«Diventare di nuovo bambino significa imparare di nuovo a dire Abba». Con queste parole il grande esegeta J. Jeremias sottolineava come l'invito di Gesù a rinascere e ad essere come bambini non fosse da interpretare nella linea di una presunta umiltà o purezza dell'infanzia, quanto piuttosto nella scoperta della relazione costitutiva con il Padre che ci chiama suoi figli.
del 09 gennaio 2009
«Diventare di nuovo bambino significa imparare di nuovo a dire Abba». Con queste parole il grande esegeta J. Jeremias sottolineava come l’invito di Gesù a rinascere e ad essere come bambini non fosse da interpretare nella linea di una presunta umiltà o purezza dell’infanzia, quanto piuttosto nella scoperta della relazione costitutiva con il Padre che ci chiama suoi figli.
 
Similmente, proprio l’annunzio del Padre - dell’Abba - segna, nella lettera di Paolo ai cristiani di Roma, il passaggio dall’invincibilità del male da parte delle sole forze umane all’efficacia della grazia divina che salva: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio» (Rm 8,15-16).
 
Paolo mostra qui una perfetta adesione ai racconti evangelici ricordando l’espressione che Gesù utilizzava per indicare il Padre suo: Abbà. Questa espressione aramaica doveva essere rimasta impressa in modo così indelebile nella mente degli apostoli come caratteristica del loro Signore che si sentivano obbligati a ripeterla nella predicazione in quella forma aramaica anche quando parlavano e scrivevano in greco.
 
Paolo deve avere conosciuto questo modo caratteristico di Gesù di rivolgersi al Padre dagli stessi Dodici o dalla comunità di Damasco o di Antiochia. Egli, che pure omette quasi totalmente i riferimenti ai fatti e alle parole della vita pubblica di Gesù, ricorda insistentemente il termine Abbà proprio nella sua forma aramaica a connotare la nuova esistenza che il cristiano riceve dalla fede. Il cristiano può chiamare Dio Abbà proprio a motivo dell’opera dello Spirito di Cristo in lui.
 
Nella riflessione pneumatologica di Paolo è evidente, innanzitutto, la connotazione teologica - e non puramente psicologica o intimistica - dello Spirito: è lo Spirito di Dio che attesta al nostro spirito di uomini la nostra identità filiale, è Dio stesso che realizza nella nostra umanità la nostra figliolanza.
 
Ma, sopratutto, nell’epistolario paolino lo Spirito ha una fortissima connotazione cristologica: è lo Spirito del Figlio del Padre, è lo Spirito di Cristo (Fil 1,19; Gal 4,6; Rm 8,9). Mentre l’odierna New Age si compiace di termini impersonali come “energia” o “positività”, il Nuovo Testamento specifica in maniera straordinaria lo Spirito come Spirito di Gesù.
 
Nella lettera ai Galati il nesso fra l’Incarnazione del Figlio - che celebriamo nel Natale – e la nostra figliolanza nello Spirito è strettissimo: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!» (Gal 4,4-6).
 
È così caratteristica di Cristo la sua filiazione dal Padre che lo Spirito che imprime nell’uomo i tratti del Cristo stesso non può che far sgorgare nel credente la stessa invocazione: Abbà, Padre. Paolo contempla Gesù e ne vede immediatamente la relazione con il Padre suo; si volge a vedere l’uomo nella grazia del battesimo e, subito, ne scorge la dignità filiale.
 
Santa Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa dei nostri tempi, ha vissuto questa comprensione dell’infanzia spirituale, anzi ne ha fatto la chiave di lettura dell’esistenza cristiana. La “piccola” Teresa scrisse di aver scoperto che non sarebbe stata adatta alla vita cristiana, se non avesse prima vinto i suoi tratti di ipersensibilità infantile: «Avevo un gran desiderio di praticare la virtù, ma lo facevo in un buffo modo, ecco un esempio: mi accadeva talvolta, per far piacere al buon Dio, di rifarmi il letto, oppure, in assenza di Celina, rimettere dentro, a sera, i suoi vasi da fiorì: era per il buon Dio solo che facevo quelle cose, perciò non avrei dovuto attendere il grazie delle creature. Ahimé! Le cose andavano ben diversamente; se per disgrazia Celina non aveva l’aspetto felice e stupito per i miei servizietti, non ero contenta, e glielo provavo con le lacrime. Ero veramente insopportabile per la mia sensibilità eccessiva. Così, se mi accadeva di dare involontariamente un po’ di dispiacere a qualcuno cui volessi bene, invece di dominarmi e non piangere, ciò che ingrandiva il mio errore anziché attenuarlo, piangevo come una Maddalena, e quando cominciavo a consolarmi della cosa in sé, piangevo per aver pianto. Non so come io mi cullassi nel pensiero caro di entrare nel Carmelo, trovandomi ancora nelle fasce dell'infanzia! Bisognò che il buon Dio facesse un piccolo miracolo per farmi crescere in un momento, e questo miracolo lo compì nel giorno indimenticabile di Natale».
 
In quella notte del Natale 1886, Teresa si accorse che suo padre le preparava svogliatamente i regali. Venne presa dalla tentazione di piangere per questo, ma subito si rasserenò: «Sentii che la carità mi entrava nel cuore, col bisogno di dimenticare me stessa per far piacere agli altri, e da allora fui felice!»
 
Comprese progressivamente che la gioia consisteva non nell’essere piccoli, ma nell’essere figli nelle braccia del Padre, come racconta riflettendo sulla sua stanchezza che la coglieva durante le preghiere comuni: «Dormo (da 7 anni) durante le mie orazioni e i miei ringraziamenti, ebbene, non sono desolata... penso che i bambini piccoli piacciono ai loro genitori quando dormono come quando sono svegli; penso che per fare delle operazioni, i medici addormentano i malati. Infine penso che “il Signore vede la nostra fragilità, e si ricorda che noi siamo solo polvere”».
 
Per essere cristiani - insegna Teresa - non bisogna rimanere nell’infantilismo e nelle manchevolezze che caratterizzano chi non è ancora adulto, ma è necessario piuttosto ritrovare la via della relazione con il Padre. La sua spiritualità attualizza per il nostro tempo quello che è il dono eterno dell’incarnazione, che Paolo aveva spiegato ai Romani. Il male è vinto perché dall’amore del Padre niente potrà ormai separarci, dopo che Cristo è venuto per noi e ci ha dato la sua vita. Questo è ciò che lo Spirito attesta al nostro spirito: che il Padre ama i suoi figli.
 
Andrea Lonardo
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