Aveva deciso di non tacere monsignor Oscar Arnulfo Romero, voce coraggiosa del popolo salvadoregno; aveva scelto la strada della denuncia aperta contro violenze e ingiustizie in difesa dei diritti umani, in un momento in cui la stragrande maggioranza della popolazione versava in condizioni economiche estremamente difficili...
del 29 aprile 2009
 Aveva deciso di non tacere monsignor Oscar Arnulfo Romero, voce coraggiosa del popolo salvadoregno; aveva scelto la strada della denuncia aperta contro violenze e ingiustizie in difesa dei diritti umani, in un momento in cui la stragrande maggioranza della popolazione versava in condizioni economiche estremamente difficili e le progressive ribellioni, i colpi di stato militari e delle forze dell’estrema destra conducevano irrimediabilmente alla guerra civile.
El Salvador era allora tiranneggiato da poche decine di famiglie ricche che sfruttavano terre e contadini senza il benché minimo riguardo per le effettive esigenze del paese e della popolazione. La situazione politica interna era incandescente: gli interessi dei due fronti antagonisti, l’oligarchia al potere e le rappresentanze popolari si mescolavano in una miscela esplosiva con quelli delle grandi potenze mondiali. In tale contesto Romero, uomo timido e introverso, viene spinto dalle circostanze a divenire strenuo difensore del popolo. Ordinato sacerdote nel 1942, negli anni della sua prima formazione è un moderato, un uomo prudente, considerato dal clero del suo tempo conservatore e tradizionalista. Guarda con apprensione anche all’assemblea di Medellìn, nella quale la Chiesa latinoamericana aveva fatto la coraggiosa opzione per i poveri.
La sua laboriosità e l’obbedienza gerarchica gli valgono la nomina a vescovo nella diocesi di Santiago de Maria. All’epoca però porta avanti il suo mandato senza riuscire ad avere un particolare ascendente sulla comunità dei fedeli. Nel 1977 viene nominato Arcivescovo di San Salvador, capitale del paese, e la scelta della sua persona per un posto così di rilievo è addirittura salutata dal potere politico come una vera e propria vittoria. È a questo punto che la vita del Vescovo subisce una svolta radicale. Poco dopo l’inizio del nuovo incarico, il suo fraterno amico padre Rutilio Grande, che aveva abbracciato la causa dei contadini, viene ucciso. Nella omelia funebre riconosce che egli è morto solo per aver voluto strenuamente difendere e proclamare la dottrina sociale della Chiesa. Tema caldo dell’epoca era infatti proprio il rapporto fede-politica, emerso dopo il Concilio Vaticano II, e la presa di posizione di gran parte del clero sudamericano in favore della teologia della liberazione e della dottrina sociale della Chiesa.
Sono in molti a ritenere che dopo tale tragico evento il nuovo vescovo subisca una vera e propria conversione arrivando a considerare l’assassinio un atto contro la Chiesa e modificando il suo giudizio sui detentori del potere in Salvador.
Da quel momento diventa un defensor civitatis, e sentendo tutta la responsabilità del proprio ruolo reagisce difendendo la Chiesa e il proprio popolo. In realtà, più che un convertito sulla via di Damasco, Romero appare come un uomo dalla grande apertura mentale, e più che di vera e propria conversione sarebbe giusto parlare della “evoluzione” di un uomo che, abbandonando progressivamente posizioni più tradizionaliste, si apre alle posizioni del Concilio Vaticano II perché si rende conto di doversi adattare ai tempi e di aprirsi alla voce dello Spirito che parla nella e dalla vita della gente. Da Arcivescovo della capitale sente su di sé una responsabilità pubblica nuova che gli impone un certo attivismo. Non può rimanere indifferente di fronte alla difficile situazione politica che coinvolge tutto il popolo. Iniziano dunque le “omelie denuncia” in cui leva alta la sua voce contro le tante violazioni dei diritti umani che si verificano nel paese. La Cattedrale diventa il luogo in cui al commento delle letture bibliche segue l’elenco puntuale, dettagliato, anagrafico dei desaparecidos, degli assassinati della settimana e, quando possibile, anche dei loro assassini o mandanti. Romero rivolge le sue accuse contro il clima di violenza e intimidazione creato dal Governo e si schiera apertamente a favore dei meno abbienti. Nelle sue parole appare chiara l’“opzione preferenziale” per i poveri: “I poveri sono coloro che ci dicono che cos’è la polis, la città; che cosa significhi, per la Chiesa, vivere realmente nel mondo... Ci siamo incontrati con gli operai, che sono senza diritti sindacali e che vengono scacciati dalle fabbriche non appena provino solo a reclamarli, che sono alla mercè dei freddi calcoli dell’economia... Ci siamo incontrati con le madri e le spose dei desaparecidos e dei prigionieri politici... Questo incontro con i poveri ci ha fatto recuperare la verità centrale del Vangelo nel quale la parola di Dio ci sollecita alla conversione... La speranza che predichiamo ai poveri perché sia loro restituita la dignità, è per dare loro il coraggio di essere, essi stessi, gli autori del proprio destino. In una parola, la Chiesa non solo si è voltata verso il popolo, ma fa di lui il destinatario privilegiato della propria missione”.
