Lo hanno chiamato lo “Schindler d'Africa” e 10 anni fa gli hanno dedicato un film. Da Bruxelles accusa: «L'attuale governo imprigiona o uccide i suoi rivali politici».
«Vorrei essere a Kigali, soprattutto in questo mese». Ma non ci può tornare Paul Rusesabagina in Rwanda, nonostante venti anni fa salvò la vita a 1268 persone durante il terribile eccidio tra hutu e tutsi, dove 800mila persone morirono massacrate barbaramente a colpi di machete. Lo hanno chiamato lo “Schindler d’Africa”. Lavorava all’Hotel Milles Collines, struttura che dieci anni dopo il cinema ha ribattezzato Hotel Rwanda, nell’omonimo film che racconta quei terribili giorni vissuti nel Paese africano. Ma ora vive in Belgio, praticamente in esilio, e l’articolo che scrive al Boston Globe è una triste considerazione su come le cose non siano cambiate nei due decenni trascorsi da quel bagno di sangue.
SALVO’ 1268 CIVILI. La sua storia è ben raccontata nella pellicola di Terry George: Paul era hutu sposato con donna tutsi, e quando il 6 aprile 1994 scoppiarono le tensioni all’interno del suo Paese si trovò ad ospitare alcune persone in casa sua. Pochi giorni dopo erano già diventate 26, che Rusesabagina portò nell’albergo di lusso di cui era manager. E di lì a poco i rifugiati crebbero di numero, accampati nei corridoi dell’hotel e difesi con scambi di alcol e denaro. «Ho speso quei lunghi giorni e notti provando disperatamente a raggiungere il mondo fuori e mantenere in vita tutti coloro che erano sotto le mie cure. Ero convinto che se la comunità internazionale avesse sentito cosa stava accadendo in Rwanda sarebbero venuti e ci avrebbero salvato dal massacro. Chiamavo e chiamavo ma nessuno veniva. Sapevo che in ogni momento avrei potuto morire, così come le 1268 persone che avevano cercato rifugio all’hotel. Ma in qualche modo siamo sopravvissuti».
NEL ’96 PROVARONO A UCCIDERLO. Oggi Rusesabagina scrive dal Belgio dove ha una fondazione che si occupa di diritti umani. In Rwanda non torna, anche se dopo la fine del genocidio aveva promesso di aiutare il suo popolo a ricostruire il Paese, sperando che quelle parole, “mai più”, sarebbero state vere per la sua terra e le altre nazioni martoriate da simili conflitti: «Speravo che se avessi parlato del genocidio avrei potuto assicurare che non sarebbe più successo. Ho educato decine di migliaia di persone ogni anno circa l’eccidio e come il mondo ha bisogno di prevenirne un altro. Ma sono preoccupato per la mia terra madre».
La realtà è ben diversa da quella di chi crede che il Rwanda ora sia in pace. Da Kigali Paul se n’è andato dal ’96, quando ha subito un tentativo di assassinio, e spiega come nel Paese «perdono e riconciliazione si sono arenati. La gente ha paura di parlare. Io ho ancora paura: dato che ho parlato di ingiustizia, violazione di diritti umani e di spazi politici del tutto chiusi, non posso tornare a Kigali per piangere le nostre perdite e celebrare le nostre crescite».
IL NEMICO KAGAME. Il riferimento è a Paul Kagame, ora presidente del Paese, che ha espulso la sua fondazione quando era nata in Rwanda come organo d’assistenza per orfani e vedove: è considerato un nemico per aver rigettato la proposta di collaborare col nuovo regime. Lo hanno accusato di essere stato in Uganda ad addestrare forze paramilitari, mentre invece da anni si è trasferito a Bruxelles: qui ha fatto il tassista, si è costruito una nuova vita e adesso segue le cronache del suo Paese a distanza.
«Non stavo zitto quando le milizie Hutu uccidevano civili innocenti. E così non posso stare zitto oggi quando l’attuale governo del Rwanda imprigiona o uccide i suoi rivali politici. Non posso stare zitto quando il Rwanda manda le sue armate nella Repubblica Democratica del Congo per inseguire i ribelli hutu». E chiude: «La migliore commemorazione sarebbe riunire tutti i rwandesi, hutu e tutsi, attorno ad un tavolo per condurre un processo di verità e riconciliazione».
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