Luca era un ragazzo autistico di 14 anni. Si presentò il primo giorno di scuola accompagnato dai genitori e dall'educatore. Tra crisi e pregiudizi, per tutti è una sfida ad aprirsi alla diversità. Fino alla scoperta che la sua vita era preziosa così com'era...
del 17 maggio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          Luca era un ragazzo autistico di 14 anni. Si presentò il primo giorno di scuola accompagnato dai genitori e dall’educatore. Il suo inserimento in classe era stato adeguatamente preparato da uno stuolo di specialisti. Tutto sembrava pronto per accogliere la diversità che, per la prima volta, in quel luogo si presentava in una forma così grave.
          Era stato detto che quel ragazzone dallo sguardo assente in realtà capiva tutto, ma l’impatto iniziale sembrava smentire gli esperti: emetteva suoni gutturali, non reagiva agli stimoli... Persino l’insegnante di sostegno aveva difficoltà a trovare il canale giusto per rapportarsi con lui. Eppure la mamma lo descriveva come un ragazzo attento a tutto ciò che accadeva intorno, capace di affezionarsi ma anche di odiare coloro dai quali si sentiva minacciato. A volte, la vivacità dei ragazzi scatenava crisi di nervi in Luca, che diventava capace di atti di violenza imprevisti: un giorno, durante la ricreazione, si avvicinò ad una ragazza che, voltandogli le spalle, dialogava con un’amica. Questa non fece neanche in tempo ad avvertirla, che già le robuste mani di Luca le stringevano la gola. Fermato dai presenti, cominciò ad essere guardato come una minaccia...
          Da quel momento Luca fu considerato un pericolo per sé e per gli altri. E i tentativi di integrazione furono affidati alla buona volontà di qualche docente che ancora voleva credere che, dietro quell’apparenza, si nascondesse un cuore umano.
          Gli anni passavano e Luca cresceva anche fisicamente, ma lo sguardo era sempre rabbuiato e assente. Le sue crisi diventavano di giorno in giorno più rischiose. Nessun insegnante di sostegno era riuscito a resistere più di un anno e i compagni lo evitavano, chiamandolo «handicappato». Tutti ormai lo temevano e questo l’aveva reso più triste ed aggressivo.
          Un’insegnante, però, intuì che Luca a scuola non si sentiva amato: forse la madre e gli specialisti avevano ragione nel dire che capiva tutto, compresa l’ostilità nei suoi confronti. Cominciò con l’avvicinarlo chiamandolo per nome, accarezzandogli il viso e le mani, chiedendogli se gradiva una caramella: fu la svolta. Dopo qualche tempo era riuscita persino a farsi dire «Grazie» quando gli donava qualche ghiottoneria. Non solo, ma ormai otteneva da lui l’obbedienza: «Vieni vicino a me, non uscire dall’aula. Vuoi una caramella?». Era la parola magica. «Gra-zie», ripeteva in modo meccanico. Aveva iniziato a parlare. Pian piano, cominciò persino a rispondere all’appello: «Pre-sen-te».
          L’ultimo anno di scuola, giunse un’ennesima insegnante di sostegno e per Luca e la sua famiglia fu un cambiamento ormai insperato. Era competente ed equilibrata, corpulenta e autorevole: perfetta per la patologia di Luca. La sua manualità andò perfezionandosi (dal disegno a piccoli lavori col traforo) e la sua autostima cresceva. Il volto divenne sempre più spesso sorridente. Ora in classe saltava ancora, ma di gioia, ed anche i compagni avevano imparato ad accettarlo come uno di loro. Luca cominciò ad usare il computer per comunicare, scrivendo lettere piene di affetto all’insegnate di sostegno. La fiducia si rimise in moto per i pochi docenti che si lasciarono mettere in discussione e che, vincendo i pregiudizi, iniziarono un nuovo percorso educativo.
          Un giorno, l’insegnante che gli donava le caramelle domandò in classe: «Quali sono per voi i valori della vita?». Mentre gli studenti rispondevano, alla lavagna fu stilata una graduatoria: 1) l’amore; 2) l’amicizia; 3) la famiglia; 4) la salute; 5) i soldi... «E la scuola?», chiese l’insegnante, ricevendo per tutta risposta un coro di «Buuu...». Luca scriveva la sua risposta al computer, unica come lui: «Per me la cosa più importante è Dio, ma non capisco una cosa: se Lui è buono perché mi tiene imprigionato in questo corpo e non posso parlare e fare quello che fanno tutti i miei amici?». L’insegnante di sostegno, con gli occhi lucidi, gli chiese il permesso di leggerla alla classe. Da un cosiddetto handicappato, emergeva un’autocoscienza che pochi possedevano. Tanto bastò per far scendere un silenzio irreale. Quei ragazzi, che avevano amore, amicizia e salute, non avevano mai pensato Chi ringraziare. Luca, nel suo consapevole dolore, non rifiutava a Dio il primato nella sua vita, ma dialogava con Lui domandandogli: «Perché?». Proprio come un figlio con un padre amoroso e enigmatico.
          In quel momento diventava maestro dei suoi stessi “maestri”, costringendoli ad interrogarsi su ciò che l’uomo vorrebbe evitare. Quelle due insegnanti erano testimoni che la vita di Luca era preziosa così com’era. E, grazie ad un misterioso disegno, l’avevano potuta incontrare ed amare.
Fermo Paola
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