Nella clinica della speranza 23 Eluana continuano a vivere

Locked in, chiusi dentro. Così la letteratura scientifica tenta di descrivere lo stato vegetativo permanente. Usando un'immagine tanto semplice quanto efficace, quella di un corpo rinchiuso in una bottiglia, separato dal resto del mondo e impossibilitato a comunicare con chiunque al di là del vetro. Se non, in alcuni rari casi, sbattendo le palpebre, ruotando gli occhi, emettendo labili rantoli.

Nella clinica della speranza 23 Eluana continuano a vivere

da Attualità

del 29 gennaio 2009

Locked in, chiusi dentro. Così la letteratura scientifica tenta di descrivere lo stato vegetativo permanente. Usando un’immagine tanto semplice quanto efficace, quella di un corpo rinchiuso in una bottiglia, separato dal resto del mondo e impossibilitato a comunicare con chiunque al di là del vetro. Se non, in alcuni rari casi, sbattendo le palpebre, ruotando gli occhi, emettendo labili rantoli.

 

Primo piano della casa di cura “I Cedri”, Fara Novarese, reparto comi. Qui i pazienti ricoverati sono ventitré, la lista di attesa per un posto letto nell’unico centro in grado di accogliere casi simili ne conta circa una quindicina. Donne e uomini di tutte le età, vittime di incidenti stradali, ictus, arresti cardiocircolatori. Ma anche Sla, anoressia e altre gravi patologie che hanno messo un punto fermo a quella che «tutti sono abituati a considerare vita - dicono i parenti -, ma che per noi ha assunto un significato molto più ampio». Non una cieca speranza, quella di un recupero che gli stessi medici considerano impossibile, ma la certezza che «la vita debba continuare, in qualsiasi modo. Senza accanimento terapeutico, noi continuiamo a fare il nostro dovere di medici: assistiamo fino all’ultimo minuto i nostri pazienti». Nessuno qui ha mai chiesto che venissero interrotte le cure che ancora tengono in vita i propri cari, anzi. Qualcuno, venuto a conoscenza del caso di Greta, ha persino raccolto informazioni sulla stimolazione elettromagnetica corticale. «Putroppo, in questi casi, è inutile alimentare vane speranze - spiega la dottoressa Tiziana Ongari -. In rarissimi casi si può parlare di lievi miglioramenti, di un passaggio dallo stato vegetativo ad una condizione di minima coscienza. Non certo miracoli». Assieme a lei altri due medici si occupano del reparto, il dottor Edoardo Zamponi e il dottor Giancarlo Pessarelli, con l’aiuto di un team di operatrici sanitarie e infermiere che non perde di vista le camere dei pazienti nemmeno per un istante. «Abbiamo l’abitudine di considerare i nostri pazienti come normali degenti - continua la dottoressa Ongari - . Spesso cerchiamo di comunicare con loro mentre li visitiamo e, anche solo dal movimento degli occhi, comprendiamo se stanno soffrendo o chiedono maggiore attenzione. In alcun caso si può parlare di morte, questa è vita».

 

Le ventitré stanze del reparto sono arredate con cura del particolare, le fotografie alle pareti raccontano la vita che continua, televisioni e radio trasmettono notizie, film, canzoni. Dando un senso di assoluta normalità a quelle storie tragiche, ricreando un clima familiare specie per quei parenti che hanno scelto, alcuni da oltre dieci anni, di vivere insieme ai loro cari. «L’assistenza convenzionata - spiega il direttore amministrativo della casa di cura, Maurizio Tarantino - prevede, per quei parenti che lo desiderano, di rimanere notte e giorno a fianco dei loro cari. Un posto letto, nella nostra clinica, costa 269 euro al giorno. Senza il contributo della Regione per l’assistenza ai pazienti in stato vegetativo, sarebbe una spesa insostenibile per chiunque. Abbiamo ricoveri recenti, ma anche pazienti che sono qui da oltre dieci anni. Assisterli è un nostro dovere, fuori da ogni polemica o questione morale».

 

Le cartelle cliniche raccontano storie diverse, tutte ugualmente tragiche. «Mia madre - racconta Natascia Verza - è rimasta in un reparto di rianimazione per mesi prima di essere trasferita qui». La procedura per la dichiarazione dello stato vegetativo permanente prevede che il paziente resti in osservazione almeno sei mesi, onde evitare che un errore nella diagnosi faccia gridare poi al miracolo. «In quei momenti capita di pensare di tutto, anche che questa non sia vita - continua la donna trattenendo a stento le lacrime -. Mia mamma mi parla ancora con lo sguardo, lamentandosi quando prova dolore. Non potrei mai decidere di interrompere le cure». Giuseppe Bellini sta sistemando le fotografie dei nipotini alle pareti. Da quattro anni, ogni pomeriggio, torna da sua moglie Lina per poche ore. «Inizialmente ho sperato anch’io che morisse. Tutti la davano per spacciata ma il suo fisico ha reagito. Mia moglie era viva, è viva».

 

Enrico Romanetto

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