Memoria e oblio, passato e futuro si intrecciano, assieme alla consapevolezza che chi sa far tesoro del suo passato è più «anziano» della propria età perché è intessuto delle generazioni che lo hanno preceduto. Siamo «nani che camminano sulle spalle di giganti».
del 01 gennaio 2002
«Tu che prevedi l’avvenire degli uomini, aiutami a non staccarmi dal mio passato». Così Elhanan, l’anziano protagonista del romanzo L’oblio di Elie Wiesel, si rivolge al suo Dio: è un anziano la cui memoria ormai «è un colabrodo... una foglia d’autunno avvizzita, bucherellata... un fantasma». Sì, la memoria è l’esile filo interiore che ci tiene legati al nostro passato: quello personale, quello familiare di ciascuno, come quello della società civile cui apparteniamo o della comunità di fede in cui ci riconosciamo. Certo è difficile e faticoso vivere in modo fecondo questo rapporto intimo con il proprio passato perché corriamo sempre due pericoli di segno opposto: il restare prigionieri del passato o la tentazione di spezzare ogni legame con esso.
Memoria e oblio, passato e futuro si intrecciano, assieme alla consapevolezza che chi sa far tesoro del suo passato è più «anziano» della propria età perché è intessuto delle generazioni che lo hanno preceduto. È l’intuizione che Bernardo di Chartres già nel 1100 aveva reso con un’efficacissima immagine: siamo «nani che camminano sulle spalle di giganti». Intuizione costantemente ripresa e rielaborata che, per esempio, fa ribadire a Paul Ricoeur l’importanza di «lavorare la memoria per aprire un futuro al passato... Ciò che più bisogna liberare del passato è ciò che non è stato effettuato nel passato, le promesse non mantenute. Gli uomini del passato hanno avuto anch’essi dei progetti, cioè avevano un futuro che fa parte del nostro passato. Ma forse è il futuro del nostro passato che bisogna liberare per ingrandire il passato».
Viviamo in una stagione che fatica a gestire il proprio passato in funzione di un presente aperto al futuro: molti sogni delle generazioni che ci hanno preceduto sono svaniti, magari dopo essersi tramutati in incubi; in compenso c’è chi cerca di rimuovere o negare gli incubi che già i contemporanei non avevano voluto vedere, quando addirittura non si arriva a riscrivere la storia per piegarla ai propri opportunismi. Come ha osservato Barbara Spinelli, non riusciamo, a «usare la storia nell’immediato»: così, per esempio, assistiamo all’estendersi di sentimenti, atteggiamenti e legislazioni xenofobe a cerchie di persone che hanno già dimenticato il passato prossimo in cui «gli albanesi eravamo noi»; così finiamo per confondere le cause con gli effetti e attribuiamo a un presunto odio ancestrale le guerre tra due popoli dimenticando che, viceversa, sono proprio le guerre a generare l’odio; così succede che il ricordo delle nostre sofferenze ci rende ciechi e insensibili a quelle degli altri sui quali, anzi, riversiamo la nostra sete di rivalsa.
Ma la legislazione sugli stranieri sancita nel libro dell’Esodo non si fondava proprio sulla riflessione inversa: «Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Esodo 23,9)? In realtà la Bibbia ci fornisce a più riprese una preziosa indicazione: la memoria, cioè il rapporto con il passato, è innanzitutto un fatto interiore, essenziale per discernere il presente e per operare in un futuro nuovo. Un’interiorità che, come ci ricorda Jorge Semprun, un sopravvissuto dei campi di sterminio nazisti, conosce «una dialettica tra il tempo della memoria e il tempo della capacità di ascolto che sfugge completamente alla volontà dei testimoni». Non è certo un caso se solo in questi ultimi anni stiamo assistendo a una maggior disponibilità, quasi a uno sfogo liberatorio, da parte degli ultimi sopravvissuti nel narrare l’inenarrabile dell’inferno concentrazionario: quelle stesse persone cui gli aguzzini avevano predetto l’incredibilità dei loro racconti, quelle persone cui amici e familiari avevano suggerito di cercare di dimenticare, quelle persone che avevano visto morire, assieme a ogni umanità, anche le proprie facoltà di comunicazione.
A noi, nel nostro quotidiano in cui raramente siamo obbligati a chiederci come ci esorta Primo Levi «se questo è un uomo», spetta il compito di tener desta la memoria anzi, siamo paradossalmente chiamati a ricordarci di quello che non abbiamo mai appreso e perfino di ciò che ignoriamo. Tutto questo affinché sia viva l’identità, affinché restino aperte vie di senso, affinché l’umanità non perda se stessa: «L’uomo – scrive Wiesel – è definito dalla sua memoria individuale, legata alla memoria collettiva. Memoria e identità si alimentano reciprocamente... Per questo dimenticare i morti significa ucciderli una seconda volta, negare la vita che hanno vissuto, la speranza che li sosteneva, la fede che li animava». Dimenticare significa uccidere assieme alloro passato anche il futuro che esso conteneva, significa mortificare il nostro presente privandolo di ogni sbocco futuro, significa nutrirsi di menzogna e negarsi ogni possibilità di giungere alla propria e all’altrui verità, come ricorda l’anziano Elhanan nella sua preghiera: «Dio di verità, ricordaTi che senza la memoria la verità diventa menzogna poiché essa non prende che la maschera della verità. RicordaTi che è grazie alla memoria che l’uomo è capace di ritornare alle fonti della propria nostalgia per la Tua presenza».
Enzo Bianchi
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