Con parole semplici e dirette si rivolge ai suoi fedeli reinterpretando tutto, anche i momenti difficili che vive il popolo salvadoregno, alla luce del Vangelo. Da bravo comunicatore quale è, riesce a farsi capire dal popolo anche scegliendo mezzi decisamente anticonvenzionali per i tempi: la sua voce, oltre che dall’altare, arriva alla gente tramite il mezzo radiofonico o addirittura, quando si sposta per il paese in automobile, tramite l’altoparlante. Tutto ciò è una testimonianza chiarissima della vicinanza e della passione per la sua gente.
Ma nutre anche un amore inattaccabile per la Chiesa. Entrato a far parte della schiera degli innovatori conciliari, è un convinto assertore della necessità che la Chiesa diventi guida morale della società e pertanto che ispiri la politica nel senso dell’etica e della giustizia: “La nostra Chiesa deve impegnarsi senza paura nelle situazioni concrete, storiche, politiche del momento, continuando ad essere sempre Chiesa e Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo… La fede in Dio impegna l’uomo nella storia”.
In qualche modo dunque vuole attualizzare la dottrina, calare la fede nella quotidianità usandola come mezzo per operare per il bene comune. Ritiene necessario vivere il Vangelo solidarmente con le angosce e le speranze degli uomini. Non fa mistero del suo sogno di un paese liberato da ingiustizie, odi, rancori, divisioni. Tuttavia la difesa dei diritti umani e della dignità dell’uomo, sia pure perseguita partendo dai testi della parola di Dio, disturba non solo i detentori del potere ma anche tutti coloro che si ergono a difensori della cristianità di fronte al comunismo ateo. Romero diviene così oggetto di strumentalizzazioni oltre che di critiche feroci da parte di molti settori ecclesiastici. In realtà, come rivelano i suoi collaboratori più stretti, ha una grande capacità di distacco da questioni partitiche. Libero da gabbie e pregiudizi ideologici, afferma: “La Chiesa non può confondersi in nessun modo con il partito politico, anche se spesso si ricercano obiettivi a volte simili, come la giustizia sociale, la partecipazione politica di tutti i cittadini”. Non è un rivoluzionario, perché aborrisce la violenza, da qualunque parte provenga. Predica contro di essa richiamando all’amore. È superiore ai fronti politici contendenti, e lontano da un discorso di opposti estremismi cerca sempre la conciliazione ma senza rinunciare ad esprimere il suo personale giudizio sulla realtà. In lui colpisce la grande fedeltà ai propri principi, la capacità di schierarsi con il popolo partendo dal suo punto di vista cristiano fino alle estreme conseguenze, senza politicizzazioni, coerentemente con le scelte frutto della sua evoluzione personale.
Non deve essere facile infatti la vita del vescovo di San Salvador, sottoposto a pressioni continue, critiche, allo strazio per le condizioni della sua gente e alle minacce che gli provengono dal potere che avversa. E certamente Romero non è l’indomito combattente descritto dai tanti films realizzati per raccontare la sua storia; aveva un carattere complesso, un comportamento non sempre lineare, a volte insicuro. Ma proprio questo lo rende così vicino, così umano. Aveva paura, come tutti gli uomini che vivono in una situazione di pericolo: “Ho paura per la violenza verso la mia persona. Temo per la debolezza della carne, ma chiedo al Signore che mi dia serenità e perseveranza... L’altro mio timore è riguardo ai rischi della mia vita. Mi costa accettare una morte violenta che in queste circostanze è molto probabile... Le circostanze sconosciute si vivranno con la grazia di Dio. Gesù Cristo assistette i martiri e, se necessario, lo sentirò più vicino nell’affidargli il mio ultimo respiro”. E nonostante tutto, fedele alla sua missione pastorale, rifiuta la scorta che gli viene offerta in seguito all’aggravarsi della situazione politica: “Sarebbe una contro-testimonianza pastorale se io potessi muovermi sicuro mentre il mio popolo vive nel pericolo”.
