elevati, degli Angeli; essi, senza scopo, come lo Spirito li sollecita, si muovono dinanzi a Dio in un senso misterioso, sono dinanzi a Lui un gioco ed un canto vivente. Anche nell’ambito delle cose terrene vi sono due fenomeni che accennano alla stessa tendenza: il gioco del bambino e la creazione dell’artista.
          Nel gioco il bambino non si propone di raggiungere nulla, non ha alcuno scopo.  Non mira ad altro che ad esplicare le sue forze giovanili, ad espandere la sua vita nella forma disinteressata dei movimenti, delle parole, delle azioni, e con ciò a crescere, a diventar sempre più perfettamente sé stesso.  Senza scopo, ma piena di significato profondo è questa giovane vita; e il senso non è altro che questo: che essa si manifesti senza impedimenti nei pensieri, nelle parole, nei movimenti, nelle azioni, si renda padrona dell’essere suo, semplicemente esista.  E giacché non mira a nulla di particolare, giacché si dispiega così spontaneamente e senza coercizioni, appunto perciò anche l’espressione riesce armonica, la forma limpida e suggestiva: il suo gesto si tramuta da sé in ritmo ed immagine, in rima, melodia, canto. Questo è gioco: espandersi disinteressato della vita che prende possesso della propria pienezza, e ch’è piena di senso anche nella sua mera esistenza, ed è bella quando la si lascia a sé, quando non vi vengono introdotti intenti riflessi con precettistica mal illuminata pedagogizzante, rendendola in tal modo innaturale.
          Coll’avanzare degli anni, si presentano anche le lotte: la vita si sente agitata da conflitti ed odiosa. L’uomo si pone dinanzi agli occhi ciò che egli vuole, ciò che egli deve, e cerca di realizzarlo nella sua vita e nell’essere suo.  Ma qui esperimenta quante forze vi contrastino, e constata quanto di rado egli è veramente ciò che dovrebbe e vorrebbe essere.
          Questa contraddizione tra ciò ch’egli potrebbe essere e quello ch’è in realtà, cerca di superarla in un altro ordine di realtà, nel mondo irreale dell’immaginazione, nell’arte.  Nell’arte l’uomo cerca di ristabilire l’unità tra ciò che vuole e ciò che ha; tra ciò che dev’essere e ciò che è; tra l’anima ch’è dentro di noi e la natura ch’è fuori di noi; tra il corpo e lo spirito.  Tali sono le creazioni dell’arte.  Non hanno dunque alcuno scopo istruttivo, non mirano ad insegnare determinate verità o virtù.  Nessun artista si è mai proposto questo.  Nell’arte l’artista non mira ad altro che a risolvere questa tensione interiore, a dar espressione nel mondo dell’immaginazione a quella vita superiore a cui anela e che nella realtà raggiunge solo approssimativamente. L’artista non vuol altro se non dare una realtà esteriore al suo essere intimo ed al suo anelito, assicurare alla verità interiore forma concreta.  Ed anche chi contempla l’opera d’arte non deve proporsi null’altro che di soffermarsi in essa, respirarvi, muoversi liberamente, prendere consapevolezza della parte migliore del suo essere, anelare al compimento della propria brama intima.  Non deve perciò riflettervi sopra con mutria critica «raziocinante» o cercarvi dottrina o savi ammonimenti. 
          Ora la liturgia fa qualcosa di ancor più elevato.  In essa viene offerta all’uomo l’occasione di realizzare, sostenuto dalla grazia, il senso più singolare e proprio del suo essere, d’essere quale egli dovrebbe e vorrebbe essere in conformità alla sua vocazione divina:   un «figlio di Dio».  Nella liturgia, dinanzi a Dio, egli deve «allietarsi della sua giovinezza».  Questa è certamente una cosa del tutto soprannaturale, corrispondente però, nello stesso tempo alla natura intima dell’uomo.  E poiché questa vita è più elevata di quella a cui dà occasione ed espressione la realtà consueta, essa trae forme ed immagini adeguate da quel dominio nel quale soltanto le può trovare, vale a dire nell’arte.  Essa parla in ritmi e melodie; si muove con gesti solenni e misurati; si riveste di colori e paludamenti che non appartengono alla vita consueta; si svolge in luoghi e momenti che sono stabiliti ed organizzati secondo leggi superiori.  Diventa cosi, in un senso più elevato. una vita filiale e infantile in cui tutto è immagine, ritmo e canto.
