Spesso si parla di integrazione delle minoranze, di tolleranza, di accettazione del “diverso”, dell'antirazzismo...Eppure quante volte siamo proprio noi i primi che, magari senza volerlo, parliamo per luoghi comuni e diamo retta a pregiudizi privi di fondamento? Incontriamo una realtà, che spesso abbiamo notato e che spesso abbiamo ignorato...
del 19 dicembre 2007
Chi sono?
Normalmente quando passiamo vicino a loro, li guardiamo male. Li indichiamo, li giudichiamo. Al mercato, sui marciapiedi, in treno; ovunque siano, vengono evitati. Perché sono pericolosi, ti possono fare del male, ti derubano, non ti avvicinare e non ti fidare, sono cattivi. Ci sono tanti modi per definirli: zingari, per chi vuole andare sul dispregiativo, nomadi per chi vuole essere un po’ meno incisivo… ma personalmente, io preferisco chiamarli rom. E spesso non ci accorgiamo che per scontrarci con le problematiche del mondo, con chi è meno fortunato di noi, con gli “invisibili”, non serve andare tanto lontano da casa nostra.
Eppure, quando si parla di rapimenti di bambini, di furti, di problemi di ordine pubblico, non ci facciamo scrupoli ad attaccare sulle loro vite delle grosse etichette, e la colla del pregiudizio è la più difficile da grattare via. I carabinieri sono forse le persone con cui hanno più contatti, tra continue perquisizioni, linciaggi, petizioni per mandarli via, per isolarli. Persino davanti alla legge, non siamo trattati allo stesso modo.  Si diffida di loro perché rappresentano il diverso. Abbiamo mai provato a conoscerli, ad interessarci a loro? Quanti sanno che molti di loro credono in Dio, nella Provvidenza, nei valori della famiglia e nel lavoro? Quanti sanno che esistono rom italiani, e comunità stanziali? Che sono tra i pochi popoli a non aver mai fatto la guerra a nessuno, a non aver mai avuto un esercito?
 
 
Un incontro
 
Dio si manifesta a noi nei modi più svariati, più improbabili e straordinari, ma molti non si rendono conto che è proprio l’ incontro con gli altri che ci può cambiare la vita - proprio come è successo a don Federico Schiavon, salesiano che vive in un campo nomade di Udine, dove vivono 130 rom, croati e sloveni.
L’ errore che si fa comunemente è di generalizzare la realtà dei rom senza avere rispetto per le loro radici, il renderli parte di un’unico insieme senza pensare alla loro individualità, alle loro origini, alle loro diverse nazionalità: non ci rendiamo conto che non sono tutti uguali.
 
 
Per conoscere questo popolo
 
I rom possono vivere in due modi diversi: il primo è la realtà dei campi nomadi, nelle roulotte, in una sorta di “luogo-non luogo” paragonabile ad un ghetto chiuso, dove è meno probabile che arrivino voci dal mondo esterno e quindi stimoli per mantenere la loro cultura. Il secondo è meno conosciuto, ed è legato a una realtà più “familiare”: si comprano dei terreni e delle case, vivono a contatto più stretto con il nostro stile di vita e quindi sono, in un certo senso, costretti ad un continuo confronto. La loro storia è cambiata molto con il passare del tempo, ormai siamo nel XXI secolo, e la figura quasi fiabesca delle carovane che si spostano di mercato in mercato, vivendo grazie ai vari gruppi di mestieri, è stata sostituita dalla cruda figura dello zingaro sporco, che non ha voglia di lavorare, che vive di espedienti, quando magari non viene accettato da un datore di lavoro per via del suo cognome straniero, oppure è impegnato in quegli incarichi che per noi sono troppo umili e poco dignitosi come i raccoglitori del ferro o delle immondizie. E’ vero, la scuola non ha mai avuto un’ importanza primaria nella loro vita, ma è perchè sono sempre stati legati alla cultura orale.
 
 
E il loro rapporto con Dio?
 
Loro sentono dentro il senso della Sua presenza, è la vita, con le sue esperienze, che li porta alla fede, non è il contrario. Come un’aria che inspiri, che entra dentro di te, e quando la fai uscire condiziona tutto quello che ti circonda. Per loro i due momenti fondamentali della vita umana sono la nascita e la morte, e in mezzo viene scritta la loro storia. Accettano le sofferenze, come qualcosa che può insegnare: manifestano la loro fede attraverso i fatti, oltre alle parole. Non  sono schiavi del tempo, non sono immersi nella vita frenetica di oggi. Potremmo dire che vivono alla giornata, nel senso provvidenziale: si fidano del domani, convinti che ogni giorno verrà offerto loro il necessario per vivere. Vivono del presente; il chiedere la carità per una donna a volte è visto come una costrizione, come un’ umiliazione, ma in questo modo la donna può contribuire a trovare quel qualcosa di cui vivere per quella giornata. Tutto viene condiviso, perché l’ importante è creare relazioni tra le persone. Particolare è quello che succede proprio in questo periodo dell’ anno: la sera, mentre magari noi siamo davanti alla tv, la loro comunità si riunisce attorno al fuoco, e possono parlare di qualsiasi cosa come possono stare in silenzio, semplicemente, stando insieme. Il fuoco fa compagnia; don Federico lo definisce quasi come l’antifona di un salmo, fatta di rumori, voci, suoni di vita che accompagnano la preghiera.
Ciò non significa che siano santi, i “cattivi” ce li hanno tutti. Ci sono purtroppo, le realtà in cui i bambini sono mandati a rubare, vengono sfruttati e picchiati; stupri e aggressioni capitano. Ma non sono tutti così. La violenza, in molti casi, consiste nei semplici fatti della vita, non necessariamente nello sfruttamento fisico. Nel momento in cui ci si trova in mezzo a loro, i difetti appaiono insignificanti rispetto al bene che si respira: non è tentando di cambiare le loro vite, imponendoci come padroni, che loro stessi possono cambiare. Ciò che conta davvero è la condivisione delle loro esistenze.
 
Entrare nella vita degli altri non come in una fortezza, ma come se si entrasse in un bosco in una giornata di sole. ( Primo Mazzolari)
Mettersi nei panni di questi cosiddetti “scarti della società”, ecco il difficile: capire che non esistono solo nel momento del bisogno, o in negativo; quando chiedono la carità, hanno lo sguardo rivolto a terra, e non ci si rende conto che sono persone, non esseri inferiori. In fin dei conti, Dio ha sempre privilegiato i poveri, gli ultimi.
Dall’alto, o da lontano, tutto è più chiaro, ma anche più piccolo: qualche volta occorre avvicinarci, per vedere meglio. Così ci si accorge che non sono ombre, e nemmeno animali, ma uomini, e ancora di più, fratelli. E che non siamo poi così diversi.
Elisabetta Venturini
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