La sua umanità è rivelata anche dalle testimonianze di chi conoscendolo notava una grande differenza tra ciò che era fuori e ciò che diventava sull’altare. Da uomo incerto, influenzabile e apparentemente fragile nel quotidiano, sul pulpito acquistava grinta e coraggio, trasformandosi, per amore del suo popolo, nella voce forte e risoluta che periodicamente denunciava ingiustizie e soprusi. Negli ultimi mesi della sua vita, presagendo l’irreparabile, arriva alla accettazione della morte, fa ciò che crede suo dovere, lasciando alla volontà divina la soluzione finale della sua vita: “Spesso hanno minacciato di uccidermi. Come cristiano devo dire che non credo nella morte senza resurrezione: se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno. Lo dico senza superbia, con la più grande umiltà. In quanto pastore ho l’obbligo, per divina disposizione, di dare la mia vita per coloro che amo, ossia per tutti i salvadoregni, anche per coloro che potrebbero assassinarmi. Se le minacce giungessero a compimento, fin d’ora offro a Dio il mio sangue per la redenzione del Salvador. Il martirio è una grazia di Dio che non credo di meritare. Ma se Dio accetta il sacrificio della mia vita, il mio sangue sia seme di libertà e segno che la speranza sarà presto realtà.[...] Morirà un vescovo, ma la Chiesa di Dio, ossia il suo popolo, non perirà mai”.
Romero era dunque un grande ostacolo da eliminare e non solo per il suo progressismo politico... Parlava troppo, dava ai poveri la speranza del cambiamento alla luce della parola di Dio, ogni giorno presentava il conto delle vite umane, poneva gli uomini di fronte alle proprie responsabilità e alle proprie coscienze, e niente è più destabilizzante del porre gli individui davanti alla coscienza personale. La sua ultima omelia è un accorato appello contro la repressione e in qualche modo sarà anche la sua definitiva condanna a morte: “Vorrei rivolgere un invito particolare agli uomini dell’esercito... Fratelli, appartenete al nostro stesso popolo, uccidete i vostri fratelli contadini; ma davanti ad un ordine di uccidere che viene da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice: NON UCCIDERE... Nessun soldato è obbligato ad obbedire ad un ordine che sia contro la legge di Dio... Una legge immorale nessuno deve adempierla. È ora, ormai, che recuperiate la vostra coscienza e obbediate anzitutto ad essa, piuttosto che all’ordine del peccatore. La Chiesa, che difende i diritti di Dio, della legge di Dio, della dignità umana, della persona, non può rimanere in silenzio di fronte a così grande abominazione. Vogliamo che il governo si renda conto sul serio che non servono a niente le riforme se sono macchiate con tanto sangue… In nome di Dio, dunque, e in nome di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono al cielo sempre più tumultuosi, vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: Basta con la repressione!”.
La sera del 24 marzo verso le 18.30 nella cappella della Divina Provvidenza, Romero termina la sua omelia, e si appresta al momento dell’offertorio. Uno sparo e il vescovo si accascia.
Ma da morto fa più rumore che da vivo. Per la sua gente, per la Chiesa nel mondo, egli è martire, per aver voluto illuminare la politica e la vita sociale a partire dal Vangelo, dando un messaggio di speranza nella realizzazione del Regno di Dio e di un mondo migliore.
Non è morto invano. La sua voce è rimasta nel cuore del suo popolo, dove nessuno potrà mai spegnerla.
La storia del vescovo Oscar Arnulfo Romero è una storia da raccontare, che narra del difficile cammino di un uomo di Chiesa in un paese tormentato da lotte politiche, ingiustizie, povertà; che narra di una conversione ai poveri, dell’ascolto della voce dello Spirito che parla dentro la storia, che mostra un volto di Chiesa vicina alla vita della gente, che si erge a testimone dei valori della vita e del Vangelo, che esalta e sublima le tante croci portate e il tanto sangue versato, da laici e uomini e donne di chiesa, in difesa della giustizia, dei diritti dell’uomo, in cui si manifesta l’anelito della passione di Gesù per il Regno, una vita piena e abbondante per tutti.
Ma questa vita per tutti ha bisogno dei suoi martiri: coloro che lo annunciano, coloro che lo testimoniano, coloro che se ne assumono il peso di croce, lungo la stessa strada tracciata da Ges√π.
 
Cristina Mustari, Note di Pastorale Giovanile
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