          Questo pertanto il fatto mirabile che si offre nella liturgia: arte e realtà diventano una unica cosa nella condizione soprannaturale del figlio e fanciullo insieme, sotto lo sguardo di Dio.  Ciò che altrimenti è dato solo nel regno dell’irreale, nell’immaginazione artistica, vale a dire le forme dell’arte come espressione della vita umana pienamente consapevole, qui è realtà.  Le forme dell’arte diventano la traduzione espressiva di una vita reale, sia pur soprannaturale. E anche questa ha un elemento comune con quella del bambino e dell’artista: è libera da ogni scopo, e perciò appunto piena del senso più profondo.  Non è lavoro, ma gioco. Fare un gioco dinanzi a Dio, non creare, ma essere un’opera d’arte, questo costituisce il nucleo più intimo della liturgia. Di qui la sublime combinazione di profonda serietà e di letizia divina che in essa percepiamo.  E solo chi sa prendere sul serio Parte ed il gioco può comprendere perché con tanta severità ed accuratezza la liturgia stabilisca in una moltitudine di prescrizioni come debbano essere le parole, i movimenti, i colori, le vesti, gli oggetti di culto.
          Hai tu veduto mai con quale serietà i bambini stabiliscono le regole nei loro giochi, in che modo deve svolgersi il loro girotondo, come tutti debbano tenere le mani, che significhi questo bastoncino o quell’albero?  Tutto ciò appare sciocco solo a chi non avverte il suo significato o senso e sa vedere la giustificazione d’un atto soltanto negli scopi che se ne possono addurre. E non hai letto mai, oppure direttamente sperimentato, con quale spietata serietà l’artista stia al servizio dell’arte, come egli soffra sotto «la parola» che non si presenta adeguata all’idea, quale padrona esigente sia la forma?
          E tutto ciò per qualcosa che non ha scopo!  No, l’arte non ha nulla a che fare con gli scopi. Qualcuno crede seriamente che l’artista si assoggetterebbe alle mille emozioni. alla febbre ardente della creazione, se coll’opera sua non mirasse ad altro che a dar ai lettori od agli spettatori un insegnamento che avrebbe potuto esprimere non meno bene in un paio di frasi trovate senza fatica, oppure in qualche esempio tratto dalla storia, ovvero con alcune fotografie ben azzeccate?  Certo no!  Essere artista significa lottare per esprimere la vita profonda, affinché, espressa che sia, essa possa esistere.  E null’altro: ma non è già molto questo? È niente di meno che una imitazione della creatività divina, della quale si dice che abbia fatto le cose ut sint, perché semplicemente esistano.
          La stessa cosa fa la liturgia.  Anch’essa ha cercato con cura infinita, con tutta la serietà del bambino e la coscienziosità rigorosa del vero artista, di dar espressione in mille forme alla vita dell’anima, vita santa alimentata da Dio, mirando a null’altro se non a che essa vi possa dimorare e vivere.  Con severissime leggi essa ha regolato il santo gioco che l’anima svolge dinanzi a Dio.  Se vogliamo attingere il nucleo intimo di questo mistero, dobbiamo riconoscere: è lo Spirito Santo, lo Spirito del fervore e della santa disciplina, «che ha potere sulla parola»; è esso che ha regolato il gioco, che la eterna Saggezza dispiega dinanzi al Padre celeste nella Chiesa, il suo regno sulla terra. «E la sua delizia», pertanto, «sta nell’essere tra i figli degli uomini».
          Può comprendere la liturgia solo chi non si scandalizza di questo, come ha fatto innanzitutto ogni razionalismo.  Agire liturgicamente significa diventare, col sostegno della grazia, sotto la guida della Chiesa, vivente opera d’arte dinanzi a Dio, con nessun altro scopo se non d’essere e vivere proprio sotto lo sguardo di Dio; significa compiere la parola del Signore e «diventare come bambini»; rinunciando, una volta per sempre, ad essere adulti che vogliono agire sempre con finalità determinate per decidersi a giocare, come faceva Davide quando danzava dinanzi all’Arca dell’alleanza.  Può certo avvenire che persone troppo assennate, le quali, con la piena maturità, hanno perduto la libertà e la freschezza dello spirito, non lo comprendano e ne facciano argomento di scherno. Ma anche Davide dovette sopportare che Michol ridesse di lui. Il compito, pertanto, della educazione liturgica comprende anche questo aspetto: l’anima deve apprendere a non vedere dovunque scopi, a non essere troppo sensibile ai motivi utilitari, troppo prudente, troppo «adulta», bensì deve sapere anche vivere semplicemente.  Essa deve apprendere a liberarsi almeno nella preghiera dalla irrequietudine dell’attività utilitaria, imparare ad essere prodiga di tempo per Dio; deve trovar parole e pensieri e gesti per il santo gioco, senza domandarsi ad ogni momento: a che scopo e perché?  Non voler far sempre qualche cosa, raggiungere qualche cosa, qualcosa produrre od ottenere di utile, bensì apprendere a fare in libertà, bellezza, santa letizia dinanzi a Dio il gioco da Lui regolato della liturgia.
          Alla fin fine anche la vita eterna non sarà che il compimento di questo gioco.  E chi non comprende questo, potrà afferrare poi che il compimento celeste della nostra vita è «un cantico eterno di lode»?  Non finirà costui per rientrare nella categoria delle persone attive, che trovano inutile e noiosa tale eternità?
Romano Guardini
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