Una madre costretta a partorire a un checkpoint. Quando incontro Naima, ha un sorriso velato dalla tristezza, la gioia di dare alla luce sua figlia è stata offuscata dalla polvere del checkpoint, dalla paura e dall'umiliazione...
del 17 aprile 2006
E’ la mattina del 14 Marzo 2006. Dopo nove mesi di attesa, Naima sente che si avvicina l’ora in cui il suo quinto figlio verrà alla luce. Naima non ha ancora trent’anni e vive a Hizma, un piccolo villaggio a una manciata di chilometri da Gerusalemme, che vede dalle finestre di casa, così vicina eppure così lontana visto che il muro, con il suo cupo grigiore, separa il suo villaggio dalla città.
 
 Gerusalemme è irraggiungibile per quelli che, come Naima, non possiedono la carta di identità di Gerusalemme. Appena Naima sente i primi dolori che preannunciano la nascita di suo figlio, decide, come ha fatto le altre volte, di prendere un taxi e dirigersi verso Ramallah: suo figlio non potrà nascere a Gerusalemme, così vicina eppure così lontana. Il tragitto per raggiungere Ramallah, distante una decina di chilometri, è di circa tre quarti d’ora, considerando i vari ostacoli, le strade che i Palestinesi non possono percorrere e i checkpoints. Ma non è un giorno come gli altri, è in corso l’assedio israeliano alla prigione di Gerico e la tensione è più alta del solito: i controlli delle forze d’occupazione israeliane sono più intensi, tanto da rendere quasi impossibile spostarsi.  Ma Naima non può aspettare, suo figlio sta per nascere e, accompagnata dalla madre, sale sul primo taxi disponibile, che dopo poche centinaia di metri viene fermato da una pattuglia di militari israeliani. Il veicolo blindato sbarra loro la strada, è un cosiddetto ‘flying checkpoint’, in qualsiasi istante i militari possono bloccare il flusso di mezzi e persone sulle strade della Cisgiordania. I documenti dei passeggeri del taxi vengono scrupolosamente controllati e dopo circa un quarto d’ora l’auto viene lasciata passare.
 
Ma dopo pochi chilometri il taxi deve nuovamente fermarsi, c’è coda, le auto sono incolonnate e non sembrano destinate a muoversi rapidamente. I dolori sono ancora sopportabili e dopo aver atteso mezz’ora Naima e la madre decidono di scendere e proseguire a piedi, superano la colonna di vetture e raggiungono un altro ‘flying checkpoint’, mostrano i loro documenti ai militari e chiedono di essere lasciate passare in fretta visto che c’è una nuova vita in attesa di venire alla luce, non può aspettare. Dopo il secondo controllo Naima e la madre prendono un altro taxi, mentre i dolori si fanno più intensi e le contrazioni più frequenti. L’auto percorre la strada dissestata e ogni buca è una pugnalata per Naima, che sente il parto avvicinarsi e la paura di non raggiungere l’ospedale crescere, ma gli ostacoli non sono finiti. Il taxi si ferma davanti alla sbarra che chiude la strada per accedere a Ramallah, ma ci sono ancora più di 300 metri prima che Naima possa raggiungere a piedi i cancelli di ferro del ‘terminal’ di Atarot (Qalandia) e successivamente proseguire per Ramallah con un altro taxi.
 
 Mentre cammina i dolori diventano insopportabili, il tempo non è abbastanza e sente le forze scemare, fa in tempo a raggiungere il muro in prossimità del checkpoint e si accascia al suolo: suo figlio sta nascendo ai piedi del muro della “hafrada” (separazione in ebraico).  Un medico di passaggio le presta soccorso e così fanno i passanti, i militari israeliani di servizio al checkpoint si avvicinano, guardano e rapidamente si allontanano senza prestarle alcun soccorso. E’ una bimba e si chiamerà Hanadea, nata lì ai piedi del muro che separa la Cisgiordania dalla Cisgiordania, lacerandola. Il medico chiama un’ambulanza della Mezzaluna Rossa, mentre Naima inizia a perdere molto sangue, questo parto è stato particolarmente difficile e giacere sul selciato lo ha reso ancora più doloroso. La paura è stata molta e l’umiliazione di dover condividere un momento così intimo con la folla di passanti, in mezzo alla polvere, lo ha reso particolarmente traumatico. Trascorre mezz’ora prima che l’ambulanza arrivi, poi Naima e sua figlia possano finalmente avviarsi verso l’ospedale di Ramallah, ma c’è ancora un altro checkpoint da passare. Questa volta, visto che si tratta di un’ambulanza i militari sono meno esigenti e dopo un breve controllo lasciano passare il mezzo. Naima non aveva potuto chiamare l’ambulanza da casa perché non ha il telefono ed era sicura, visto le precedenti esperienze, di avere il tempo sufficiente per dare alla luce sua figlia in ospedale. Ma anche il tempo in Palestina non è patrimonio dei Palestinesi, è alla totale mercé delle forze di occupazione israeliane.  Quando incontro Naima, ha un sorriso velato dalla tristezza, la gioia di dare alla luce sua figlia è stata offuscata dalla polvere del checkpoint, dalla paura e dall’umiliazione. Hanadea è piccolissima, ha circa due settimane, ma ha già vissuto abbastanza per provare la durezza del regime di occupazione militare, illegale e umiliante, che opprime la sua terra e il suo popolo.
 
 
Fonte: www.peacereporter.net 
Grazia Careccia lavora in Palestina per l'organizzazione non governativa al-Haq
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