«Sono nato ebreo, sono vissuto cristiano ma morirò da ebreo»: lo “strano caso” di padre Gregor Pawlowski, nato Jacob Zvi Griner, interpella sullo stato del dialogo tra cristiani ed ebrei.
È una storia agrodolce, di gratitudine e di rimorso, di appartenenze e di esclusione, quella che si con-clude questa settimana nella cittadina polacca di Izbica: il prete cattolico Gregor Pawlowski, nato ebreo polacco col nome di Jacob Zvi Griner, che dopo la Guerra volle farsi prete e vivere il ministero nelle comunità cattoliche in Israele, sarà sepolto accanto ai famigliari sterminati nel 1939, e con rituale giudaico.
La notizia e i dettagli ci vengono da Jeremy Sharon, che ne ha scritto il 1º novembre sul Jerusalem Post. Jacob Zvi Griner, il futuro padre Gregor Pawlowski, nacque nel 1931 nella cittadina polacca, in una famiglia di pii israeliti (i genitori avevano un altro figlio e due figlie, oltre a lui). Nel 1939, cioè quando il bambino aveva 8 anni appena, i nazisti occuparono la città e trasferirono la popolazione ebraica in un ghetto, costringendola ai lavori forzati: il padre fu portato via già in quell’occasione, e con ogni probabilità assassinato. Il fratello Chaim riuscì a fuggire in Russia in un momento in cui i Sovietici controllavano l’area. Nel 1941 tutti gli ebrei di Zamosc furono trasferiti a Izbica, e in quel frangente il giovane Jacob, allora decenne, riuscì a fuggire: il resto della famiglia fu fucilato insieme con un altro migliaio di ebrei.
Il ragazzino riuscì a sgusciare via tra mille pericoli, e prima della fine della guerra aveva ottenuto un certificato di battesimo cattolico. La situazione doveva tuttavia essere dubbia, visto che il battesimo (se davvero era stato impartito) fu ripetuto sub condicione a guerra finita, il 27 giugno 1945, quando Jacob/Gregor non aveva ancora compiuto i 14 anni.
Le notizie a questo punto si fanno laconiche, ma è evidente che non fu (più) la (sola) necessità a muovere le azioni del ragazzo, che dopo le superiori volle entrare in seminario e divenne prete – a 26 anni, dunque un po’ più tardi della media degli ordinati – nel 1958. Otto anni dopo, ossia nel 1966, padre Pawlowski raccontò la sua storia a un giornale cattolico di Cracovia e annunciò di star considerando la possibilità di andare a esercitare il proprio ministero in Israele.
Quanto alla memoria della famiglia, il prete ebreo la onorò come potè erigendo un monumento nel luogo dell’omicidio della madre e delle sorelle. L’epigrafe trasmette un’amarezza che non sembra riguardare la sola perdita degli affetti:
Ho abbandonato la mia famiglia per salvare la mia vita al tempo della Shoàh. Erano venuti a prenderci per sterminarci: la mia vita l’ho salvata e l’ho consacrata al servizio di Dio e dell’umanità.
Sembra al contempo una confessione e un’apologia, in cui lo stato di vita scelto sembra esprimere al contempo la gratitudine per l’aiuto ricevuto e il rimorso per l’“abbandono”.
Il prete ebreo riuscì a trasferirsi a Giaffa nel 1970, e lì trovò non solo una comunità che l’accolse calorosamente, ma pure il fratello Chaim, che era sopravvissuto alla guerra e che l’aveva contattato dopo aver letto la pubblicazione di quattro anni prima. Da lì sarebbero partiti 38 anni di ministero pastorale nelle comunità della zona, e anche dopo il pensionamento padre Gregor avrebbe continuato il proprio ministero collaborando con gli altri sacerdoti.
La novità arrivò nel 2014, quando l’ottantatreenne prete ebreo fu contattato dal rabbino Shalom Malul, il quale si era recato a Izbica nel contesto di un viaggio in Polonia con i suoi studenti: lesse l’epigrafe sulla lapide, fece ricerche e contattò l’ormai vecchio Jacob/Gregor. Ne nacque una dolce amicizia, nell’alveo della quale il Sopravvissuto aprì il cuore col rabbino, esprimendo il desiderio di essere sepolto “da ebreo” accanto alla madre e alle sorelle: «Sono nato ebreo, sono vissuto cristiano e morirò da ebreo. Il mio cuore si sente ebreo». Rabbì Malul spiegò:
Per più ragioni decise di non tornare al popolo ebraico durante la sua vita, ma disse a tutti “Sono ebreo e tornerò al mio popolo il giorno della mia morte”.
Lo stesso Rabbì Malul – che nel corso di questi anni aveva incoraggiato padre Pawlowski a mettere la mezuzàh sulla porta di casa (e a compiere da sé il rito dell’affissione) – partirà domani, mercoledì 3 novembre, per recarsi in Polonia a officiare la sepoltura dell’amico secondo i suoi desiderî.
Il rabbino ha provato in questi giorni a gettare luce sullo “strano caso” del prete ebreo, dicendo che Pawlowski avrebbe dedicato la sua vita alla Chiesa cattolica perché la sua vita era stata salvata da loro, e per questo provava un’intensa gratitudine.
Per i cristiani, che si sentono da sempre almeno «spiritualmente semiti» (la storica espressione di Pio XI), un prete ebreo è un caso meno singolare di un prete ebreo che sembri vivere la fede cristiana (e perfino il ministero sacerdotale) come un debito di gratitudine (magari venato di volontà di espiazione?): è facile immaginare che in questa matassa aggrovigliata siano confluite molte contraddizioni della tormentata relazione tra cristiani ed ebrei nel corso dei secoli.
Sarebbe bello portarci tutti, almeno spiritualmente, al funerale di questo figlio di Israele e padre di cristiani, e starcene volentieri in disparte, noi cristiani, ad ascoltare riti che facilmente riusciamo a condividere senza compiere esteriormente riti che altri fatichino a condividere. Ce ne staremmo in un angolo, da buoni “ebrei marginali”, a mormorare rivolti a padre Jacob le parole del grande Ebreo Marginale:
Bene, servo buono e fedele […]: sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo signore.
Mt 25,21
tratto da aleteia.org
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